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Fata Morgana

Massimo Palma in un indispensabile saggio-romanzo “Nico e le maree” edito da Castelvecchi ricostruisce la personalità scissa e la vita convulsa di una musicista e poeta straordinaria su cui era calato un distratto oblio

Forse solo con un romanzo ci si può accostare alla figura di Christa Päffgen aka Nico, difficilmente esauribile con una biografia da rockstar (che non fu) o con un’analisi musicologica classica – quale pure meriterebbe, ma oggi è prematura. Non fu una rockstar perché il suo rapporto con il pubblico – pur ipnotizzato prima dalla sontuosa bellezza e dopo dall’aura di morte che inscenava attorno a sé – fu tutt’altro che simpatetico e lei rifiutò quel tipo di esposizione scegliendo altre vie più complicate per divenire un’icona, seppure per pochi anni, quelli della Factory di Andy Warhol e del sua satellite musicale, i Velvet Underground. Preferiva scoparsele e buttarle via, le rockstar, purché più giovani di lei: i già famosi Bob Dylan o Jim Morrison (il suo unico “fratello di sangue” nonché insegnante di composizione), quelli che scopriva, “corrompeva” e lanciava, come Jackson Browne e Iggy Pop, incontri fuggevoli alla pari tipo Jimi Hendrix a Monterey, i compagni d’avventura Lou Reed e il fedele John Cale, allievo di La Monte Young, anima musicale del Velvet e che in seguito tanto contribuì alla nascita degli Stooges e agli album della stessa Nico. Per farla breve, l’unico che non si scopò fu Leonard Cohen, troppo vecchio (over 35), troppo intelligente e troppo sensibile, che pure adorava il suo corpo e la ricorderà, ancora viva, nel delicatissimo Take This Longing.

 

 

A inizio estate 1988 Nico canta nel concerto “Fata Morgana” nella sua Berlino e subito dopo parte per Ibiza, come aveva fatto a metà dei ’50 quando adolescente esplosiva allo sbando era stata scoperta e lanciata nel mondo della moda da Herbert Tobias, che le diede in nickname maschile e subito esibì sui due palcoscenici d’epoca, Parigi e Ibiza; era il suo destino avere un mentore gay e l’altro decisivo sarà Drella a New York. Stavolta però l’amata isola sarà la sua tomba, dopo una breve odissea di colpi di sole, svenimenti, cure sbagliate e vene distrutte, 18 luglio 1988. Una morte fuori-norma come la sua vita: una caduta dalla bicicletta, non una gloriosa overdose. Era allo sgocciolo dei suoi 49 anni, 7×7, I will be Seven, When we meet in Heaven, aveva appena cantato il 6 giugno al Planetarium.

Fata Morgana è davvero l’epilogo, è l’illusione allo stato puro nel deserto. La solitudine esposta ironicamente in All Tomorrow’s Parties era pur sempre condivisa con i Velvet e aveva lo sfondo luccicante di Manhattan (nelle riprese degli anni successivi diverrà altra cosa, più cupa e claustrofobica), We will Fall degli Stooges era una rito autodistruttivo di coppia con Iggy l’Iguana che ripeteva il deserto californiano dove aveva scambiato il sangue con Jim, il Re Lucertola; le dune di Desertshore e della Cicatrice intérieure erano condivise/contrapposte con il vagabondaggio di Philippe Garrel. Ora è sola davanti all’allucinazione della fata morgana, introdotta dal fido harmonium e poi neppure accompagnata dalla voce, che si limita a vocalizzare sul registro medio e poi sprofondare in quello inferiore. Un addio appena gorgogliato – lei che pure aveva cantato in anni precedenti a piena voce il suo Abschied, a nulla paragonabile sulla scena rock o punk, piuttosto gemello dell’altro grande addio mahleriano che chiude Das Lied von der Erde. E non parliamo di quanto aveva fatto nella cover di The End, tirando fuori ancor più intensamente di Jim la propria infanzia e l’edipo. Ora la fine accade davvero, senza strepito e sfida, in un corpo disfatto dall’alcol e dall’eroina, imbottito di metadone e con la stentorea voce disgregata dopo essere sprofondata, anno dopo anno, verso le ottave più basse. Indimenticabile tuttavia e capace di strappare un tiepido applauso, dopo quei vocalizzi, a un pubblico che ormai non la segue più.

 

 

Ammesso che prima un pubblico l’avesse seguita. Nico stava sempre fuori posto. A partire dai gruppi, tolta l’esperienza seminale dei Velvet in cui si era verificato una miracolosa coesistenza di pazzi individualisti che con un unico disco cambiarono il rock e se ne allontanarono ciascuno a suo modo. A seguire non parliamo delle sue band occasionali: in Drama of Exile, sono penose, mentre, per esempio, Orly Flight nella sua versione da concerto per voce e piano è un gioiello che sta all’altezza dell’altro tributo di Jacques Brel al dolore del distacco e a quell’aeroporto.

Il fatto è che quel timbro neutro, per natura estraniato a causa del plurilinguismo sottostante e del tono androgino, non si trova a suo agio nel rock quanto nell’avanguardia e per questo regge solo nei mirabili allestimenti di John Cale: The Marble Index, Desertshore, Camera Obscura, oltre il disco della banana, dove però non è autrice, ma si impadronisce di testi altrui fino letteralmente a diventare la “femme fatale” o la povera cenerentola di tutte le feste avvenire.

