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NELLE STORIE

Domenica di sangue (Krovávoe Voskresen’e), 9 gennaio 1905

Il 9 gennaio 1905 (calendario giuliano = 22 gennaio di quello attuale) il vecchio mondo cominciò a crollare e la città dai molti nomi, all’epoca San Pietroburgo, ne fu lo scenario inaugurale. L’Apocalisse era stata debitamente annunciata da Angeli, mostri e costellazioni maligne.

L’Angelo della guerra già da un anno faceva squillare le sue trombe nell’Estremo Oriente, dove un’operazione coloniale ed estrattiva in apparenza facile (strappare le ricche foreste manciuriane ai giapponesi e inserirle nel patrimonio privato dello Zar) stava volgendo al peggio, con la battaglia terrestre di Mukden, l‘assedio di Port-Arthur e il disastro navale di Tsushima.

Gli Angeli dello sciopero e il “gallo rosso” nelle campagne battevano il tamburo con ritmo crescente.

Alta si levava all’orizzonte la Stella assenzio dei pogrom antisemiti – il diversivo inventato, dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, per convogliare il malcontento popolare verso il solito capro espiatorio: pubblicazione degli apocrifi Protocolli dei Savi Anziani di Sion, ancor oggi popolari nelle fogne del web, stragi sistematiche e misure legali persecutorie (una prima ondata fra il 1881 e il 1884 dopo l’assassinio di Alessandro II, una seconda a partire dal 1903, culminata nell’eccidio di Kišinëv, una terza durante e dopo la rivoluzione del 1905 con oltre 5000 vittime), costrizione all’emigrazione, in particolare verso gli Usa. Con il pieno appoggi del paterno e cristianissimo Zar e del suo reazionario e antisemita ministro degli Interni Pleve.

Già nel 1902 Lev Tolstoj aveva scritto a Nicola II, che nemmeno si degnò di rispondere, che un terzo della Russia si trovava nello stato d’emergenza, cioè fuori dalla legge. Censura letteraria, giornalistica e universitaria, persecuzioni religiose, repressione feroce nelle strade e nelle carceri.

Le minoranze nazionali erano in rivolta, soprattutto in Finlandia e in Polonia. Saccheggi e incendi dilagavano quasi sempre spontaneamente nelle campagne, mentre Nicola II ammoniva i contadini sediziosi «ubbidire ai rappresentanti della nobiltà» e a dedicarsi a una vita «parsimoniosa e ossequiente ai comandamenti divini».

I social-rivoluzionari, eredi della Naròdnaja Volja populista, promuovevano manifestazioni studentesche e pianificavano riusciti attentati contro ministri degli Interni e dell’Istruzione (Sipjagin, Pleve, Bogolepov), granduchi e generali-governatori, mentre i socialdemocratici si attivavano negli scioperi, iniziati a Mosca e Pietroburgo nel giugno 1896 e ripresi alla grande durante la guerra con il Giappone, specialmente alla fine del 1904 a Baku, in concomitanza con le sconfitte militari e il sostanziale rifiuto di Nicola II di promuovere un programma di riforme e di adottare, malgrado le sollecitazioni provenienti dal suo stesso apparato amministrativo e dai capitalisti più lungimiranti,  «un sistema rappresentativo di governo, in quanto deleterio per il popolo che mi è stato affidato da Dio». Ben presto al blocco dell’estrazione del petrolio si aggiunge lo sciopero della principale fabbrica di armamenti, la Putilov. Gli Angeli apocalittici dello sciopero lo erano diventati anche della disfatta.

Per porre un argine alle agitazioni e all’incipiente sindacalizzazione S.V. Zubatov, un accorto dirigente dell’Ochrana con un passato giovanile nichilista, orchestrò, con il consenso dell’agenzia e del ministro Pleve, delle società operaie corporative e disposte a richiedere il patrocinio dello Zar, per definizione al di sopra delle classi, per tutelare i propri “legittimi” (cioè minimali) interessi economici, senza avanzare richieste politiche. Questi finti sindacati funzionarono nei primi anni del secolo, incappando ben presto in clamorose contraddizioni proprio quando riuscivano a indire scioperi veri, come quello di Odessa del settembre 1903, che fece naufragare il processo del “socialismo poliziesco”. Fra i più attivi leader delle formazioni di Zubatov c’era, alla testa del circolo di Pietroburgo, il pope Gapòn che riuscì a mantenere la struttura organizzativa (limitata soltanto ai bravi operai cristiani) con l’approvazione delle autorità ma cercando di limitare il controllo poliziesco e di radicalizzare politicamente le azioni sindacali, Quando nel dicembre 1904 le officine Putilov licenziarono quattro aderenti al circolo, il sindacato giallo proclamò lo sciopero che ben presto si estese a tutta la città: oltre alla riassunzione dei licenziati si richiedevano il riconoscimento del diritto di sciopero, la giornata di 8 ore e il divieto del lavoro straordinario. Al rifiuto dell’azienda, lo sciopero viene dichiarato a oltranza e assume carattere politico. Per domenica 6 gennaio si decide di consegnare in massa allo Zar una petizione, in cui si richiedono i diritti politici e civili, oltre a quelli sindacali, e profonde riforme economiche, agrarie, giudiziarie e costituzionali, che in pratica mettevano in discussione l’autocrazia dei Romanov e il latifondo. Niente armi, è una processione pacifica, le icone in testa, per chiedere la protezione del sovrano, perché sia informato delle ingiustizie perpetrate da funzionari infedeli, aristocratici e capitalisti. L’illusione delle masse e (forse) di Gapòn stesso è fondamentale per capire la portata devastante della disillusione che seguirà. Anche se il pope fosse stato un agente provocatore (come subito fu sostenuto ma mai chiarito da testimonianze o documenti), sarebbe stato uno dei non rari casi – dalla rivolta nobiliare francese del 1788 alle più recenti manifestazioni in Iran – in cui una manovra da destra produce un imprevisto sommovimento rivoluzionario.

