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ITALIA

Global Compact: un cambio di strategia nella governance delle migrazioni?

Che cos’è il tanto discusso accordo Onu che non piace a Salvini, alle destre europee e a Trump.

«Sul Global Compact ci sarà una posizione comune Lega-Cinque Stelle: sui migranti sceglie l’Italia, scelgono gli italiani». Così Salvini ha commentato la presa di posizione del governo sul Global Migration Compact, documento che verrà discusso il 10 e l’11 dicembre alla Conferenza delle Nazioni Unite di Marrakech. Il dibattito sul Global Compact è balzato in primo piano sulla scena politica di questi giorni, facendo emergere frizioni non solo fra maggioranza e opposizione, ma anche all’interno della compagine di governo. Ma di cosa si tratta? E perché il primo ministro Conte, che inizialmente aveva appoggiato questo documento, è stato costretto a fare un passo indietro, decidendo di non partecipare alla conferenza e «riservandosi di aderire o meno al documento solo quando il Parlamento si sarà pronunciato»?

Dal punto di vista giuridico, si tratta di un accordo volontario e non legalmente vincolante (a differenza ad esempio della Convenzione di Ginevra del 1951 sui Rifugiati). Già questo basterebbe per smorzare il rumore intorno alla necessità di una discussione preliminare in Parlamento, a maggior ragione quando tale esigenza viene posta dal governo di un Paese che non sembra aver mai usato particolare cura politica in materia di diritti dei migranti. A titolo d’esempio, basti citare la presunzione dell’urgenza che ha caratterizzato il dibattito antecedente la recente approvazione del Decreto sicurezza e immigrazione; o ancora, sotto il governo Gentiloni, la stipula nel 2017 del memorandum d’intesa con la Libia, accordo bilaterale di importanza cruciale per la definizione del sistema di controllo delle frontiere esterne, mai passato per il Parlamento. La posizione del governo su questo punto appare ancor più strumentale alla luce del fatto che all’interno dello stesso Global Compact la sovranità nazionale viene inserita fra i principi fondativi del patto: «Il Global Compact riafferma il diritto sovrano degli Stati nel definire le proprie politiche nazionali in materia di immigrazione all’interno della propria giurisdizione, in conformità con la normativa internazionale. All’interno della giurisdizione sovrana, gli Stati dovranno distinguere fra status di migrazione regolare e irregolare, e determinare le proprie misure politiche e legislative per l’implementazione del Global Compact, prendendo atto delle differenti realtà nazionali, politiche, priorità e requisiti per l’ingresso e in materia di residenza e lavoro, in conformità con la normativa internazionale». 

 

Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration è un accordo intergovernativo, negoziato sotto l’egida delle Nazioni Unite, che si pone per obiettivo il rafforzamento della cooperazione internazionale fra Stati attraverso l’adozione di un approccio che guardi alle migrazioni in «maniera olistica e comprensiva».

 

Il documento si fonda sull’assunto, apparentemente ovvio, che le migrazioni sono un fenomeno complesso, destinato ad aumentare e generato da molteplici cause. Le prime righe della presentazione del Global Compact pubblicata sul sito delle Nazioni Unite ben riassumono le premesse da cui parte questo testo e il tipo di esigenze a cui tenta di rispondere: «Oggi ci sono oltre 258 milioni di migranti nel mondo che vivono fuori dal loro paese di nascita. Questo dato è destinato ad aumentare a causa di diversi fattori, fra cui l’aumento della popolazione, la crescente interconnettività, il mercato, l’aumento delle disuguaglianze, gli squilibri demografici e i cambiamenti climatici. La migrazione offre grandi opportunità e benefici – per i migranti, per le comunità che li accolgono e per le comunità d’origine. Tuttavia, se scarsamente regolata, la migrazione può porre sfide importanti. Fra queste sfide ci sono il sovraccarico delle infrastrutture sociali causati dall’improvviso arrivo di grandi numeri di persone e le morti dei migranti che intraprendono viaggi pericolosi».

