approfondimenti
OPINIONI
Giso Amendola: «Distinguere tra crisi e trasformazione del diritto internazionale»
La “crisi del diritto internazionale” è spesso evocata nel dibattito pubblico, ridotta a formula che oscura i processi politici e materiali che la attraversano. Ma questa operazione, tutt’altro che neutra, rivela tensioni profonde e invita a immaginare possibili usi alternativi del diritto. Su questi temi abbiamo intervistato Giso Amendola, filosofo del diritto e attivista
Tra le categorie più frequentemente mobilitate nel dibattito pubblico per interpretare l’incapacità degli organismi sovranazionali nell’arginare la violenza che colpisce intere popolazioni in aree sempre più estese del pianeta – a cominciare dalla Palestina – la nozione di crisi del diritto internazionale occupa oggi una posizione centrale. Ma “crisi” è una categoria da maneggiare con cautela: il rischio è di trasformare la crisi in un semplice luogo comune analitico, incapace di restituire la complessità dei processi politici e materiali che la producono.
In questo senso, il dibattito in corso sembra investire una questione di portata ancora più generale: non soltanto la crisi del diritto internazionale, ma la presunta crisi dell’esperienza giuridica nel suo complesso. La dichiarazione divenuta virale del Ministro Tajani – «Il diritto internazionale conta fino a un certo punto» – è stata spesso letta come un sobrio slancio di realismo politico. Ma ciò che essa realmente segnala è l’emergere di un orizzonte ideologico tutt’altro che neutro, in cui la forza torna a porsi come criterio ultimo di legittimazione e il diritto viene retrocesso a semplice orpello discorsivo, legittimo solo finché non ostacola la volontà sovrana. Più che un’analisi disincantata, tale posizione indica una precisa scelta di campo.
È precisamente qui che l’intervista con Giso Amendola, filosofo del diritto e attivista, offre un contributo decisivo. Attraverso le lenti critiche proposte, la cosiddetta crisi del diritto internazionale appare sotto una luce diversa: non come effetto delle rotture prodotte dalle destre autoritarie, ma come il tentativo reattivo delle destre di rimettere ordine di fronte alle trasformazioni teoriche e pratiche innescate dai movimenti decoloniali. Lungimiranti nel dischiudere usi contro-egemonici e inediti degli strumenti giuridici globali, questi movimenti hanno prodotto un’eccedenza politica che ha messo in tensione la struttura stessa dell’ordine giuridico internazionale, costringendolo a misurarsi con la propria matrice coloniale e con la pluralità delle soggettività oggi presenti sulla scena globale.
L’intervista che segue raccoglie dunque strumenti interpretativi preziosi per comprendere tale fase di mutamento, e al contempo indica percorsi di approfondimento teorico e politico per chi intende pensare – e praticare – il diritto senza separarlo dalla sua costitutiva politicità.
La frase del Ministro Tajani – “Il diritto internazionale conta fino a un certo punto” – ha suscitato un dibattito significativo. Che effetto ti ha fatto quando l’hai ascoltata? Ti è apparsa una provocazione, uno slancio di sincerità inattesa o una conferma, per così dire, “realista” del rapporto strutturale tra diritto internazionale e forza?
Mi ha ricordato – ancora una volta – che la critica del diritto può seguire molti approcci, impiegare strumenti concettuali anche molto diversi, ma in ogni caso non può essere confusa con il realismo, tanto meno con quel realismo che si camuffa troppo spesso da “buon senso” comune. Il “realista” dice semplicemente, come ha farfugliato Tajani, che il diritto è una costruzione normativa fittizia, un racconto che camuffa la verità dei fatti e che, sotto il sistema normativo, c’è una verità, che consiste nei rapporti di forza nella loro nuda evidenza. La critica del diritto nasce invece dall’idea che il diritto gioca un ruolo fondamentale proprio nel dare una forma ai rapporti di forza.
Prendiamo Marx, per esempio: Marx non sostiene mai che il diritto sia una illusione ideologica, dietro la quale si nasconderebbe la “verità” del potere o dei rapporti sociali. Sostiene, al contrario, che in una certa fase storica – quella segnata dai rapporti di scambio di tipo capitalistico – lo sfruttamento si produce non attraverso la pura violenza di fatto ma proprio attraverso la costruzione della forma giuridica dello scambio e del soggetto giuridico, altrettanto “formale”, che costruisce quei rapporti di scambio. E qui formale non significa per nulla inventato, menzognero, o irrilevante: è proprio invece quella forma la modalità, non meno sostanziale che il rapporto di puro dominio, in cui si esercita lo sfruttamento capitalistico, uno sfruttamento costruito proprio attraverso la costruzione della relazione giuridica tra soggetti “liberi ed eguali”.