Lo Zar e il governo, asserragliati fuori città nella residenza imperiale di Carskoe Selò, rispondono picche alle richieste, ammoniscono severamente Gapòn e gli altri dirigenti, proclamano segretamente lo stato d’assedio e concentrano 30.00 soldati e 10.000 sbirri a Pietroburgo, schierano artiglieria e cosacchi davanti al Palazzo, arrestano nella notte un po’ di agitatori e al mattino bloccano i ponti. I manifestanti (120.000, secondo le stime che Nicola appunta sul suo diario) si muovono su quattro cortei che confluiscono verso il Palazzo. I tre che provengono da Kòlpino, Vyborg e Vasíl’evskij Ostrov aggirano i blocchi (la Nevà è ghiacciata, come lo sarà nel febbraio 1917), ma vengono sanguinosamente caricati quando cercano di superare la cerchia più interna di canali (la Mojka). I primi morti cadono in piazza della Trinità, allo sbocco del ponte omonimo, e sul Nevskij Prospèkt. Lo spezzone più grosso, quello che proviene da sud-ovest, dalle officine Putilov e dai circostanti quartieri operai, sfonda con gravi perdite alla Porta di Narva (Arco di Trionfo) e filtra, sempre guidato da Gapòn, fino alla piazza antistante al Palazzo d’Inverno, dove viene macellato da cannoni, fucili e cariche di cavalleria. Sul selciato rimase oltre un migliaio di manifestanti e molti più furono i feriti.

Dopo un rimpallo di responsabilità, lo Zar affidò il governo della capitale al generale Trepov, discendente di una famigerata famiglia di generali, e se ne andò a cena con zarina e maman, vergando sul diario un pensierino di rincrescimento per l’ecatombe “inevitabile”. Persino il cugino, il Kaiser Guglielmo II lo rimproverò di insipienza, per aver distrutto la fede popolare in lui e non aver neppure tentato di affacciarsi al balcone del Palazzo per placare gli animi.

I superstiti, meno pacifici dopo la lezione, eressero barricate sulle isole e si dispersero il giorno successivo per continuare la lotta, mentre grandi cortei di solidarietà si svolsero, con nuovi eccidi, a Riga e Varsavia. L’Università di Pietroburgo fu occupata e divenne un centro permanente di agitazione contro la guerra e contro l’autocrazia. Gli scioperi dilagarono a Mosca, negli Urali, nel bacino del Volga, nelle ferrovie, a Saratov, a Char’kov, a Odessa. Nella Russia profonda esplosero jacqueries e si verificarono numerosi episodi di sabotaggio e occupazione di terre.

A maggio sorge il primo Soviet a Ivanovo-Voznesènsk, unificando le rivendicazioni complessive proletarie e le istanze di riforma politica. A giugno con lo sciopero generale a Odessa e il celebre ammutinamento della flotta del mar Nero entra in scena per la prima volta una component militare rivoluzionaria. Dopo numerosi scontri e sommosse si arriva al grande sciopero di Mosca e alla costituzione del Soviet di Pietroburgo il 27 ottobre e di Mosca a novembre. Lo Zar promette (menzognere) concessioni e l’elezione di una Duma, ma ormai la rivoluzione è in pieno corso.

Del massacro del 9 gennaio 1905, come dell’assalto al Palazzo d’inverno del 25 ottobre 1917, non esistono reperti d’epoca, ma solo quadri e foto di messe in scena commemorative.

Sparatoria, da una ricostruzione del 1925

 

Scriverà retrospettivamente Trockij: «dopo il 9 gennaio la rivoluzione aveva rivelato il suo potere alla coscienza degli operai. Il 14 giugno, grazie alla rivolta del Potëmkin, aveva dimostrato di essere in grado di trasformarsi in una forza materiale. Con lo sciopero di ottobre e l’organizzazione del Soviet ha dimostrato di essere in grado di poter disorganizzare l’avversario e di costituire un potere fornito di autorità».

 

Link. I. Repin, Dimostrazione del 17 ottobre 1905, 1906–1911

 

Verrà poi, e durerà fino a tutto il 1906, una dura repressione, segnata dall’oscillazione fra il timido riformismo di Vitte e sussulti più autoritari e accompagnata dai pogrom delle Centurie Nere – il più orrendo a Tomsk, in ottobre, quando un migliaio di ebrei furono chiusi in un teatro e bruciati vivi alla presenza di vescovo e governatore. Nicola il Sanguinario non si smentisce e scrive al maman che i giudei se l’erano andata a cercare.  Non per niente la Chiesa e Putin lo hanno proclamato santo e martire delle fede ortodossa, con tanto di riesumazione dei resti e seppellimento solenne nella cattedrale di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Affinità elettive.

Negli anni fra il 1906 e il 1917 la Russia zarista precipiterà in una grottesca commedia di intrighi e false riforme: l’agonia autocratica sarà ben documentata con il sobrio montaggio di materiali filmici d’epoca dalla prima cineasta sovietica,  Ėsfir’ Šub (La caduta della dinastia dei Romanov, 1927), che nostra crudamente due tipi antropologici: i dignitari di corte impennacchiati, i pasciuti latifondisti e industriali, i trionfi generali (nella loro stessa compiaciuta rappresentazione, non nelle vignette satiriche) da un lato, operai, minatori e contadini nelle immagini ufficiali d’epoca: già volti di bolscevichi e dell’Armata Rossa. Di lì a poco l’Apocalisse giungerà al culmine e i suoi Cavalieri faranno giustizia.