 

 

In sostanza, il Global Compact riconcettualizza le migrazioni come migrazioni di massa. Nonostante i limiti di questo documento – che vedremo a breve – questo cambio di paradigma rappresenta senza dubbio una novità importante, da non sottovalutare. Per la prima volta all’interno di una cornice intergovernativa si parla di migrazioni come un fenomeno che riguarda tutta la popolazione mondiale, determinato da fattori di tipo sociale, economico e ambientale. A partire da questo assunto, la comunità internazionale esprime l’esigenza di elaborare nuove strategie di governo della mobilità umana. In particolare, sembra che nella visione di fondo di questo documento le politiche d’asilo e quelle economiche siano da intendersi come complementari.  Un aspetto che emerge con chiarezza già dalla rappresentazione delle categorie dei “rifugiati” e dei “migranti”, posta fra i primi punti del preambolo. Il testo mantiene la divisione fra i due gruppi, ribadendo che solo ai rifugiati attualmente viene riconosciuta una protezione speciale garantita da leggi internazionali. Ma al contempo viene citata la Dichiarazione di New York sui Migranti e Rifugiati (2016), in cui si prende atto del fatto che «migranti e rifugiati possono avere molte difficoltà e vulnerabilità in comune. Rifugiati e migranti godono degli stessi diritti umani universali e libertà fondamentali, che devono essere rispettati, protetti e garantiti». Non si arriva dunque a un reale superamento della finta dicotomia fra migranti e rifugiati, ma sarebbe superficiale non notare che la visione proposta dal Global Compact rappresenta un primo passo, senza dubbio parziale, verso il superamento della retorica dei “finti rifugiati” portata avanti dalle destre europee. Non a caso Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, in un’intervista a La7 individua nel Global Compact un problema di «legittimazione culturale» di un modo di intendere le migrazioni incompatibile con l’attuale linea di governo su questo tema.

Il testo, lungo e complesso, si sviluppa intorno all’enunciazione di 23 obiettivi che gli Stati firmatari dovrebbero impegnarsi a realizzare per raggiungere l’obiettivo ultimo di una «migrazione sicura, ordinata e regolare». Nonostante la varietà di questioni toccate, si tratta soprattutto di un tentativo di elaborazione di una nuova strategia economica adeguata alla portata globale delle migrazioni.

 

«La migrazione è storicamente parte dell’esperienza umana e riconosciamo che costituisce una fonte di prosperità, innovazione e sviluppo sostenibile nel nostro mondo globalizzato, e tutti questi effetti positivi possono essere ottimizzati solo migliorando il sistema di governance delle migrazioni».

 

In altre parole, attraverso questo documento gli Stati invece di opporsi al fenomeno, affermano la necessità di strumenti di controllo delle migrazioni che siano in grado di massimizzarne i benefici per il mercato.

Se per anni si è lavorato sulle reti di trasporti per favorire la completa mobilità delle merci su scala globale, ora il Global Compact esprime l’esigenza di rendere massimamente produttivo il movimento del capitale umano, ponendo l’accento sulla necessità di «rafforzare la disponibilità e la flessibilità di canali d’accesso legali» (obiettivo 5). Il documento si propone di «facilitare la mobilità regionale e interregionale del lavoro attraverso accordi di cooperazione internazionale e bilaterale volti all’istituzione di regimi di libera circolazione, alla liberalizzazione dei visti o all’introduzione di visti validi per più paesi».

Al livello nazionale particolare attenzione viene posta alla promozione di meccanismi efficaci di skills-matching (cioè volti a far coincidere le competenze con la domanda) «attraverso il coinvolgimento dei più importanti attori economici – in particolare il settore privato e i sindacati». Tali soggetti avranno il compito di contribuire «all’analisi del mercato del lavoro locale, all’identificazione dei profili lavorativi richiesti e alla valutazione dell’efficacia delle politiche migratorie nel settore del lavoro, così da assicurare la massima responsività alle necessità del mercato attraverso canali regolari».

