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È stata la mano di Dio

Alla Mostra del cinema di Venezia presentato in concorso “È stata la mano di Dio”, di Paolo Sorrentino, in sala il 24 novembre e dal 15 dicembre su Netflix

Entriamo nel film arrivando a Napoli in volo sul mare, accompagnati da una lunga inquadratura dall’alto carica di sogni e aspettative. Ce ne andremo dopo due ore in modo decisamente più prosastico, in treno, mentre la voce di Pino Daniele canta Napule è, al termine di un racconto di formazione denso e universale.

Si sapeva che con questo nuovo lungometraggio il regista napoletano avrebbe portato sullo schermo una vicenda personale molto intima, la storia tragica dei suoi genitori, morti quando era poco più che adolescente per una fuga di monossido di carbonio nella loro casa di montagna, un dramma a cui Sorrentino è scampato perché scelse di non seguirli per andare al San Paolo a tifare il Napoli di Maradona.

Per un regista spesso tacciato di compiacimento e autoreferenzialità avrebbe potuto essere una trappola terribile.

Invece, con È stata la mano di Dio, Sorrentino non solo si mette veramente a nudo, spogliando letteralmente il suo cinema da quei barocchismi che tanto avevano appesantito le ultime prove cinematografiche e televisive, sfiorando la maniera, ma riesce anche a trasformare il personale in universale.

L’alter ego sorrentiniano è Fabietto Schisa (Filippo Scotti), un giovane studente di liceo classico nella Napoli di metà anni ’80, che vive con i genitori Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo), con il fratello maggiore Marchino (Marlon Joubert) e con una misteriosa sorella, perennemente chiusa in bagno a prepararsi.

Da quest’ultimo dettaglio e da altri, ad esempio l’inizio con San Gennaro e “il munaciello”, comprendiamo che la Napoli in cui ci troviamo è un luogo tutt’altro che reale ma al tempo stesso incredibilmente “vivo”, un sito della memoria trasfigurato e indulgentemente grottesco, in cui la numerosa famiglia Schisa e i vicini di casa affrontano, tra farsa e tragedia, i problemi della loro quotidianità, nell’attesa epifanica del Messia: Lui, Diego Armando Maradona, che – si dice – potrebbe arrivare a Napoli a suon di fideiussioni, portato dal presidente degli azzurri Ferlaino per compiere una rivoluzione più sociale che calcistica, per ridare dignità agli oppressi e guidare il riscatto del Sud.

La prima parte scorre tutta “nell’attesa” di Diego e mostra la ritualità quotidiana, confusa e irrisolta di Fabietto e dei suoi, mentre lo zio Alfredo, interpretato da Renato Carpentieri, sentenzia a più riprese che la realtà è terribilmente deludente.

La miseria della realtà è sottolineata anche da un’apparizione fondamentale nel film, quella di Federico Fellini, che in realtà viene lasciato fuori campo di cui sentiamo solo la voce, intento a fare provini ed elogiare la supremazia della fantasia.

L’avvento di Maradona coincide, di fatto, con la prematura morte dei genitori nella loro nuova casa di Roccaraso, località sciistica a un paio d’ore da Napoli. Il coming of age inizia con altre parole di zio Alfredo, che dice a Fabietto, al funerale dei genitori, che a salvarlo «è stata la mano di Dio», incarnata in quel profeta argentino che, segnando agli inglesi, ha riscattato il suo popolo umiliato alle Malvinas e che nel giorno fatale l’ha spinto lontano da Roccaraso, sugli spalti del San Paolo, a vedere Napoli-Empoli.

La seconda parte del film è allora una sorta di Bildungsroman, un viaggio iniziatico, fatto di esperienze, tappe e stazioni, alla ricerca di uno scopo, di una meta e di una cognizione del dolore che permetta di ritrovare un orizzonte perduto. Amicizie notturne, la prima scopata, il cinema come strumento perfetto per sfuggire all’eccesso di reale che si è mostrato all’improvviso a Fabietto. Qui si il film mostra anche la Napoli più sorprendente, notturna e onirica, suggestiva e poetica, sfondo ribollente della ricerca interiore di Fabietto.

La conclusione, proiettata verso una speranza, nasce da una presa di consapevolezza straziante e potente, la cui enunciazione finale non va scambiata (solo) per una dichiarazione di poetica. Fabietto, nelle battute conclusive del film, confessa al fantomatico regista Capuano – che gli chiede se abbia davvero qualcosa da dire accostandosi al cinema – l’aspetto più doloroso della sua perdita, che non sveliamo, ma ha a che fare proprio con l’impossibilità di dare un senso a una forma a ciò che nel dolore sfugge alla vista, alla difficoltà di guardare davvero la morte e di comprendere l’assenza nella presenza.

Come a dire che in fondo non solo Sorrentino, ma tutti noi, per sopportare il dolore, facciamo sempre e comunque lo stesso film.