Allo stesso modo, il diritto internazionale non è certo una copertura più o meno ideologica di una “verità” del potere che invece risiederebbe immancabilmente nella sovranità degli stati nazionali. Il diritto internazionale è invece una costruzione storicamente determinata che ha dato forma a diversi aspetti dei rapporti di potere globale: anzitutto, la regolazione delle relazioni interstatali in Occidente e, simultaneamente, l’affermazione del dominio coloniale dell’Occidente sul resto del mondo (lo descriveva molto bene, paradossalmente, quell’apologia reazionaria del diritto internazionale moderno che è Il Nomos della terra di Carl Schmitt). Nel corso del tempo si sono poi stratificati, all’interno della costruzione del diritto internazionale, le forme e le istituzioni regolative transnazionali prodotte dalla forza globalizzante del capitale, ma anche principi politici che si sono imposti sul piano globale grazie al processo di decolonizzazione, basti pensare al principio di autodeterminazione dei popoli.
Chi, di fronte a tutta questa complessità normativa, sostiene che in fondo quello che davvero conta poi è la sovranità statuale, mentre tutto il resto vale “fino a un certo punto”, non fa esercizio di critica. Semplicemente, come spesso accade ai sedicenti “realisti”, nasconde l’apologia – del tutto acritica e ideologica – della forza degli stati nazionali, dietro una pretesa di analisi realistica.
E infatti: nel difendere le pretese di Israele di considerare “sue” acque che sono extraterritoriali, e di violare il diritto umanitario bloccando gli aiuti, Tajani non faceva esercizio di disincantata critica realistica, ma di ideologico sostegno alle pretese esclusive di una sovranità nazionale.
Nel dibattito mainstream si parla di “crisi del diritto internazionale” (o della sua fine), in una fase in cui gli stati storicamente più forti da un punto di vista economico e militare si rifiutano espressamente di rimanere all’interno dei limiti (anche solo discorsivi) definiti dal diritto internazionale. Pensi che questo superamento di limiti coinvolga più complessivamente i sistemi giuridici interni agli stati? In altri termini, si tratta più in generale di una crisi dell’esperienza giuridica contemporanea?
Dobbiamo distinguere tra un discorso ideologico sulla crisi del diritto internazionale e le modalità effettive delle sue trasformazioni, effettivamente radicali specie dopo la fine della Guerra Fredda. Una cosa è l’ideologia della crisi, un’altra cosa il modo di darsi delle crisi. Le estreme destre mondiali hanno incorporato nella costruzione delle “guerre culturali” l’idea che il diritto internazionale è il relitto di un’epoca ipocrita, da archiviare, insieme d’altronde a qualsiasi idea di limite giuridico all’assolutezza della volontà sovrana. C’è in questa visione tutta l’eredità più torbida della sovranità statale come ideologia: il vitalismo della “decisione” contro le pretese tecniche, impersonali e “borghesi” (ma qui borghese significa sostanzialmente smidollato, lontano dalla serietà dello scontro tra vita e morte di cui si nutre la sovranità).
Le destre recuperano così tutta la storia ultra ideologica della sovranità contro l’idea stessa di un diritto sovranazionale. Ma questa costruzione ideologica non va confusa con una rottura effettiva dell’ordine sovranazionale. Sotto questo aspetto, le cose sono molto più complicate e differenziate. È certamente vero, per esempio, che dal punto di vista del divieto della guerra offensiva, uno dei principi fondanti del diritto internazionale contemporaneo, così come dei grandi crimini sovranazionali, la guerra d’Ucraina e il genocidio in Palestina hanno segnato una crisi conclamata della capacità di reazione del diritto internazionale. Ma da qui ad aderire alla tesi liquidatoria del suo tramonto, ce ne corre.