Per trovarle un posto – facendoci carico di un’impresa che a lei fallì – dovremmo collocarla (con molta più ragione degli abbozzi di Morrison, Bowie e Reed “berlinesi” o più tardi della Marianne Faithfull emancipata dagli Stones) nella tradizione espressionista di Alban Berg, di cui è l’unica erede legittima. È insieme Lulu e la contessa Geschwitz che annuncia con un grido il suo assassinio, è il bambino che canta hop, hop! sul cavallo di legno, dopo la morte dei genitori Marie e Wozzeck…

 

 

La voce tocca  il massimo fra i 25 e i 30, quando l’ex-modella resa popolare dalla comparsata nella Dolce vita attraversa straniata versi altrui e una musica sostanzialmente tradizionale, anche in pezzi incantevoli come These Days e nell’elegia straziante di Chelsea Girls, suggello d’epoca nella canzone e nel film di Morrissey-Warhol, mentre resta quasi sonnambolica in The Velvet Underground & Nico. Sui Velvet e la Factory rimandiamo allo stesso  Palma, che  vi si era intrattenuto più diffusamente altrove, insistendo sull’estasi delle merce nella trasgressione che quelle esperienze lucidamente negoziano con il pubblico.

Solo dal 1968 abbiamo però l’autentica Nico, autrice di versi e musica e spesso anche essenziale accompagnatrice all’harmonium. E qui salta ogni misura, entra nel mito – come Billie Holiday o Patti Smith, meno versatile quale interprete e però compositrice in prima persona, testimone di una civiltà musicale europea, poi di volta in volta meticciata con il gothic, l’oriente, il proto-punk. Un arco che va dal distacco dai Velvet alla straordinaria stagione 1974 ­ – l’album The End, la vita e i buchi con Garrel, la dissacrazione della cattedrale di Reims insieme ai Tangerine Dreams. Fin qui genio e autodistruzione marciano insieme, lei rides the snake davvero, poi inizia la china della discesa, con sprazzi e sussulti, un breve ciclo anche di film il cui occultamento, ora forse interrotto dalla riedizione completa di Garrel a cura di Re:Voir Video, rende indecifrabile gli anni ’70 dell’ex-femme fatale. Un ciclo segnato dal colore dei capelli – dal biondo quasi argenteo al rosso caro a Jim al nero luttuoso – e dal crescente risalto degli zigomi. Resta intatto solo il «magnetismo freddo e inviolabile» che sin dall’inizio ai suoi occhi aveva attribuito Gerard Malanga.

 

 

Massimo Palma narra, sconvolgendo deliberatamente l’ordine cronologico e con perspicue differenze dal mio riassunto, questa storia, inquadrandola fra due sportelli di meditazione coheniana post-mortem (Cohen amico, ebreo e rifiutato è assunto a chiave di decifrazione dell’enigma Nico) e insistendo, con una ricca documentazione ambientale,  a riportare contraddizioni, scoppi e implosioni sullo sfondo di una scena primaria (fattuale o immaginaria) di assenza e morte misteriosa del padre, affabulazioni sull’infanzia postbellica fra le macerie tedesche, il trauma di uno stupro da parte di un sergente nero dell’Air Force che la 14-enne Christa avrebbe fatto condannare a morte – verità fattuale oppure oscura deduzione da Secret Side? La ricostruzione fantastica spesso convince, tranne forse lo sbrigativo ridimensionamento di un  gesto politico (non isolato nell’ambito del rock): la dedica ad Andrea Baader della scandalosa riedizione del testo integrale dell’inno tedesco, Das Lied der Deutschen, che valeva il defacement dell’inno americano storpiato da Jimi Hendrix.

Assenza e stupro senza cessa replicati nella frigida possessività, nel tormentato rapporto con il figlio Ari, avuto con Alain Delon, ora trascinato in tournée (Le Petit Chevalier, My only Child, Ari’s Song), ora abbandonato presso i nonni paterni che l’avevano adottato, ora recuperato, ora iniziato all’ero. Ibiza, la New York della Factory, Manchester e Berlino sono i poli territoriali lungo cui si dipana il racconto, con onirica efficacia. Ma non mancano via Veneto (ricostruita a Cinecittà da Fellini) e il castello di Bassano Romano che secondo me sono un’anticipazione sciamanica della carriera futura della modella allora biondissima: Nico, Nico, la cerca Marcello, ma sei islandese? Siii, ed è già il suo sound inconfondibile. Non lo era, lo diverrà nella Cicatrice intérieure di Garrel, nel paesaggio innevato alternato al deserto dove canta i numeri di Desertshore. Ed è insieme la gigantessa-Natura e il povero islandese che vanamente l’interpella nel dialogo leopardiano. You forget to answer

 

 

Resta volutamente non detta la grandezza senza eredi di Nico, l’unicità non di un’esperienza di autodistruzione, comunissima in quel mondo e in quegli anni, ma del suo accoppiamento con l’unicità di una musica in sostanza estranea al rock (anche se prima c’erano stati i Velvet e Jim Morrison e dopo Siouxsie e soprattutto i Joy Division). In un intrigante paragrafo Palma, da esperto benjaminiano, mette in parallelo (è la sua tattica di montaggio in luogo della spiega) i soggiorni a Ibiza di Walter Benjamin e quelli di Nico: figure entrambe dell’inattualità. Inattualità, nel caso di una vita e di un artista, non vuol dire che attualizzarla sveli l’enigma: piuttosto che si ripropongono per attuali i termini non risolti, la ferita non suturata della vita. L’infranto non è redento, ci conviviamo.