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NELLE STORIE

La battaglia della Montagna Bianca

Un lungo percorso, durato tre secoli, porta alla storica battaglia che l’8 novembre del 1620 vide contrapporsi l’esercito del regno di Boemia e le truppe imperiali. A quello stesso conflitto seguì la Guerra dei Trent’Anni, una delle vicende più rilevanti dell’intera storia europea

La Bílá Hora, Montagna Bianca, è un dolce rilievo collinare a ovest di Praga. La sua altezza sfiora i 380 metri. Isolata un tempo al centro di una vasta riserva di caccia reale, è ora un grande e gradevole parco pubblico, lambito dall’ultimo sviluppo urbano e facilmente raggiungibile dalla Città Vecchia con almeno tre linee di autobus. A sancire però l’inscindibile legame col passato di questo luogo, svetta ancora sulla sua sommità un vistoso edificio rinascimentale, il Letohrádek Hvězda, padiglione di caccia dall’inconsueta pianta a stella, costruito nel 1555 per l’arciduca Ferdinando del Tirolo. Ma ancora di più, a segnarne incancellabilmente la storia vale un cippo piramidale di pietre, poco lontano dall’edificio, che tiene memoria, forse troppo dimessamente, dell’evento cruciale e determinante che qui si svolse l’8 novembre del 1620: la Battaglia della Montagna Bianca. Di questo fatto d’arme intendiamo qui ricostruire, insieme al suo svolgersi, soltanto gli antefatti, comunque più che numerosi e interessanti. Ciò ben sapendo che la temperie temporale che ne seguì, la Guerra dei Trent’Anni, vide svolgersi un insieme di vicende tra le più importanti della storia europea: per questo materia troppo vasta, complessa, drammatica, affascinante per essere ridotta, compressa e contenuta in una lineare commemorazione sul filo di una precisa data.

Nei trattati di storia militare, la battaglia della Montagna Bianca viene generalmente descritta in poche battute. Sul campo si contrapponevano due eserciti, quello del regno di Boemia, la cui corona poggiava da meno di un anno sul capo del principe elettore del Palatinato Federico V, e nel quale erano schierati valorosi capi militari come il conte Ernst von Mansfeld, il principe Christian von Anhalt-Bernburg, Cancelliere del Re, il conte Jindřich Matyáš Thurn-Valsassina e Bethlen Gábor principe di Transilvania, e quello formato da un nutrito contingente imperiale, al comando del conte Karel Bonaventura di Buquoy e dai mercenari della Lega Cattolica del nobile vallone Johann Tserclaes conte di Tilly. Le truppe boeme, circa 21.000 uomini, si erano attestate su una posizione difensiva apparentemente solida, che sfruttava le pendici della collina, con il fianco destro protetto dalla villa Stella, ma che di fatto era tagliata fuori dalla strada per Praga, unica via dalla quale sarebbero potuti arrivare rinforzi e soccorsi. Le truppe cattoliche erano in ogni caso numericamente superiori (circa 29.000 uomini), oltre che meglio armate e addestrate. E furono esse a muoversi per prime.

La cavalleria boema di Anhalt riuscì a contenere la prima offensiva nemica, ma un nuovo attacco dei reggimenti bavaresi e dei tercios  valloni ebbe l’esito di mettere in fuga gli ungheresi di Bethlen Gabor. In poco più di un’ora, anche la fanteria boema cedette all’avanzata del nemico, rinforzato a quel punto dall’arrivo dei reparti imperiali. L’intera artiglieria dell’esercito di Federico V, consistente in 10 cannoni, cadde nelle mani del nemico. Con le forze protestanti che andavano costantemente diminuendo, a causa dello sbandamento dei reparti e delle perdite, Tilly e i suoi uomini riuscirono a spingersi sino alla Stella, travolgendo le ultime difese nemiche. I combattimenti erano durati poco più di un’ora. L’esercito protestante si era letteralmente dissolto e aveva lasciato sul terreno circa 4.000 caduti. Le perdite cattoliche ammontarono a qualche centinaio di uomini.

