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Hannah Arendt al cinema

Come fare filosofia narrando una storia, Malgrado il boicottaggio di una distribuzione ottusa.

La circolazione semi-clandestina del bel film di Margarethe von Trotta Hannah Arendt, interpretato da una strepitosa Barbara Sukowa, che fu Rosa Luxemburg e Gudrun Ensslin in precedenti film della stessa regista, è uno dei sintomi più deprimenti dello stato della cultura italiana, almeno quanto la sua iniziale programmazione nel giorno della memoria testimonia la confusione di quella che dovrebbe esserne la sezione più consapevole. Detto educatamente, l’associazione fra Arendt e il film con la corrente gestione della memoria e in particolare della memoria della Shoah è piuttosto riduttiva e avrebbe irritato non poco la stessa pensatrice, detto più sbrigativamente non c’entra un cazzo. Al massimo è stata una buona scusa per fare emergere il film per un paio di giorni e forse ha invogliato qualche sala più coraggiosa (a Roma, al momento, il Farnese) a riprogrammarla.

Arendt usa infatti la memoria al servizio della riflessione e non quale appello morale, pedagogia edificante o supporto per operazioni politiche e, proprio per arrivare all’argomento del film, rifiuta qualsiasi suo impiego in apologia del sionismo e giustificazione emotiva di un nazionalismo. Nel suo dialogo polemico con Golda Meir e con Gerhard-Gershom Scholem (Hannah usava apposta nello scambio epistolare il nome tedesco con cui l’aveva frequentato prima del 1933 e non quello ebraico assunto dopo l’emigrazione in Palestina), dialogo qui attribuito con libertà autoriale a un altro suo amico sionista, Kurt Blumenfeld, Arendt dichiara di essere ebrea ma di non sentirsi obbligata ad amare il suo popolo (secondo l’ideologia di Ahavat Israel) o qualsiasi altra collettività, riservando tale sentimento solo agli amici e amanti. Se credente, a Dio, caso mai, oppure (atea qual era) al mondo, cioè all’insieme delle relazioni umane. Fra le quali, esplicitamente, annoverava le relazioni fra israeliani e palestinesi, su cui, come J. Magnes, aveva idee alquanti differenti da quelle di Ben Gurion e di Golda Meir, figuriamoci cosa avrebbe pensato di Begin, Sharon e Netanyahu.

Il film tratta appunto, con rari e discreti flash back sul suo rapporto con Heidegger, un periodo ristretto della vita e opera di H, Arendt, gli anni del processo Eichmann (1961-1962), della redazione dei resoconti sul «New Yorker» (poi rielaborati nel celeberrimo La banalità del male) e delle violentissime polemiche da essi scatenate negli ambienti israeliani ed ebraici americani e oggi virulentemente reiterate, in occasione della prima cinematografica (2013), su riviste democratico-progressiste in politica interna ma ultra-sioniste come «New Republic» (area Joe Lieberman, tanto per intenderci).

Le due tesi che avevano fatto scandalo ma oggi sono entrate nel senso comune erano 1) che Eichmann non era un genio del male, l’espressione del male radicale, ma un grigio burocrate la cui banale malvagità (non particolare dei nazisti, ma di tutti gli ossequenti servi del potere) consisteva nell’incapacità di pensare con la propria testa e nella propensione a rifugiarsi nell’obbedienza cieca agli ordini), 2) che una parte dei capi ebrei tedeschi (i membri degli Judenräte) si erano resi di fatto corresponsabili del genocidio, illudendosi di contrattarlo con i tedeschi.

Ne usciva indebolito anche l’uso abusivo della Shoah per legittimare, in nome delle vittime, l’insieme della politica israeliana.

Il film non è il solito biopic, magari ben fatto, ma un vero saggio cinematografico di filosofia, che dosa in modo equilibrato l’esposizione delle tesi essenziali di Arendt e la sua presentazione “fisica”: il rapporto compulsivo con le sigarette, la familiarità con la segretaria Lotte e la romanziera Mary McCarthy, la spregiudicatezza sessuale, l’amore carnale e reciprocamente non esclusivo per il comunista autodidatta Heinrich Blücher, l’incancellata fascinazione per Heidegger, il geloso risentimento del meno acuto Hans Jonas, gli intrighi accademici alla New York’s New School for Social Research, risolti in una pubblica difesa da antologia di fronte agli studenti. Che sia possibile, senza intoppi e lentezze, svolgere una narrazione e corredarla di pensiero –del resto, lo storytelling per Hannah non era il ponte giusto fra pubblico e privato e non l’aveva lei stessa mirabilmente praticato nel suo libro d’esordio e forse più perfetto, Rahel Varnhagen?– è un gran risultato della von Trotta e viene la voglia di accostare i suoi serrati diverbi ideologici al nevrotico teatro da camera cui è approdato il vecchio Polanski. Strade altrettanto valide di quelle diversissime battute da von Trier o Tarantino. Cinema, comunque, non manifesti “civili” alla Sorrentino o Veltroni…

Il film (sottotitoli italiani) è bilingue, come la Arendt –tedesco e inglese, con rari inserti in ebraico nelle scene girate a Gerusalemme– e già questo ci rende la complessità di un pensiero che ha plurime fedeltà e non si piega a ottemperanze unilaterali. L’opposto di una macchina ferroviaria e di sterminio, quale fu quella di Adolf Eichmann.