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“La noche de 12 años” di Álvaro Brechner

Vanno in scena a Venezia due opere sulla resistenza dei Tupamaros durante gli anni della dittatura militare in Uruguay: nel film di Brechner “La noche de 12 años” si raccontano i 12 anni di prigionia e isolamento di tre militanti del gruppo, mentre nel documentario di Emir Kusturica “El Pepe, una vida suprema” si ripercorre l’esperienza di José Alberto Mujica nel Fronte Ampio. Due film che interrogano il valore della resistenza e della rivoluzione

Schermo nero e trepidante attesa poi, allo scorrere dei titoli di coda, lo scroscio di applausi. Per lunghi minuti la platea della Sala Darsena del Palazzo del cinema si è alzata in piedi battendo le mani con lo sguardo rivolto al cast del film uruguaiano La noche de 12 años, in concorso nella sezione Orizzonti. Parte in coro el pueblo unido jamás será vencido, canto di lotta che omaggia emozionato la resistenza dei Tupamaros durante gli anni della dittatura uruguaiana raccontata in questo bel film di Álvaro Brechner. Se per cultura intendiamo quel valore trasformativo che applichiamo alla vita quotidiana e non quanto risiede solo nell’oggetto culturale prodotto, se è vero che la cultura ha a che fare con la memoria e col futuro, allora è in queste occasioni che il festival diventa un luogo prezioso. L’esperienza della visione di un film è un fatto complesso e, in questo caso, anche molto potente.

Probabilmente in molti conoscono José Alberto Mujica come candidato del Fronte Ampio e 40˚ presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015. Quarant’anni prima, però, Josè Mujica insieme ad altri otto dirigenti Tupamaros fu imprigionato, torturato, tenuto in isolamento per dodici anni. Separati in tre gruppi da tre, dal 1973 al 1985 – anno in cui tornò la democrazia nel paese – questi militanti subirono le pene dell’inferno: alcuni vennero ammazzati e molti fatti sparire per mano del lungo braccio delle dittature del Cono Sud noto come Piano Condor. I militari responsabili in Uruguay a oggi restano impuniti.

In questo film viene ricostruita la storia di resistenza di tre di loro: Eleuterio Fernández Huidobro detto Ñato, Mauricio Rosencof detto Rosco, e Josè Mujica detto Pepe. Il film, dunque, racconta i dodici anni di prigionia. Dodici anni di terrore come fossero un’unica lunghissima notte infernale. Gli anni sono scanditi nel numero dei giorni, che esprimono così tutto il peso della durata. Molte sono le soluzioni adottate per non perdere di vista la traccia principale del racconto: dare una forma narrativa oltre che estetica alla resistenza come unica via di fronte alla privazione violenta di ogni diritto umano di base come mangiare, dormire, defecare, per moltissimo tempo. Provare a raccontare come resistere senza contatto umano, senza poter toccare qualcuno o qualcosa oltre le pareti sporche e umide di qualche sotterraneo abitacolo. Come resistere senza vedere l’orizzonte. Come resistere senza sapere quando finirà e cosa sta accadendo fuori da lì.

Condurre alla follia era lo scopo di un tale trattamento. Avremmo dovuto uccidervi, dice a un certo punto il militare a Pepe, ora vi renderemo folli. La prima scena è una doppia panoramica circolare che descrive l’occhio onnisciente della struttura carceraria. Poi la macchina a mano interviene con il suo potere angoscioso. I suoni stridono intrecciandosi a un montaggio frenetico che descrive le torture fisiche e psicologiche. Rumori e silenzi si alternano e brani celebri accompagnano lunghe sequenze del film. Tutta la prima parte è densa di immagini opprimenti, poi la tensione cala e prendono forma i personaggi lasciati soli. I flashback se da un lato spiegano gli eventi pregressi, aiutando a ricostruire il processo storico e politico, dall’altro sono anche la strategia per interrompere il disumano tempo lineare di questa metaforica noche.

Accanto a questo potente film uruguaiano, nella sezione fuori concorso è in cartellone il documentario di Emir Kusturica El Pepe, una vida suprema. Siamo molti anni dopo, nel 2015, e viene raccontata, con interviste e immagini di repertorio, l’esperienza di Pepe Mujica nel Fronte Ampio, ripercorsa a partire dal giorno della fine del suo mandato politico. Accanto a lui ci sono gli altri due ex prigionieri politici Ñato e Rosco, il primo diventato Ministro della difesa, il secondo poeta e drammaturgo, e la sua compagna Lucía Topolansky con la quale ha condiviso e realizzato le due grandi utopie: la militanza e l’amore.

Entrambi i film sono sulla resistenza come gesto personale e collettivo, nonché una grande occasione per riflettere sulla reciprocità tra il cinema di finzione e il cosiddetto cinema del reale o documentario. Entrambi raccontano che senza la trasformazione della sofferenza in resistenza, della rabbia in lotta, del sentimento privato in gesto politico, ci si perde o, ancor peggio, si muore. Se il primo ci fornisce una ricostruzione di ciò che è avvenuto durante il decennio della dittatura, anno dopo anno, provando a ricostruire una memoria con cui l’Uruguay deve ancora fare i conti, il documentario, attraverso l’esplicito sguardo complice di Kusturica con la biografia di Pepe, restituisce tutta la pienezza di questa figura che del passato sembra conservare una memoria di lotta priva di vittimismo e anzi pienamente rivendicativa.

I ruoli tra finzione e immagine documentaria si intrecciano e si scambiano. Entrambi i film mettono in questione il monopolio privato della verità ed elaborano il materiale nel tentativo di produrre una storia che renda giustizia a quella ormai trascorsa. Entrambi rendono visibile che non esiste fonte di diritto più creativo che la rivoluzione.