Ancora più insostenibile è la tesi per cui la crisi investirebbe radicalmente l’ordine internazionale, ma salverebbe per così dire le mediazioni giuridiche interne: al contrario, la crisi del compromesso welfaristico statuale – databile quantomeno dalla fine del sistema di Bretton Woods e della sua capacità di tenere insieme una certa autonomia dei poteri statali con lo sviluppo del capitale globale e delle sue istituzioni – è una delle radici della globalizzazione giuridica ed è impensabile che l’instabilità della governance globale possa produrre miracolosamente il ritorno delle condizioni della mediazione statuale.
Al di là del lessico della “crisi” e della sua dubbia utilità per leggere le trasformazioni sociali e politiche, secondo te quali sono le coordinate per impostare una analisi critica della crescente perdita di effettività – o forse, per meglio dire – di autorevolezza del diritto internazionale e delle sue istituzioni a cui stiamo senz’altro assistendo? In altri termini, si possono individuare dei passaggi storici o delle categorie teoriche che ci aiutino a comprenderla in modo non moralistico?
In primo luogo, occorre tenersi rigorosamente lontani da tesi ideologiche e incapaci di cogliere la complessità come quelle che dànno per morta la globalizzazione e con essa ogni forma di diritto globale. Il diritto internazionale è, per esempio, in sicura crisi di effettività per quanto riguarda il tentativo di “giuridificare” la guerra. Ma è una crisi prodotta dal fallimento del progetto neoconservatore di ritorno della guerra giusta nel segno dell’antiterrorismo, dell’esportazione della democrazia, della guerra per i diritti umani: dal suo fallimento, non dal suo successo come pretesa alternativa alla giuridificazione internazionale della guerra.
La dottrina della nuova guerra giusta non si è affatto imposta come alternativa contro l’antico tentativo di limitare la guerra del diritto internazionale: ha destrutturato quel poco di “divieto” della guerra d’aggressione che s’era riusciti a imporre, senza però riuscire a far passare una legittimazione globale di un nuovo diritto alla guerra. Nella guerra d’Ucraina, il corto circuito s’è reso evidente quando Putin ha richiamato proprio la dottrina neocon della “guerra preventiva” come giustificazione della guerra, non una pura e semplice rivendicazione del diritto sovrano alla guerra, con ciò mostrando che, comunque, anche in un evidente caso di guerra d’aggressione, il richiamo a una qualche versione “globale” di giustificazione della guerra permane (in questo caso, quella elaborata in termini di intervento preventivo antiterroristico). Per quanto sia ormai profondamente destrutturato, il sistema di limitazione della guerra in capo alle Nazioni Unite, quindi, non si può dire però che si sia riaffermata la guerra come prerogativa classica e “piena” della sovranità statale. In termini più generali: ciò che sicuramente è tramontato, è il progetto di una costituzionalizzazione dell’ordine globale sorretto dall’egemonia americana.
Ma questo tramonto non lascia spazio a un ritorno della supremazia dei diritti nazionali. Proprio come si è esaurita una certa idea lineare della globalizzazione, sostenuta da un centro egemonico chiaro, ma non è tramontata la globalizzazione in sé, così è irrimediabilmente interrotto il processo lineare di costruzione del diritto globale, come si era potuto immaginare forse nel dopoguerra: ma non riemerge per nulla un ritorno al diritto statuale classico e al sistema delle sovranità, sulle ceneri del diritto globale, quanto piuttosto un panorama frammentato e conflittuale delle istituzioni giuridiche globali.
Ma pur sempre con sistemi giuridici globali, per quanto frammentati, abbiamo a che fare, e nessun ritorno alla centralità classica dello stato è all’orizzonte. Se non nei proclami delle destre: che, però, intanto proclamano le versioni più urlate della sovranità, proprio in quanto la sovranità classica, come principio effettivamente ordinatore, resta irreparabilmente in crisi. È con questa frammentazione dei sistemi giuridici globali e non con il ritorno, se non ideologico e spettrale, della sovranità, che dobbiamo fare i conti teorici e politici.
C’è un paradosso interessante nel dibattito pubblico: appare che la destra globale abbia più capacità di immaginare rotture del diritto, di spingersi oltre le sue forme codificate e le categorie giuridiche dominanti. Al contrario, movimenti e prospettive da sinistra si trovano spesso nella posizione di difendere il diritto. Che sensazioni hai rispetto a questo scenario? Ci sono vie d’uscita da questo schema?
