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“Eroi” si scrive così

La questione di chi sono gli eroi secondo la cultura pop contemporanea è al centro del libro collettaneo da poco pubblicato per i tipi di Mimesis “Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi” curato dal collettivo Antongiulio Penequo con saggi di Luca Cangianti, Fabio Ciabatti, Gabriele Guerra, Maurizio Marrone, Mazzino Montinari e postfazione di Gioacchino Toni

Era morto, o almeno sparito da 27 anni, Antongiulio Penequo, creatura che parrebbe bianco-rosso-verdoniana e invece viene spacciata come un «epistemologo brasiliano di assoluto valore» incontrato durante la Pantera da cinque giovani che fecero politica e movimento di idee ai tempi di un’università che non c’è più. Penequo e i cinque si “sciolsero” poi, presi da quelle vicende che tutte insieme fanno la vita. Passano 27 anni – l’età fatale per le rockstar da Jimi Hendrix ade Amy Winehouse – e il fantasma di Penequo, rockstar sui generis, riappare e, nell’anno del nostro collasso, pubblica un libro su un tema vorace: Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi (Mimesis, 18 euro). Il tema è vorace perché il termine “eroe” è fin troppo evocativo, anche nelle varianti “per caso”, “borghese”, “dark”. E abusato. Molto. Addirittura è stato un lemma-ovunque nel 2020, applicato nella sfera pubblica prima a categorie professionali specifiche (i medici, gli infermieri) poi all’universalità dei cittadini (purché si comportino secondo le indicazioni ricevute). Mai come oggi, dunque, l’eroe merita chiarificazioni, indagini, critica.

 

Mai come oggi, parlando di “eroe”, occorre replicare il gesto, la presa di distanza di David Bowie, quando nel 1977, dando il titolo all’album “Heroes” («solo per un giorno») aggiunse le virgolette. E il libro – onnivoro, collettivo, scherzoso e serissimo – curato dal “piccolo” Antongiulio e scritto dai suoi cinque avatar (Luca Cangianti, Maurizio Marrone, Fabio Ciabatti, Gabriele Guerra, Mazzino Montinari) – fa proprio questo. Affronta criticamente l’eroe, sapendo che nell’eroe c’è il mito e che il mito si usa, è un terreno di lotta.

 

Tutti i saggi – che procedono, secondo gusti e idiosincrasie degli autori, per fughe letterarie, cinematografiche, filosofiche, con divagazioni antropologiche ed epistemologiche, sociologiche e psicoanalitiche – discutono che uso fare dell’eroe. Lo fanno partendo da un noto scritto di Christopher Vogler degli anni Novanta che si chiama (meglio, tradotto come) Il viaggio dell’eroe e che mostra – attraverso le figure chiave di guardiani, mentori e trickster, passaggi come il midpoint, la prova decisiva, e macchie caratteriali come il fatal flaw – i meccanismi di montagne di sceneggiature che narrano i viaggi dei loro protagonisti per tendere e poi sciogliere il pubblico. Vogler ha esplicitamente ripreso «gli studi dello storico delle religioni Joseph Campbell condensandoli in un manuale di successo a uso dell’industria cinematografica»: nell’Eroe dai mille volti (composto durante la seconda guerra mondiale) Campbell rinveniva in ogni storia eroica la transizione dall’ordinario allo straordinario, la svolta nell’iniziazione e nei riti di passaggio, il ritorno inclusivo di un “dono” di conoscenza. Se il meccanismo narrativo di mille storie è chiaro, se è chiara la reductio ad unum che l’eroe porta rispetto all’inquietante – persino tumorale, spiega Marrone sfruttando analisi di Rocco Ronchi – proliferare dei molti, gli autori indagano l’ambiguità dell’eroe, il suo costituirsi come soggettività, i suoi mezzi, per dire che, figura di confine tra sfruttamento e liberazione, tra dominio e “scatenamento”, l’eroe è seduto su un pozzo nero.

