EUROPA

Germania, oltre le analogie col passato, un voto che parla del presente

I Berlin Migrant Strikers, collettivo di migranti italiani che vivono nella capitale tedesca, analizzano le recenti elezioni. Tra opportunità aperte dalla crisi dei partiti di centro e nuovi rischi provenienti dalla destra estrema.

Elezioni in Germania: l’opportunità di un vero nuovo inizio, di John Malamatinas

Lezioni tedesche, di Augusto Illuminati

E così alla fine è successo. Di nuovo. Le elezioni tedesche, condite da una delle campagne elettorali più soporifere e priva di contenuti a memoria d’uomo, non sono andate bene. I due partiti “popolari”, i socialdemocratici e cristiano-democratici, hanno conseguito il loro risultato peggiore nella storia della Germania postbellica. Gli estremisti di destra dell’AfD, Alternative für Deutschland, con quasi il 13% si affermano come terzo partito. I liberali tornano ad essere decisivi, così come i verdi, che però rimangono stabili. Così come la Linke, la sinistra radicale, che invece viene costretta alla periferia del panorama politico-istituzionale.

Certo, sulla stampa nazionale e internazionale fa sensazione l’entrata nel Bundestag di un nutrito drappello di estremisti di destra. E già cominciano a sprecarsi analisi sui perché. Sul perché il Paese in cui l’Olocausto è stato progettato e attuato ospita adesso nel suo parlamento un assortimento vario ed eventuale di negazionisti, razzisti, sessisti. Nazisti.

Eppure. Eppure se si guarda con più attenzione alla storia recente e meno recente della Germania, questo risultato sorprende molto meno. Si potrebbe considerare ad esempio la mancata denazificazione della politica e della pubblica amministrazione della Germania federale dopo la fine della guerra (e la contestuale messa al bando del partito comunista negli anni ‘50). Oppure si potrebbe malignamente (ma non troppo) notare che l’ultima volta che la SPD aveva conseguito una percentuale di voti così bassa in libere elezioni, era il dicembre 1932. In quel frangente, i socialdemocratici venivano da un’esperienza di Große Koalition molto simile a quella che ha governato il Paese negli ultimi quattro anni. Come in quel caso, si era logorata con politiche economiche e sociali che erano tutto fuorché di sinistra. E come oggi, anche nel 1932 i partiti popolari, che avevano governato le Repubblica di Weimar per quindici anni, avevano subito una cocente sconfitta elettorale. Certo, ci sono anche enormi differenze. Nel 1932 il Paese versava in una crisi economica profonda, con tassi di disoccupazione astronomici. Oggi la Germania vive invece un periodo di crescita economica e di bassa disoccupazione. E il Partito nazionalsocialista in quel frangente era diventato primo partito, mentre Hitler era asceso al cancellierato pochi mesi dopo. In questo caso, invece, l’AfD avrà con ogni probabilità una capacità molto limitata di incidere sugli equilibri parlamentari, per quanto si affermi, in maniera preoccupante, come seconda forza di opposizione.

Ancor più che sulla Germania di ieri e sulla genealogia del successo elettorale della AfD, queste elezioni ci dicono qualcosa di interessante sulla Germania di oggi. Ci raccontano di un partito socialdemocratico logorato dal suo appiattimento sui paradigmi ordoliberali e neoliberisti di Angela Merkel e Schäuble, un partito ormai incapace di esprimere dei contenuti politici autonomi. Nessun paventato “Effetto Schulz” ha salvato il più antico partito del mondo da una delle sconfitte più cocenti e gravi della sua storia. Grave perché oltre alla sconfitta in sé, si fa fatica a vedere una prospettiva alternativa. E a poco gioverà il netto rifiuto di un’ulteriore Grande Coalizione con i cristiano democratici.