Mentre battaglia era in corso, Federico V si era intanto seduto a tavola, in attesa di notizie, in una delle sale del Hradčany, il maestoso castello alto sulle due Città, la Vecchia e la Nuova, che davano vita e tessuto urbano all’intera Praga. Chi lo mise al corrente del disastro appena avvenuto, fu Anhalt. Che prese subito a insistere perché il re e i suoi familiari abbandonassero immediatamente la città, che rischiava da un momento all’altro di essere invasa dal nemico. Federico non

si fece pregare: già il giorno successivo era in viaggio verso Breslavia e la Slesia, con i familiari e i suoi più stretti consiglieri. Su tanta fretta, la satira antiboema e antiprotestante, già vivissima con pamphlet, volantini e stampe popolari, coniò la figura del Re dalle Calze Calanti: negli appartamenti reali del castello erano state rinvenute infatti le insegne dell’Ordine della Giarrettiera, che Federico aveva ricevuto come marito di  Elisabetta Stuart, figlia di Giacomo I d’Inghilterra, ma che non aveva avuto modo di portare con sé. Del Re di un Inverno, comunque, la storia si occupò sempre più marginalmente, sino alla sua morte, sopraggiunta a Mainz nel 1632.

Nel giro di poche ore dalla fuga di Federico, le truppe imperiali entrarono in Praga e si accinsero

a occuparla stabilmente. La città non subì saccheggi e devastazioni. L’unica anche se dura rappresaglia, fu la spettacolare decapitazione un anno dopo, nello scenario di Staroměstské náměstí, di 27 capi della rivolta. L’ultima avventura boema era giunta alla sua fine fallimentare.

 

Ma come e perché si era arrivati, alla Montagna Bianca?

Lungo un percorso sofferto e drammatico, durato almeno tre secoli, nella storia della Boemia e dell’Impero. Il regno di Boemia era stato sin dalla nascita entità politica in qualche modo parte del Sacro Romano Impero, e le due cariche, quella di re di Boemia e di Imperatore erano più volte state appannaggio della stessa persona.

Carlo IV di Lussemburgo, per citare uno di questi sovrani, eletto nel 1346, aveva fissato la sua residenza a Praga. E a Praga aveva fatto mettere a punto, dieci anni dopo, quella Bolla d’Oro che di lì in poi avrebbe regolato in termini rigidamente formali la procedura dell’elezione imperiale. Il Re di Boemia era dunque diventato Grande Elettore. Mai i destini di due Sovranità sembravano essere più complementari, dunque. In realtà, i Boemi, soprattutto i Praghesi, non avevano mai rinunciato alla visione di una loro indipendenza, o meglio: al sogno di poter guardare a se stessi come a una “nazione” ricca della propria autonomia religiosa, culturale, politica. Dell’importanza di questo patrimonio ideale era stata esempio più che paradigmatico la vicenda di Jan Hus e della sua eresia, sfociata in una sanguinosissima guerra tanto “patriottica” quanto rivoluzionaria durata decenni. Grazie anche all’eredità spirituale e culturale dell’Hussitismo, tenuta viva da numerose scuole dottrinali e gruppi di seguaci e di credenti, il Protestantesimo e le varie Riforme non ebbero alcuna difficoltà a trovare in Boema spazio e consensi sempre più ampi. L’affermarsi di un sempre più largo ed esclusivo predominio dinastico da parte dei cattolicissimi Asburgo sugli altri potentati e il loro continuo alternarsi alla guida tanto del paese quanto dell’Impero, contribuì non poco a creare un generale malessere e un diffuso malcontento, pronti a diventare facilmente spirito di rivolta e aperta ribellione.

Il caso vuole che a far precipitare la situazione verso una crisi irreversibile fosse l’operato di una figura di sovrano che aveva curiosamente messo l’amore per Praga al centro della sua vita. Rodolfo II d’Asburgo, re di Ungheria e re di Boemia, eletto imperatore nel 1575, fissò la sua residenza a Praga nel 1583. Con lui, la capitale boema (e imperiale!) divenne la “città magica” nella quale si incontrano personaggi come il rabbi Yehuda Löw Ben Bezalel, il mitico creatore del gōlem, o figure solo appena più “storiche” di filosofi, astrologi, alchimisti e operatori del magico come  Giordano BrunoTycho Brahe, Johannes Kepler, John DeeEdward KellyMichael Sendivogius. E si hanno notizie diffuse su una passione fortissima del Sovrano per il collezionismo, sfociata in una Wunderkammer divenuta un vero e proprio museo e in una raccolta d’arte tra le più importanti dell’epoca, oggi dispersa ma della cui originalità rimangono prova, tra gli altri, numerosi dipinti di Arcimboldo. Va detto però che pur essendo già al suo tempo molto discusso e criticato come reggitore della cosa pubblica, Rodolfo dimostrò comunque una notevole sensibilità politica quando concesse ai suoi sudditi una Lettera di Maestà nella quale era statuita per i protestanti e i riformati boemi una certa libertà di culto.

