OPINIONI

«Essere palestinese significa non avere diritti, essere costantemente vittima di discriminazioni»

Abdul ha 38 anni ed è palestinese. In questa intervista racconta la sua storia di palestinese profugo in Europa: «Siamo quelli che dal 1948 vivono in giro per il mondo, senza documenti, chiedendo asilo in paesi che non ce lo daranno. E questo perché Israele gli ha portato via tutto»

Abdul ha un diploma che in Italia sarebbe da liceo scientifico, ama molto sia la fotografia che il cinema ma, se dovesse scegliere, sceglierebbe fotografia. Racconta che tempo fa ha fatto un corso professionale che è durato tre anni per diventare fotografo. «Scattare foto è una cosa che mi fa sentire bene».

Poi continua: «Come tanti ragazzi palestinesi, anch’io sono nato in un campo profughi. Precisamente quello di Nahr El Bared, nel nord del Libano, e ci ho vissuto per tutta la prima parte della mia vita. Qualche membro della mia famiglia vive ancora lì. Per farti capire, i miei nonni sono arrivati in Libano nel 1948. Siamo profughi da generazioni».

Com’è vivere in un campo profughi?

Come te lo puoi immaginare: non bello. Sono andato definitivamente via dal campo profughi nel 2017 ma nel 2007 ho dovuto cambiare campo perché continuavamo a essere attaccati da milizie islamiche legate all’Isis. Si facevano chiamare Fatah al-Islam.

Perché attaccavano il campo profughi?

Penso che lo facessero se non proprio per prendere il potere, perlomeno mantenere il controllo dell’area. Per il resto, credo che il motivo sia molto semplice: loro imponevano regole molto severe, noi invece non le volevamo accettare. Non mi fraintendere, lo scontro principale era con l’esercito libanese. Tuttavia anche i palestinesi che vivevano nel campo venivano spesso attaccati. Ed entro poco tempo sono dovuto scappare.

Cosa facevano fuori dal campo queste milizie?

Prima di iniziare a penetrare nel campo profughi, quelli di Fatah al-Islam facevano rapine, attacchi bomba, assassinavano membri non solo dell’esercito ma anche civili. Poi piano piano hanno incominciato a entrare anche nel nostro campo profughi. All’inizio si pensava che volessero solo nascondersi dopo aver compiuto uno qualunque dei loro attentati. Ci sbagliavamo.

Come hai vissuto in Libano?

Prima di parlare di me stesso, in generale dico che i palestinesi in Libano, non hanno diritti. Ad esempio, non possono acquistare nulla. Una casa, una macchina, niente. Siamo come ospiti non graditi. Come se non bastasse non possiamo neanche lavorare come medici, ingegneri, infermieri, giornalisti. Questi, per i palestinesi in Libano, sono lavori vietati. Non li puoi fare.

Come vivono i palestinesi in questi campi profughi?

Come puoi facilmente immaginare, sopravvivere è molto difficile. Il 70% della popolazione palestinese in quei campi, vive sotto la soglia di povertà. Come se non bastasse, siamo discriminati sotto qualsiasi punto di vista. Puoi chiedere a chiunque di noi abbia vissuto in Libano anche solo una settimana. Te lo confermerà. Se vieni fermato a un posto di blocco, la polizia può trattenerti per ore. Anche arrestarti per nessun motivo, se non quello di essere un palestinese alla guida di una macchina. Se poi finisci addirittura davanti a un giudice per un qualunque reato, non c’è più nessuna speranza. Potrei farti altri esempi, ma direi che mi sono abbastanza spiegato.

Tu sei mai stato fermato dalla polizia in questo modo?

Sì. Ma ti voglio raccontare un’altra cosa. Io da fotografo ho fatto molte esposizioni cercando di raccontare quello che stava succedendo in Libano. Una volta avevo anche partecipato a un concorso di fotografia a Beirut. Ovviamente avevo gareggiato con una dozzina di scatti che riguardavano le condizioni di vita nei campi profughi. E alcuni mi erano usciti davvero bene, ma venni boicottato. Si era scoperto che ero palestinese. Da quel momento, il responsabile della competizione fece di tutto per cercare di escludermi ma alla fine arrivai comunque secondo. Quando chiesi spiegazioni, mi venne fatto capire che un palestinese non avrebbe mai potuto vincere il primo premio. Al massimo il secondo.