Merkel dal canto suo incassa il peggior risultato di sempre del suo partito correndo praticamente senza competitor alternativi di rilievo. Da un lato si trova senza quello che era stato il suo partner di governo preferito, i prodi e proni socialdemocratici. E le toccherà trattare a lungo con verdi e liberali per formare una coalizione cosiddetta “Giamaica”, bislacca nel nome quanto nell’accozzaglia di forze che la comporrebbero e il cui programma comune è tutto da verificare. Dall’altro, bisogna ricordare come la Cancelliera si sia ritagliata un’immagine da leader del mondo libero dopo l’ascesa di Trump e il caos della Brexit. Avere un partito su posizioni estreme alla sua destra che le risucchia un milione di voti e che siede in parlamento dopo aver governato per dodici anni, non è esattamente un buon biglietto da visita. E non a caso la Merkel ha già annunciato una stretta sulle politiche sull’immigrazione, pronta prima ancora del fischio di inizio a rincorrere a destra i suoi ex-elettori.

E poi c’è, appunto, AfD. Uno “strano” partito di destra, che è nato come partito delle élites per le élites. E che negli ultimi quattro anni si è spostato su posizioni sempre più estreme esautorando le sue ali “moderate”. Ultima, Frauke Petry, che aveva puntato tutto su una sorta di revival catto-talebano e che è stata messa da parte (ha già annunciato che non farà parte del gruppo parlamentare della AfD). Così, quella entrata in Parlamento è la versione più estrema e radicale del partito. Una versione formata da loschi figuri che mettono in dubbio l’Olocausto, che si dicono fieri dell’operato delle truppe tedesche nelle due guerre mondiali, fortemente islamofobici e razzisti. Un partito che riesce a dialogare con quei “movimenti” di estrema da destra, da sempre presenti nell’Est del Paese e risorti con Pegida, che erano tuttavia rimasti isolati dopo a età degli anni ‘90 e che adesso trovano un interlocutore politico. Un partito che accoglie molti non elettori e addirittura 500mila ex elettori della Linke, passati armi e bagagli all’altro estremo dello spettro politico. Un partito forte non solo a Est, ma anche fra operai e disoccupati (dove prende più del 20%).

Queste elezioni in buona sostanza hanno sfatato alcuni tabù e incrinato alcune grandi narrazioni. Il tabù di parlamentari della repubblica su posizioni apertamente filonaziste, mettendo in crisi e in discussione le modalità con cui, all’interno della società e della cultura tedesche, la memoria collettiva del periodo nazionalsocialista è stata rielaborata, ha incrinato la narrazione di una società sostanzialmente pacificata, senza conflitto, corporativa, in cui “i sindacati contano” e “gli operai prendono 3mila euro al mese“ e “lo stato sociale è forte”.

La società tedesca si è invece rivelata per quello che è. Una società divisa, geograficamente e socialmente. Make Germany two again diceva un manifesto elettorale della campagna appena trascorsa del partito satirico (ma non troppo) Die Partei. E in effetti, la Germania è una società sostanzialmente a (almeno) due velocità, come l’Europa che Merkel vorrebbe imporre. Divisa fra alto e basso, est e ovest. Tedeschi e non tedeschi. Cristallizzata e riprodotta dall’Agenda 2010 di Schröder e poi accolta e ritoccata dal decennio merkeliano. E in cui, ad oggi, un’opzione politica sostanzialmente nazionalsocialista riesce ad imporsi come prospettiva credibile e votabile, giocando nel vuoto di contenuti lasciato dalle Grandi Coalizioni e da una Linke che fatica a parlare ai suoi strati sociali di riferimento.

Ed è per questo che il risultato dell’AfD è preoccupante. Non tanto per le percentuali prese o per il suo possibile peso in Parlamento. Quanto per il rischio che riesca, attraverso le sue retoriche comunitaristiche, a radicarsi socialmente, connettendosi a quei contromovimenti di destra emersi in questi anni e combattendo la sua battaglia nei quartieri, nella società, piuttosto che nell’aula del Bundestag. È quindi necessario che l’ampio spettro della sinistra rivoluzionaria tedesca, delle iniziative antirazziste e antisessiste, dei collettivi e dei gruppi che si occupano di lavoro, di disoccupazione, di welfare, stiano in guardia, cercando di opporsi a queste tendenze, non soltanto difendendo gli spazi già acquisiti, ma radicandosi ulteriormente. Senza sottovalutare un rischio che da oggi è ben più concreto e reale.