MONDO

Donna, Vita, Libertà: lo slogan che fa vacillare i regimi

La rivolta in Rojhelat, la resistenza civile in Kurdistan del nord e in Turchia, la resistenza
sulle montagne, la rivoluzione del Rojava sono interconnesse, e sono fonte d’ispirazione
delle rivolte che sono scoppiate in Iran. Purtroppo anche la repressione ha le stesse
connotazioni, sempre più violenta e preventiva

La morte della ventiduenne curda Masha Amini, caduta in coma a seguito di un pestaggio subito dalla polizia morale iraniana dopo essere stata trattenuta in quanto sorpresa per le strade di Teheran con l’hijab “non indossato correttamente”, ha innescato una serie di proteste sfociate in una rivolta che ha coinvolto tutte le maggiori città iraniane e del Kurdistan dell’est.

L’ondata di proteste ha scoperchiato il vaso di Pandora portando alla luce una a una tutte le questioni irrisolte dello Stato iraniano.

Se il tema più evidente nelle piazze di questi giorni è la repressione sociale e politica a cui sono soggette soprattutto le donne, le piazze hanno mostrato un’insofferenza generale nei confronti della Repubblica Islamica e dei suoi leader, iconico a questo proposito l’incendio da parte dei manifestanti dell’opera memoriale dedicata a Qasem Soleimani situata a Kerman, sua città natale.

Soleimani è stato generale delle Niru-ye Qods, comunemente chiamate “Forze Quds”, la branca dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC) che si occupa di supporto militare e politico ai gruppi filo-iraniani fuori dai confini nazionali. “Il comandante nell’ombra”, come è stato definito dalla stampa, è considerato la mente dietro gli ultimi vent’anni di influenza politica nella regione e lo stratega dietro le vittorie militari iraniane in Iraq, attraverso le milizie sciite raccolte in Ḥashd ash-Shaʿbī (PMF), e in Siria al fianco di Bashar Assad, fino alla sua morte avvenuta a gennaio 2020 per mano di un drone USA all’aeroporto di Baghdad.

In questo contesto uno dei temi a lungo sopiti e che ora incendiano le piazze in particolare nel Nord-Est è la repressione dell’identità curda. Come è consuetudine per i curdi in tutte e quattro le parti occupate del Kurdistan la ragazza uccisa ha due nomi: Masha sui documenti rilasciati dalle autorità e Jina, il nome con cui è conosciuta a Saqiz, la città in cui viveva, nome che ai genitori non è stato consentito registrare ufficialmente in quanto curdo.

Saqiz è parte della regione storicamente identificata come Rojhelat (dal Kurmanji “Est”, letteralmente “Sole che sorge”), in cui vivono circa 10 milioni di curdi. Nella sua capitale storica, la città di Mahabad, è stata fondata nel 1946 sotto la guida di Qazi Muhammed, la prima repubblica indipendente curda, seppur di breve durata, chiamata “Repubblica del Kurdistan”.

Sebbene i curdi del Rojhelat abbiano partecipato attivamente alla rivoluzione contro la monarchia, originariamente movimento popolare eterogeneo, alla caduta della dinastia Palhavi si trovarono esclusi dall’ ”Assemblea degli esperti” che aveva il compito di redigere la nuova costituzione.

Nel momento in cui i partiti curdi denunciarono l’accaduto l’ayatollah Khomeini rispose lanciando una Fatwa in cui chiamò alla jihad contro i dissidenti, accusati di voler «dividere i musulmani con istanze nazionalistiche», ebbe così inizio una campagna di guerriglia da parte dei partiti curdi che è terminata nel 1989, quando il segretario del Partito Democratico del Kurdistan – Iran (KDP-I), Abdul Rahman Ghassemlou, fu assassinato a Vienna dalla controparte iraniana al tavolo dei negoziati di pace.

Negli ultimi 30 anni la Repubblica Islamica ha optato per un approccio alla questione curda in un certo senso opposto a quello dello Stato turco e più vicino all’approccio del governo siriano. Mentre in Turchia la parola Kurdistan è un tabù impronunciabile in pubblico, in Iran esiste persino una provincia denominata Kurdistan che però copre circa un sesto del territorio abitato dalla popolazione curda e non prevede alcuno statuto speciale o di autonomia.

Al posto delle famigerate “Guardie di villaggio”, milizie paramilitari formate da tribù curde collaborazioniste, usate dal governo turco per controllare militarmente il territorio nel Kurdistan del nord, lo stato iraniano ha integrato molti curdi nelle strutture militari ufficiali. Persino nelle IRGC sono state formate unità di controguerriglia composte esclusivamente da curdi, che occasionalmente possono essere visti indossare le tipiche uniformi dei guerriglieri.

Diversi partiti d’opposizione operano in Rojhelat sia come strutture politiche che come movimenti di guerriglia, alcuni seguendo la tradizione del nazionalismo curdo come il KDP-I o come il Komala, organizzazione che fonde questa tradizione con una rigida linea marxista-leninista.

Due sigle invece sono organizzate sotto l’ombrello del KCK, la struttura politica e di coordinamento che si ispira al paradigma del Confederalismo Democratico teorizzato dal fondatore del PKK, Abdullah Ocalan. Una è il Partito della Vita Libera del Kurdistan (PJAK), centro ideologico e di autodifesa, l’altra è il KODAR, organizzazione politica della società civile.