Come nasce questo sentimento anti-palestinese in Libano?

Non saprei dirti come nasce, però posso dirti che gli esempi storici sono parecchi. Ad esempio, nel 1976 quando le milizie nazionaliste libanesi, affiancate dall’esercito israeliano, aggrediscono il campo profughi di Tell al-Za’tar, a nord di Beirut, uccidendo migliaia di persone. Ed è un fatto molto famoso perché Israele ha potuto fare quello che ha fatto solo grazie al benestare libanese. Poi ancora nel 1982, il massacro nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila. Ancora migliaia di palestinesi uccisi per strada dai libanesi, come ad esempio i cristiani ultra-nazionalisti di Al-Tanzim, e dai soldati israeliani che si stavano ritirando. Parlo della Guerra civile libanese. Un’altra guerra che purtroppo ha contribuito molto al genocidio della popolazione palestinese. Un conflitto che racconta molto bene la storia del popolo palestinese e la sua terribile condizione. E di cosa è riuscito a fare Israele, anche fisicamente fuori dalla Palestina. Non mi stanco mai di dirlo.

Cosa pensi voglia dire invece “essere palestinese”?

La parola “palestinese” per me è diventata un peso. Significa non avere diritti, essere costantemente vittima di discriminazioni. “Essere palestinese”, in pratica, significa problemi. Se potessi, cambierei nazionalità. Anzi, visto che sul mio passaporto c’è scritto solo “profugo palestinese”, non ho nemmeno una nazionalità. Il nostro passaporto è una farsa. Anche perché non ci permette di andare da nessuna parte. Io l’ho fatto quando avevo 16 anni, ci ho messo quasi un anno ed è inutile. In Libano poi, è addirittura controproducente averlo addosso se ti ferma la polizia. L’unica possibile soluzione per andarsene, è farsi arrivare dall’estero un Visto per lavoro o per motivi di studio. Detto questo, devi comunque pagare un sacco di soldi e non è detto che tu ci riesca.

Dove sei stato quando te ne sei andato dal Libano?

In tanti posti, alcuni non me li ricordo nemmeno. Dal 2017 sono stato in Turchia, Colombia, Ecuador, Spagna, Francia, Germania, Danimarca e Svezia. In Svezia c’era un mio zio, mi sembrava un bel posto ma poi ho scoperto che la Svezia è bella solo “da fuori”. Dentro è come tutti gli altri. In Svezia ho fatto richiesta di asilo e lavoravo senza contratto per un fornaio arabo. Non avevo nulla. Ancora oggi non so come ho fatto a sopravvivere lì per quattro anni. Dopo quattrio anni la Svezia ha deciso che non avevo diritto alle Protezioni internazionali perché il mio paese era sicuro. Ed era il Libano. Ho deciso di scappare, per cui ho preso un treno e sono andato in Belgio. Lì ho fatto un’altra richiesta, ma mi hanno scoperto perché in Svezia la polizia mi aveva preso le impronte. Sono stato in prigione per 40 giorni, poi mi hanno messo su un aereo per tornare in Svezia. Ad aspettarmi all’aeroporto c’erano tre poliziotti di scorta che mi hanno subito minacciato di legarmi mani e piedi se avessi fatto qualsiasi passo in un’altra direzione. Una volta atterrati in Svezia, sono stato consegnato alla polizia svedese che mi ha interrogato per diverse ore su come avevo fatto a scappare. Non gli ho risposto quasi niente.

Perché ti hanno riportato in Svezia?

Alla fine dell’interrogatorio mi hanno spiegato che ero un “dublinante”, ovvero che per il mio caso valevano gli accordi di Dublino. Ho fatto finta di non sapere cosa significasse. In pratica devi tornare nel paese dove hai fatto richiesta d’Asilo la prima volta. Sono stato rilasciato e dopo due giorni sono scappato nuovamente. Per un periodo sono stato a Monaco, in Germania. Poi sono andato in Austria e alla fine sono arrivato in Italia. Prima a Bologna poi a Roma, Campobasso, Terni. In queste città ho fatto richiesta d’asilo, o meglio cercavo di farla ma mi dicevano che dovevo aspettare qualche mese. Io non avevo documenti quindi, scappavo. Alla fine ho preso un pullman per Brescia. Appena sceso, sono andato diretto in Questura per fare la richiesta. Era il 22 gennaio 2023, me lo ricordo bene.