Anche se solo Marrone lo tematizza esplicitamente, tutti i saggi, in un certo senso, partono da Brecht e dalla frase-simbolo del Galileo – «sventurata quella terra che ha bisogno di eroi». E si chiedono, con grande lucidità politica – spoiler: non vi è alcuna soluzione – se sia possibile delineare un profilo dell’eroe non soltanto passatista, né tantomeno sarcastico. Se, data la sua funzione mitografica e mitopoietica, dell’eroe si dia un profilo che non sia ascrivibile alla retorica dell’uomo forte, ma serva invece come chiave simbolica, metaforica, narrativa per comprendere, anche in politica, quel passaggio opaco che c’è tra la teoria e l’azione. Come afferma Gioacchino Toni in una postfazione illuminante – che apre anche al tema, attualissimo in morte del campione Diego Armando e di PaoloRossi, dell’eroe sportivo –, tutto il libro con sobrietà si chiede: «quale figura di eroe può abitare l’immaginario antagonista dei nostri tempi?». Non solo, il libro intende «ragionare attorno alla figura dell’eroe contemporaneo interpretandone il viaggio come l’archetipo dell’agency». E quindi zombie e criminali, santi e naviganti, profeti e scienziati (splendide le pagine di Cangianti su Kuhn e l’insorgere dissonante delle intuizioni scientifiche), si affacciano ovunque nei saggi per indicare quell’assurdo praticabile che viene raccontato da ogni storia di eroi e che, narrato, fonda comunità.

Per questo è «sventurata» anche «quella terra che ha dimenticato la figura dell’eroe, perché essa è una metafora “calda”», afferma Ciabatti. Perché nel suo calore la metafora dell’eroe non solo mangia l’immaginario (di “fame” di mito, di gastronomia mitologica, parla una ricerca di Furio Jesi, autore ben presente nel pantheon del libro e menzionato nei saggi di Guerra e Ciabatti), ma narra ai giusti un modello “giusto” di azione, invita alla decisione, a un rivolgimento possibile dello stato di cose presenti: «ci spinge a prendere coscienza dell’oppressione e a decidere di ribellarci».

 

Anche l’eroe, dunque, ha le sue potenzialità. Perché intrattiene un rapporto trasparente col nuovo, col brave new world. Hegel si inventò addirittura un diritto con quel nome. Chiamava “diritto degli eroi” quella creazione – quella violenza istituente – in uno spazio prima abitato dalla sola natura, dai soli uomini-lupo. L’eroe, chiarisce Penequo attraverso i suoi portavoce, sogna nuovi mondi.

 

Ma oggi è inattivo, pare inerme. Somiglia a quei personaggi che Mazzino Montinari ritrova, in un affresco suggestivo, dai soldati di De Roberto nella Grande Guerra (poi resi cinema da Ermanno Olmi) al Luciano della Vita agra di Bianciardi, fino ai Cuori di tenebra di Conrad e Coppola. Anti-eroi che condividono un «senso di resa, l’i­dea che non si possa immaginare un mondo radicalmente diverso. E messi da parte i propositi bellicosi, l’eroe che poteva affiorare a seguito di un punto di svolta, rimane avvolto nel bozzolo di un’idea che non prevede metamorfosi».

Eppure eroismo e metamorfosi sembrerebbero fatti l’uno per l’altra. Ma non è così, spiega Ciabatti in un’utilissima rassegna di “eroismi” (dal Bildungsroman al romanzo popolare, fino all’eroe carnascialesco svelato da Bachtin). E oggi lo vediamo bene: «l’eroe che cerca di delineare Vogler attraverso Campbell è invece espressione di una società postmoderna, neoliberista». Se l’eroe carnevalesco è un individuo normale che fa tutto in grande (atti e deiezioni), per celebrare il ciclo della vita, incarnando il divenire, «l’e­roe “neoliberista” cambia tutto per non cambiare alcunché». E dunque cos’è in gioco nella rappresentazione dispendiosa di un’apocalissi inutile?