Le forze armate iraniane, salvo alcuni eventi eccezionali evitano lo scontro militare nonostante alcuni partiti, come il KDP-I, contino su una forza in armi molto ridotta, al punto che la propria ala militare potrebbe essere considerata simbolica.

Questa linea è stata scelta per non commettere lo stesso errore dello Stato turco, che con le sue politiche di guerra aperta al popolo curdo negli ultimi 30 anni ha alimentato la rabbia di migliaia di giovani curdi che si sono uniti alla guerriglia. I curdi spiegano questa strategia usando un antico detto: «I turchi proveranno ad ucciderti con la spada, i persiani lo faranno con lo zucchero».

Dietro questa apparente tolleranza infatti si cela una macchina repressiva più silenziosa ma egualmente spaventosa, secondo l’agenzia per i diritti umani Hengaw, ad agosto 2022 64 cittadini curdi sono stati condannati a morte e impiccati per reati politici, 121 attivisti sono stati condannati a morte con sentenza in sospeso o sono scomparsi, 16 sono morti in cella, 34 sono stati condannati a morte per reati comuni e 290 kolbar, lavoratori che trasportano beni attraverso il confine tra Iran e Iraq, sono stati uccisi o gravemente feriti dal fuoco delle guardie di frontiera.

Bisogna poi considerare che seppure Turchia e Iran sono in conflitto per l’egemonia nella regione, le agenzie di intelligence dei due Paesi collaborano attivamente nella repressione del movimento curdo. Un esempio è l’assassino del comandante del PJAK Rezan Javid.

Heval Rezan si trovava a Qamişlo, in Rojava, quando il 6 agosto 2022, durante una visita diplomatica cui scopo era osservare l’andamento della rivoluzione e rafforzare la lotta in Rojhelat, è stato assassinato da un drone turco indirizzato al bersaglio da intelligence iraniana.

Seppure le organizzazioni curde in Rojhelat non siano state negli ultimi anni in una fase di scontro militare con la Repubblica Islamica, il lavoro politico del KCK non si è mai arrestato. Per questo motivo oggi la repressione dell’identità curda, il movimento di liberazione del Kurdistan e il paradigma ideato da Ocalan, in particolare le teorie sviluppate dal movimento delle donne curde, sono tasselli fondamentali nella crisi in Iran.

Non solo perché in questi anni centinaia di curdi dal Rojhelat sono arrivati in Rojava per combattere al fianco della rivoluzione, assimilandone i principi, mentre molti altri si trovano tutt’ora sulle montagne del Kurdistan al confine tra Turchia e Iraq, impegnati nella resistenza contro l’invasione turca.

In generale il movimento di liberazione del Kurdistan, specialmente dopo la rivoluzione in Rojava, è stato di ispirazione per altri popoli della regione ancor prima di essere conosciuto in occidente. Uno dei primi martiri internazionali in Rojava con il nome di battaglia Aryel Botan, caduto nel maggio del 2015, prima di unirsi alle YPG si chiamava Mihemed Hisen Kerim, originario proprio di Teheran.

Un indizio della particolare importanza della questione curda in questi eventi è riscontrabile nella gestione della situazione da parte delle autorità iraniane. Seppur estremamente violenta, la repressione che i manifestanti stanno subendo in tutto il Paese, costata già la vita a decine di persone, non è un unicum nella storia recente.

Già nel 2019 l’innalzamento dei prezzi del carburante fino al 200% aveva innescato una serie di proteste sfociate in una rivolta durata quasi sei mesi e della cui repressione il bilancio, ancora oggi incerto, si aggira sulle 1500 vittime. In questi giorni tuttavia parallelamente alla militarizzazione delle piazze in tutto l’Iran, l’esercito ha iniziato una serie di azioni militari preventive contro le organizzazioni curde.

Da diversi giorni l’artiglieria iraniana bombarda le montagne della regione del Kurdistan in Iraq (KRI) storicamente rifugio della guerriglia e, attraverso i media e con un fitto lancio aereo di volantini, l’ IRGC ha intimato alla popolazione civile di evacuare le aree del KRI in cui sono presenti basi dei partiti curdi in clandestinità, procedura solitamente precedente a un’incursione militare.

La rivolta in Rojhelat, la resistenza civile in Kurdistan del nord e in Turchia, la resistenza sulle montagne e la rivoluzione del Rojava sono interconnesse.

La rivoluzione delle donne in Rojava ha creato un precedente fondamentale nella storia della regione, in particolare negli stati-nazione in cui cade una parte del Kurdistan. Il destino dei movimenti sociali in questa parte del mondo è intrecciato con il destino del Kurdistan e del suo movimento di liberazione, e non è un caso che oggi nelle piazze di Saqiz, Mahabad, Sanadaj e Teheran, viene scandito lo slogan simbolo del movimento delle donne curde, tratto dagli scritti di Abdullah Öcalan.

Lo stesso grido che si sentiva sui campi di battaglia di Raqqa e Afrin oggi risuona a Zap, Metina e Avasin: Jin, Jiyan, Azadi. Donna, Vita, Libertà.

Immagine di copertina da Archivio