Perché te lo ricordi bene?

Perché adesso è questo il mio unico documento [mostra un foglio di carta con la sua fotografia]. A parte il passaporto palestinese, ovvio, che però ti ho già spiegato che non vale niente. Per cui…

Cosa puoi raccontare di questo viaggio che ti ha portato fino in Italia?

Che la mia vita è un road movie. Un viaggio infinito e faticoso durante il quale ho visto tante cose. Alcune non vorrei ricordarle ma ormai sono parte della mia vita e me le tengo. Una persona deve andare avanti sulla sua strada, non importa quanto sia lunga o pericolosa.

Ti manca la tua casa? La tua famiglia?

Per me essere palestinese significa non avere un paese. Per quanto riguarda la mia famiglia, mi ha cresciuto come un palestinese e io amo la Palestina senza esserci mai stato. Entrare avrebbe significato non andarmene più, perché mi sarei fermato per sempre. Ne sono sicuro.

Non sei mai stato in Palestina?

No, mai. Ma t’assicuro che per lei, combatterei e morirei se necessario. Ti faccio un esempio: se qualcuno venisse a casa tua, portandoti via tutto, tu cosa faresti? La storia della Palestina è questa. Si tratta solo di difendere quello che ci è rimasto e che non è già stato rubato da Israele.

È questa l’identità palestinese?

No. L’identità palestinese è questa: conservare ancora nella memoria la mappa di dove erano i terreni della mia famiglia, le loro case e le loro tombe, prima che Israele le distruggesse. Mappa che poi tramanderò ai miei figli e via dicendo.

Essere palestinese significa avere memoria?

Non proprio. Ti racconto una cosa che spero ti faccia capire. Un giorno, quando vivevo ancora nel campo profughi in Libano, un mio amico mi ha portato un po’ di terra dicendo che era stata raccolta in Palestina. Ti dico solo che fuori da casa mia c’era la coda per averne anche solo un granello. Mia mamma la conserva ancora, quella manciata di Palestina. Questo è quello che siamo costretti a fare per proteggere la nostra terra: la portiamo via a piccole manciate. Potrei farti altri esempi, tipo che conosco delle persone palestinesi che conservano ancora la loro chiave di casa. Una casa che non c’è più, è stata distrutta. Non esiste, ciononostante loro si tengono la chiave.

È un gesto per non dimenticarsi della Palestina?

No, è un gesto per non dimenticarsi chi siamo noi. Siamo quelli che dal 1948 vivono in giro per il mondo, senza documenti, chiedendo asilo in paesi che non ce lo daranno. E questo perché Israele gli ha portato via tutto.

Cosa ne pensi di quello che sta facendo Israele oggi?

Rispetto a quello che sta succedendo adesso non credo serva aggiungere molto altro. Ci siamo ribellati dopo tanti anni d’assedio. In Cisgiordania, a Janin, Nables nella West bank, gli israeliani hanno ucciso tantissimi palestinesi nel silenzio assoluto. Ucciso, commesso crimini, distrutto interi villaggi.

E cosa pensi di Hamas?

Se Israele volesse davvero uccidere i membri di Hamas, potrebbe farlo. Ma non lo fa perché il suo vero obiettivo è terrorizzare la popolazione. Cacciarla via per sempre o ucciderla se non si vuole convincere a lasciare i territori occupati. È da questo terrore che nasce Hamas.

Se pensi al futuro, per te e per la Palestina, cosa ti viene in mente?

Non lo so, ma non credo ci sarà giustizia nel mio futuro come nemmeno in quello della Palestina. Grazie a voi. E grazie che raccontate la nostra storia perché senza storia, non c’è giustizia.

Immagine di copertina di Francesco Arrigoni, dal corteo per la Palestina di Roma, novembre 2023