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Ecuador: cosa hai votato alle ultime presidenziali?

Al ballottaggio presidenziale arriva la vittoria di Daniel Noboa, espressione della destra neoliberista e di una classe dirigente che nasce nel mercato, nella finanza, nella speculazione. Per poco più di dieci mesi guiderà il paese, in attesa delle prossime elezioni nel 2025

“Ma lei cosa ha votato alle ultime presidenziali?” “Noboa”, ci risponde il tassista. “Ma lei sa chi è Noboa? Rampollo di una famiglia di oligarchi della costa che certo non ha a cuore gli interessi delle classi marginali?”. “Io sono anticorreista!” chiosa lui.  Vox populi.

Fatto sta che al ballottaggio per l’elezione del presidente dell’Ecuador, il risultato quasi scontato è stato l’elezione di quello che viene considerato il più giovane presidente della storia del paese, il 35enne Daniel Noboa. Figlio di Alvaro “Alvarito” Noboa, quintessenza del populismo d’elite di Guayaquil, capitale economica del paese, magnate e leader indiscusso dell’industria bananiera. “Alvarito” che per ben cinque volte tentò – senza successo – la scalata al palazzo presidenziale di Carondelet. Non sarà lui ad affacciarsi dalla balconata incorniciata di colonne, (una lapide sotto ricorda l’assassinio  nel 1875 dell’allora presidente Garcia Moreno)  per salutare il popolo, ma il suo rampollo. Che sarà accompagnato dalla moglie, 24enne influencer di origini italiane,  e dalla sua  vice, Veronica Abad, simpatizzante di Vox, che si è esibita durante la campagna elettorale in attacchi virulenti contro il diritto all’educazione pubblica.  

Contro ogni previsione Noboa si era affermato al primo turno su altri candidati conservatori, e sul candidato di riferimento di alcuni settori indigeni e di movimento, Yaku Perez, passando quindi al secondo turno in competizione con il binomio della “Revolución Ciudadana”, il partito-movimento progressista fondato da Rafael Correa, già presidente e da anni in esilio in Belgio. Sulla sua testa pesanti condanne per corruzione, caso emblematico dell’uso politico della giustizia penale per far piazza pulita del passato, contraddittorio, devastante per i detrattori, o positivo che esso sia stato per il paese.

I due candidati Luisa González e Andrés Arauz non sono riusciti a “pinchar la burbuja”, a rompere la bolla  del loro consenso e quindi avere la maggioranza necessaria per essere eletti, seppur avendo riconquistato terreno ed arrivando a soli 4 punti percentuali dal vincente.

Noboa prenderà possesso del palazzo presidenziale a dicembre ed avrà davanti a sé una manciata di mesi, (un anno e mezzo più o meno) per attuare le promesse elettorali e potersi quindi riproporre al paese per il prossimo mandato, visto che le prossime elezioni si dovranno tenere nel 2025. Vale la pena di leggere i dati elettorali su scala regionale per capire meglio dove Noboa è riuscito a fare la differenza.

Mentre Gonzales e Arauz conquistano le province della costa, scosse dal crimine, financo il Guayas, feudo storico dei Noboa, Noboa stravince nelle provincie della Sierra a forte presenza indigena come il Tungurahua o il Cotopaxi, come anche in quelle amazzoniche dove più forte è la resistenza all’estrattivismo fossile, Napo e Pastaza. Un dato piuttosto sorprendente che senz’altro si comprende tenendo a mente due fattori. Il primo è il fattore “Y”, che sta per Yasuni, l’area di foresta amazzonica ricca di petrolio e oggetto di una decennale contesa finalmente culminata nel successo della consultazione popolare contemporanea al primo turno delle elezioni politiche, quando la stragrande maggioranza della popolazione si espresse per non estrarre petrolio e smantellare le infrastrutture esistenti. In campagna elettorale Noboa si era espresso a favore, mentre González contro la protezione dello Yasuni.

Foto di Wambra Medio Comunitario

A suo tempo Correa si distinse per la dura strategia di delegittimazione e criminalizzazione del movimento Yasunidos, invalidando in maniera arbitraria la maggior parte delle firme raccolte per indire la consultazione popolare. Il secondo,  il fattore “C”, la persistente presenza, in prima persona attraverso i candidati di turno, e nella memoria del paese, della figura di Rafael Correa, capo carismatico per alcuni, spauracchio o demonio per altri.