Se in generale «l’eroe rappresenta il tentativo ostinato della soggettività di costituirsi in quanto tale, vale a dire, attraverso l’acquisizione piena e compiuta della propria identità, di dare un senso al mondo» (Marrone), è chiaro il dubbio che, per sé, il tentativo sia sempre destinato al fallimento, che l’eroe proceda “intenebrandosi”, «senza seguire più una direzione, con un corpo che non ha più testa e cuore» (Montinari). E che proprio nel fallimento, nella tenebra, giochi un altro motivo, quello del ruolo dell’irrazionale nella rappresentazione. Viene affrontato da Guerra, in particolare, attraverso un’analisi benjaminiana del modus narrandi del Signore degli Anelli, il tema denso, e inquietante il giusto, dell’infondatezza della decisione. «L’eroe insomma prende la decisione di intraprendere il viaggio che trasformerà per sempre lui e tutti gli altri, non in forza di un agi­re funzionale rispetto allo scopo alla luce di una razionale capacità previsionale, ma grazie a una radicale in-fondatezza della decisione stessa che lo porta ad agire: è la dissonanza cognitiva, in altri termini, il vero motore della sua decisione». Guerra – valorizzando Leon Festinger, contro una certa lettura dell’azione sociale proposta da Talcott Parsons, lettore troppo parziale di Max Weber – depotenzia e svuota ogni rapporto dell’eroe con un’azione strumentale rispetto allo scopo. Meglio recuperare, per dire l’eroe, la teoria della dissonanza cognitiva: quella prestazione “cieca” di fiducia nel proprio mito che produce “innovazione”. La novità, spiega Guerra, accade non solo mediante l’azione – decisa, risoluta (termini heideggeriani, per capirsi), violenta – ma anche attraverso l’interazione gnoseologica col proprio mito di fiducia. Che dalla “fede cieca” passa all’istituzionalizzazione, alla burocrazia, alla tecnicizzazione del mito stesso. Da Weber fino a Jesi, il passaggio dall’eccezione carismatica dell’eroe all’ufficio che ne disciplina la funzione in una comunità è sempre teatro di lotta politica.

 

Ed è qui, individuato il campo di battaglia, che restano, appunto, solo domande. Ben poste – ed è il pregio di un libro del genere. Quanto è grande, anche in una disciplinata lotta rivoluzionaria, il margine d’azione per l’irrazionale? Quanto è grande il suo scarto, il suo gorgo? Nell’eroe classico è enorme – ed è contemplato come tale, come violenza. Oggi, che la narrazione è sovrainterpretata e orientata, oggi che l’istantanea, che il fotogramma è riprodotto ovunque in serie, c’è ancora possibilità di leggere l’eroe – per caso, riproducibile, immaginario – in una chiave che non sprofondi malinconica nella contemplazione del gesto di rottura in sé?

 

Perché l’eroe, si sa, è sommamente malinconico. L’inazione ce l’ha nel sangue. E qui, proprio in chiusura, vale la pena osservare che l’androceo Penequo tratta anche – lo fa Cangianti – l’eroe femminile. La chiama così, evitando il termine “eroina”. Termine troppo segnato, verrebbe da dire. Ora, tutti sanno che (e lo sanno bene gli autori che hanno invitato a discutere con loro, oltre al narratore di due diverse working classes, Alberto Prunetti, anche Vanessa Roghi che lavora da anni a una “storia culturale dell’eroina”) che la sostanza prende il nome dal soggetto, che l’eroina deriva dall’eroe. Che, per esser chiari, quella parola nata nell’industria farmaceutica raccontava un qualcosa d’indicibile – la sensazione dell’eroe.

E già, qual è la sensazione dell’eroe? Perché noi conosciamo il viaggio, meno l’emotività specifica che l’accompagna. Il sospetto è che quando diedero il nome alla sostanza provarono a ridire con tutt’altri mezzi il gorgo, la malinconia dell’eroe, la destituzione del soggetto durante e dopo l’atto. Perché molto in quel consumo, dicono le testimonianze, ha a che fare con la stasi, il piccolo mondo, la separazione. Con l’“eroismo” senza azione alcuna – c’è anche questo nell’infondatezza e nel suo mito. Sventurato chi ha bisogno di eroi, sventurato chi non ne ha memoria. E sventurato chi non ricorda come stanno – gli “eroi”.

 

Immagine tratta da “Torneranno i prati” di Ermanno Olmi