La destra non immagina rotture, se non nella narrazione ideologica che ha costruito. La destra reagisce alle rotture che si sono effettivamente date nell’ordine tradizionale e lo fa con l’intenzione di ristabilire in qualche modo quell’origine perduta. Nello spazio del diritto globale questo è chiarissimo: l’ordine sovranazionale si è radicalmente trasformato, in modo anche più radicale di quanto il progetto di costruzione del diritto internazionale immaginava di “contenere”. Il principio di autodeterminazione dei popoli ha funzionato, con i processi di decolonizzazione, come un movimento di radicale “autocontestazione” dell’ordine globale, provocandone l’apertura trasformativa e continuamente eccedente (come colse con grande lucidità Impero di Hardt e Negri).
A quell’eccedenza – che tende, fino a farla saltare, la forma tradizionale delle mediazioni giuridiche costituite – la destra globale ha risposto con la riproposizione della sovranità statale: sovranità che, a sua volta, poteva darsi ormai non più, come mediazione, quanto piuttosto come gestione continua della crisi: una sovranità “spettrale”, molto diversa da qualsiasi impossibile ritorno alla sovranità giuridica classica. Se quindi la destra ha operato una “rottura” nel diritto, lo ha fatto nel senso del contraccolpo rispetto alla trasformazione radicale già in movimento, e di un tentativo letteralmente reazionario di ristabilire le categorie della tradizione giuridica dello Stato, ma in realtà riproponendone la crisi. Davanti a questo panorama, il problema non sta nel difendere le antiche mediazioni contro la “rottura” della destra. Sta invece nel riattivare precisamente le spinte trasformative e costituenti che si danno nello spazio globale, le forze liberate dai processi di decolonizzazione e di decentramento rispetto all’egemonia occidentale tradizionale, per immaginare non una lotta per la difesa, quanto per l’invenzione di un nuovo spazio giuridico globale.
Al rilancio spettrale, da destra, di una sovranità statale luogo di una crisi insuperabile, se non come gestione reazionaria continua della crisi stessa, si può rispondere lavorando dentro e oltre l’attuale frammentazione dei sistemi giuridici globali, sempre portando il discorso giuridico oltre il blocco della sovranità statale. Il problema non è quindi essere “contro” o “per” il diritto, astrattamente considerato: ma essere ben consapevoli che, se ci si chiude nell’orizzonte delle mediazioni ormai esaurite a livello di diritto nazionale, le destre avranno buon gioco a far prevalere il contraccolpo di una sovranità ormai ridotta a puro comando. Nello spazio sovranazionale, resta invece aperta la possibilità di inventare usi innovativi e costituenti dei processi giuridici, facendo così girare a vuoto il contraccolpo nazionalista.
In un tuo articolo uscito su “Euronomade” parli di “uso decoloniale della giustizia internazionale” in relazione all’attivismo di Francesca Albanese contro il genocidio a Gaza, all’azione del Sudafrica dinanzi alla Corte di Giustizia Internazionale e all’iniziativa del “Gruppo dell’Aja” riunitosi a Bogotà nel luglio scorso. In un certo senso, si può quindi dire che nella crisi del diritto internazionale sembrano aprirsi nuovi spazi di possibilità per un uso contro-egemonico del diritto. Quali sono, secondo te, le potenzialità e i rischi di “giocare il gioco del diritto” mantenendo posture critiche e conflittuali?
Proprio perché il campo del diritto globale non si è affatto dissolto, come vogliono i sostenitori della tesi della fine della globalizzazione, ma semmai si è interrotto il progetto di una lineare e progressiva costituzionalizzazione dello spazio globale, è possibile che gli strumenti del diritto sovranazionale possano conoscere utilizzi inediti. Anzi, è proprio grazie all’interruzione di quel processo, che sta emergendo la possibilità di far giocare alcuni “pezzi” dei sistemi giuridici globali, quelli in cui si è sedimentato il processo di decolonizzazione, contro la indubbia matrice coloniale del diritto internazionale entro la quale quei “pezzi” sono stati rinchiusi e normalizzati.