 

 

All’interno di questa logica principalmente economica, anche questioni come il rafforzamento dei sistemi di identificazione dei migranti, del controllo dei confini e delle rotte migratorie, sembrano assumere una funzione che va oltre la dimensione meramente securitaria.  È interessante osservare l’enfasi che viene posta sulla raccolta e sulla condivisione di dati personali e aggregati sull’emigrazione, da utilizzare come base per l’elaborazione delle politiche migratorie (obiettivo 1). La disponibilità di informazioni riguardanti il sesso, il genere, l’età, il paese di provenienza, le qualifiche professionali, così come, a livello macro, la possibilità di studiare con precisione i diversi tipi di flussi migratori, rappresentano dei punti di fondamentale importanza all’interno di un programma che si pone l’obiettivo di elaborare strumenti di controllo della mobilità umana coerenti con le esigenze di domanda e offerta di lavoro nel mercato globale.

 

Il proposito del Global Compact di affrontare il fenomeno delle migrazioni “a 360 gradi” rende difficile un’analisi accurata di questo documento, considerata la grande quantità di questioni toccate.

 

In questo articolo ho volutamente messo in luce alcuni aspetti, escludendone altri non perché meno importanti su una scala di priorità assolute. Ad esempio, senza dubbio si può leggere in tutto il documento una generale attenzione ai diritti umani, alle vulnerabilità spesso create dai percorsi migratori e una volontà di migliorare le condizioni di vita dei migranti. Ma anche su questo fronte, alcuni grossi limiti del testo – necessariamente frutto di molti compromessi – appaiono più evidenti quando si entra nello specifico. Solo per citare il più palese, colpisce immediatamente il fatto che sul tema della detenzione dei migranti ancora non si riesca a far passare una posizione di decisa condanna di questa pratica.

Altri punti di questo testo meriterebbero ognuno una trattazione a sé: il tema delle rimesse, la lotta al traffico dei migranti, il sistema di controllo delle frontiere, il ruolo dei programmi di sviluppo sostenibile nei paesi d’origine (il classico “aiutiamoli a casa loro”). Si è scelto qui di dare risalto a quegli elementi che sembrano mettere in discussione – seppur in termini spesso ambigui – l’attuale discorso dominante sulle migrazioni.  Sia chiaro, la tendenza a concepire le migrazioni come legittime prevalentemente all’interno di una logica di mercato, è tutt’altro che priva di problematicità (ribaltando il senso del discorso portato avanti da Giorgia Meloni, migrare dovrebbe essere un diritto anche soltanto “per chi gli va” di farlo). Tuttavia, considerato il generale generale clima d’odio e di chiusura alimentato dalla maggior parte dei governi occidentali, un documento che affermi che non è necessario scappare da guerra e torture per essere considerati soggetti titolari di diritti, non è cosa da poco. Nonostante il loro evidente valore formale, passaggi come quello riguardante la necessità di considerare i lavoratori migranti dotati degli stessi diritti degli altri lavoratori, menzionando, fra le altre cose, la specifica condizione di violenza e di ricatto a cui sono sottoposte le lavoratrici migranti donne (specialmente nel settore domestico), sembrano indicare la possibilità concreta di apertura di spazi di azione.

Le lotte su questi temi vengono portate avanti dagli uomini e dalle donne migranti da sempre, con prezzi altissimi in termini di vite umane perdute. Il documento non aggiunge niente di nuovo (e d’altronde sarebbe strano se lo facesse). Ma il riconoscimento formale da parte della comunità internazionale di alcuni diritti, che vanno oltre la dimensione strettamente umanitaria, rappresenta un passaggio importante per l’azione politica volta alla conquista effettiva di tali diritti, ben consapevoli che lo scontro per rovesciare il quadro attuale di sopraffazione e sfruttamento sarà sempre più duro.