Sono infatti le comunità indigene ed i movimenti a loro sostegno che sono state tra le vittime principali della repressione ai tempi della “Revolución Ciudadana” e che non ce la fanno o non possono, comprensibilmente, dimenticare. L’altro dato che colpisce è la forte affermazione nella provincia della capitale Quito, il Pichincha, dove la Revolución Ciudadana aveva stravinto alle politiche conquistando anche la città di Quito, con il candidato sindaco Pabel Muñoz. Già questi elementi aiutano a leggere in filigrana qual è il paese che esce da queste tornate elettorali, e quale sarà quello che si ripresenterà alle prossime elezioni.  

Un paese ormai oltre l’orlo della crisi di nervi, sotto choc per il dilagare della criminalità organizzata, del narcotraffico e della violenza culminata nel “magnicidio” di Fernando Villavicencio uno dei candidati alla presidenza, alla vigilia delle elezioni. Un omicidio che ha cambiato inevitabilmente le carte in tavola, ed il tono della campagna elettorale.

Un paese impaurito che ha bisogno di essere rassicurato, tutelato, di fronte alla violenza dei sicari e delle ricadute della crisi economica e sociale. Non a caso, la candidata correista dopo aver ammesso la sconfitta ha offerto massima collaborazione al presidente ed al suo governo, sui temi di maggior urgenza per il paese, la sicurezza, le politiche economiche e sociali. Ad una condizione però, ossia che la crisi economica non venga presa a pretesto per privatizzare i servizi pubblici essenziali. Questi temi saranno assai prioritari nella contesa politica e nell’azione del nuovo governo.

In campagna elettorale Noboa aveva lanciato la proposta di una “consulta” popolare da effettuarsi a 100 giorni dalla loro elezione su temi relativi alla sicurezza sociale e la lotta alla criminalità organizzata, sulla riorganizzazione delle carceri e sul ruolo delle forze armate nella lotta alla narcocriminalità. “Chiederò direttamente al popolo di esprimersi, giacché il congresso è solo un impedimento” questo il tono delle dichiarazioni di Noboa. A queste condizioni  la possibilità di un governo di unità nazionale appare assai remota come anche quella di un dialogo con le opposizioni.

Foto di Coop Docs Cooperativa Audiovisual

Al congresso la coalizione posticcia messa in piedi per presentarlo alle elezioni non ha più del 10 percento dei seggi, la maggioranza relativa è in mano alla Revolución Ciudadana. Buona era stata anche l’affermazione di Pachakutik, partito di riferimento della Confederazione dei popolo indigeni CONAIE. Quest’ultima, attraverso il suo presidente Leonidas Iza non aveva presentato un proprio candidato, né dato indicazione di voto al ballottaggio, e si è defilata anche al primo turno, concentrando il messaggio sul sostegno alla propria piattaforma di politiche sociali, economiche ed ambientali, ed alla consultazione popolare per lo Yasuni.

Per tornare ai dati elettorali, il voto nullo non ha superato il 7% dei votanti, voto nullo “ideologico” per alcuni, “etico” per chi lo proponeva, in parte settori dei movimenti sociali ed ambientalisti. Un paese quindi scosso nel profondo alla ricerca di dialogo e di pace sociale, un disagio che Noboa ha saputo abilmente intercettare con il suo tono conciliante e rassicurante, non “conflittivo”. Con le sagome di cartone a misura naturale con il suo faccione sparse in tutto il paese, con il sostegno di una star del mondo dello sport. Giovane postmillennial che rappresenterebbe, per chi lo ha votato, il nuovo nei confronti del “vecchio” della classe politica disprezzata e delegittimata, nonostante la sua contiguità con i settori di riferimento del presidente uscente.

Un terreno fertile per politiche populiste che scavalcano a piè pari le dinamiche parlamentari. Un paese schizofrenico, che vota a maggioranza per le “sinistre” alle politiche ed alle amministrative e poi manda a maggioranza alla presidenza un candidato outsider che si definisce “socialdemocratico”, ma che invece nasce e vive nel mondo artificiale e ovattato delle enclave ricche del paese, di quella Samborondon, “gated community” dove si rifugiano sotto protezione armata i magnati di Guayaquil e le loro famiglie.