La matrice coloniale ha sicuramente strutturato il diritto internazionale e ha continuamente neutralizzato anche quegli aspetti che eccedono quella matrice, come il principio di autodeterminazione, la previsione dei grandi crimini internazionali e l’obbligo di prevenzione del genocidio, il riconoscimento del diritto di resistenza. Il rapporto tra strumenti di diritto sovranazionale e matrice coloniale però può essere riaperto paradossalmente proprio grazie alla crisi del processo lineare di costituzionalizzazione globale, che non è mai riuscito a rendersi indipendente da quella matrice. La crisi della global governance a egemonia americana, insomma, riapre la possibilità di una decolonizzazione degli strumenti del diritto sovranazionale ed è quello che appunto stiamo vedendo nell’azione davanti alla CIG sul genocidio, nel lavoro impagabile di Francesca Albanese come relatrice Onu, nel pronunciamento della Commissione Onu sui diritti umani e così via. Centrale diventa l’emersione della soggettività che spinge a questo uso “alternativo” di pezzi e strumenti del diritto internazionale (mai del “diritto internazionale” in quanto tale, quello sì complessivamente inseparabile dalla sua matrice coloniale). È questa soggettività che può spingere verso un superamento in direzione completamente inedita e trasformativa dell’attuale frammentazione sistemica.
Dal lato soggettivo, qui abbiamo anzitutto l’elemento inedito per cui il “resto” del mondo che si riappropria di questi strumenti non è più delimitabile all’interno dello schema del “Sud del mondo”, ma attraversa trasversalmente e mette in discussione tutti i nuovi blocchi in formazione nello spazio globale ormai post-egemonico. La coalizione “sudafricana” che guida l’azione alla CIG non è riportabile allo schema del Sud del mondo e questa è effettivamente una condizione inedita, che può dare esiti nuovi ai tentativi di rottura della matrice coloniale del diritto internazionale. L’altro elemento di novità è l’emergere dei nuovi movimenti sociali globali, a cominciare dal movimento transfemminista ed ecologista. Come vediamo nella domanda radicale di giustizia che si è raccolta nella costellazione dei movimenti della “Palestina globale”, si stanno configurando i tratti di un nuovo internazionalismo. È una composizione soggettiva transnazionale che può costituire il motore per una invenzione di strumenti di diritto globali finalmente sia “antisovranisti” che “anticoloniali”.
Per chi volesse acquisire strumenti e linguaggi per orientarsi nel dibattito sulla crisi del diritto, quali letture, autorə e genealogie suggeriresti? Dove guardare per costruire un pensiero e un agire che non separino il diritto dalla sua politicità costitutiva?
In primo luogo, ristudierei il patrimonio di analisi della crisi della forma Stato e della crisi del compromesso costituzionale welfaristico. Penso ovviamente a un testo fondamentale come quello di Toni Negri sulla Forma Stato, ma in generale a tutto il dibattito sulla fine della mediazione costituzionale, sulla crisi fiscale dello Stato che ha caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta. Sono letture fondamentali per fissare bene le ragioni dell’irriproducibilità di quelle mediazioni e quindi della necessità assoluta, per noi, di muoverci in direzione dell’immaginazione di qualcosa di meglio dello Stato. Per lo stesso motivo, frequenterei tutto il dibattito sull’abolizionismo, che sta evidentemente trascendendo l’ambito criminologico e carcerario e comincia a indicare l’abolizione degli strumenti giuridici statali tradizionali come orizzonte di azione e, prima ancora, di immaginazione dei movimenti sociali.
Poi c’è il grande campo degli studi critici sul diritto internazionale: direi che va riletta la tradizione di critica del diritto internazionale che ne ha messo in luce, dall’interno dell’esperienza occidentale, le contraddizioni costitutive (la tradizione dei Critical Legal Studies, a partire dai grandi studi di Martti Koskenniemi); e gli studi critici sul diritto internazionale che provengono dai c.d. approcci del Terzo Mondo al diritto internazionale (in acronimo inglese, il campo di studi TWAIL). Fondamentale tutto il lavoro femminista di decostruzione del soggetto giuridico formale classico e il lavoro insieme ecologista e femminista sull’emergere della centralità della riproduzione sociale e sui nuovi strumenti di regolazione che questa centralità richiede. Un laboratorio oltre lo Stato, lucidamente critico sulla natura coloniale del diritto internazionale, ma anche capace di immaginare spazi e strumenti globali decolonizzati, evitando la terribile trappola di pensare la resistenza possibile solo come esperienza necessariamente “confinata” negli ambiti nazionali.
La foto di copertina è di Christoph Braun, wikicommons.
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