Si passa così dalla democrazia delle “elites” a quella delle “enclaves” di una classe dirigente che nasce nel mercato, nella finanza, nella speculazione. In netta continuità con il presidente uscente Guillermo Lasso, banchiere di Guayaquil che, per evitare l’impeachment da parte del congresso e di chiudere il suo mandato con un bilancio fallimentare,  decise si ricorrere al meccanismo della “muerte cruzada”, sciogliendo il parlamento e convocando quindi elezioni anticipate. 

Una “democrazia delle enclaves”, a stragrande maggioranza bianca,  che disconosce i meccanismi formali della democrazia, che parla di pace, ma intende “pacificazione”, che promette un paese migliore per tutti,  ma che guarda invece ai propri interessi. I primi nomi circolati per i ministeri chiave parlano chiaro: Gabriela Sommerfeld,  candidata ministro degli esteri è una tycoon del settore dei trasporti aerei e figlia di uno dei principali importatori di armi nel paese, rappresentante dell’industria militare israeliana. Il candidato a ministro dell’agricoltura, il secondo produttore di banane, di origine cinese, Ivan Wong che fu anche viceministro con il governo Correa. E poi Ivan Carmigniani il vero spin doctor della campagna elettorale anche lui imprenditore. Tutti parte del “cerchio magico” della Guayaquil che conta. Quella appunto delle enclave, non solo fisiche, ma mentali.

Foto Conaie

E poi il paese che ha chiesto di proteggere lo Yasuni, che travalica gli schieramenti politici, e che si è fatto artefice di un risultato storico e senza precedenti, che segna la via per tutti i movimenti di resistenza all’estrattivismo e per la giustizia climatica. Come dar seguito al mandato popolare su Yasuni sarà l’altro tema per Noboa, che avrà poco tempo per dare un segnale inequivocabile dopo i tentennamenti e le dichiarazioni contraddittoriedi esponenti di governo del suo predecessore.

E del correismo cosa resta? Resta l’ennesima dimostrazione della difficoltà di far crescere il proprio elettorato, di conquistare fin dal primo turno la presidenza pur avendo la maggioranza relativa nel paese. Senza questa possibilità ogni speranza di tornare alla guida dell’Ecuador rischia di essere velleitaria, visto che le due volte che è andata al ballottaggio ha sofferto le conseguenze dei compattamento dei voti dei candidati di destra e centro sull’unico candidato a loro avversario, prima Guillermo Lasso ora Daniel Noboa. E del mancato sostegno da parte di quei settori di sinistra e di movimento che erano stati vittime delle politiche repressive di Correa. Per farlo, dovrà avere la forza di rielaborare il lutto, e di fare i conti con la presenza del grande padre, di colui che viene definito “El Mashi”.

Giacché sia Arauz che González sono di fatto stati interpretati come “ologrammi” viventi del padre fondatore, presenza che ormai appare un freno, un deterrente per un rinnovamento delle strategie e della visione del paese. Per Luisa González ha pesato probabilmente anche la sua vocazione antiabortista e contro i diritti civili. Per tutti l’allergia cronica alle questioni ambientali, all’ecologia, la dipendenza immutata all’estrattivismo, seppur di stato. 

Sarà  inoltre necessario ed urgente riaprire canali di comunicazione con i movimenti indigeni e sociali. Una nuova strategia che potrebbe senz’altro avvantaggiarsi della forte presenza sui territori e nelle amministrazioni locali e di quadri dirigenti formati.  Da ora alle prossime elezioni ci saranno una manciata di mesi, pochi forse per rinnovarsi, sufficienti per mostrar per lo meno in cambio di passo. Un tempo tiranno che dall’altra parte rischia di tradursi nell’urgenza di soluzioni immediate ad alto impatto mediatico.

Pensando alla lotta alla criminalità organizzata il rischio è quello di scelte spregiudicate, che fanno carta straccia dei diritti umani, per mostrare al popolo le prede, il bottino di  guerra. A maggior ragione tenendo a mente il sostegno dato a  Noboa da un altro candidato del primo turno, il “Bukele” delle Ande, Topic, ex-mercenario, uomo del pugno duro e della guerra senza frontiere al crimine organizzato.  La storia della vicina Colombia e dei suoi “falsos positivos” insegna e pesa come un macigno.

Articolo pubblicato originariamente su othernews.info

Immagine di copertina da Flickr, foto della Asamblea Nacional del Ecuador

Immagini nell’articolo di Wambra Medio Comunitario e Coop Docs