Fu la revoca da parte dei suoi successori Mattia e Ferdinando II d’Asburgo di tale Lettera che aprì la crisi approdata in meno di due anni alla battaglia sopra descritta. In particolare, Ferdinando proibì la costruzione di due luoghi di culto evangelici sostenendo che i terreni su cui dovevano sorgere erano di proprietà cattolica. Per protestare contro una tale decisione fu convocata nel Castello di Hradčany un’assemblea dei notabili protestanti. I due legati imperiali, Jaroslav Bořita z Martinic e Vilém Slavata e un loro segretario, Filip Fabricius, che si erano con una certa leggerezza e tracotanza presentati alla riunione furono afferrati dai presenti e precipitati da una finestra della sala.

Non era la prima volta che a Praga una “defenestrazione” era stata un gesto estremo di protesta o il segnale di una rivolta. In due precedenti del 1418 e del 1483, gruppi di appartenenti al radicalismo hussita avevano messo a morte in tale modo numerosi esponenti del cattolicesimo imperiale. La sorte dei tre non fu in realtà così drammatica. I cespugli di rose ma soprattutto i mucchi di letame su cui atterrarono attutirono gli effetti del volo e i Nostri rimasero praticamente illesi. Con una certa prontezza, nei giorni successivi all’evento gli Asburgo concessero al segretario il cognome nobilitante di Von Hohenfall, cioè di “Caduto dall’alto”. Aggiungiamo a margine che nel marzo del 1948 sotto le finestre del palazzo Černin fu rinvenuto il corpo del ministro Jan Masaryk, unico e polemico esponente del dissenso nel primo governo comunista del paese.

Per tornare alla “nostra” Defenestrazione: per dare logica conseguenza all’atto attraverso cui veniva proclamata una sorta di indipendenza della Boemia, occorreva ora trovare uno sbocco istituzionale all’accaduto. La Boemia rimaneva ovviamente il regno che era sempre stato: le occorreva un nuovo Re. Dopo un rifiuto imbarazzato da parte di Giovanni Giorgio Elettore di Sassonia, la scelta della Dieta praghese cadde su Federico V di Wittelsbach-Simmern, il Grande Elettore del Palatinato. Una scelta che, pur non essendo la prima, poggiava comunque su solide ragioni. Intanto Federico era a capo dell’Unione Protestante. Era sposato con Elisabetta Stuart, figlia di Giacomo I d’Inghilterra. Aveva poi mostrato immediato interesse per la causa boema, organizzando numerose missione diplomatiche di sostegno ma anche inviando a Praga un primo contingente di armati al comando di Christian di Anhalt-Bernburg, suo amico e Cancelliere. Federico accettò, e fu incoronato il 4 novembre 1619. La cerimonia fu un concreto esempio di tolleranza e rispetto tra confessioni religiose: Federico era in realtà calvinista, denominazione assente a Praga, gli officianti erano Kališníci, o Calistini, ministri di culto hussiti che seguivano ancora la ritualità. Il suo regno durò “un inverno”, come si disse allora. Un anno, in realtà. Fu davvero, come molti sostengono, vivo e operante in quell’anno l’avventuroso disegno politico e culturale di costruire in una rinnovata Germania un sistema di stati e di nazioni indipendenti capaci di lottare, forti del loro protestantesimo, contro l’assolutismo asburgico e l’oscurantismo restauratore della Controriforma, imprimendo una decisa svolta in senso illuminato se non ancora democratico alle relazioni tra stati e cittadini?

Un assenso assoluto a questi ipotesi ci viene ancora oggi dallo straordinario lavoro di Frances Yates, che indagando sulla cultura, sulla filosofia, sul sentimento religioso del tardo Cinquecento e dei primi decenni del Seicento arriva a ipotizzare l’esistenza di correnti culturali e spirituali capaci di disegnare un tale progetto e di operare per renderlo vivo. A rimanere agli accadimenti, è difficile pensare che il profilo politico, e anche personale, a quanto sappiamo, di Federico potesse realmente incarnare un tale sogno. Ma che sia stata “rosicrucian” o no, una speranza in un “mondo migliore” ci deve essere pur stata, in qualche cuore o in qualche mente più viva di quegli anni. La Yates celebra in questo senso Giordano Bruno, Jan Amos Komenský, Johannes Valentinus Andreae, il nostro troppo trascurato Traiano Boccalini, e poi Bacone, Cartesio, la Royal Society. Davvero una splendida lettura.

 

Interrompiamo qui. Voglio solo essere tanto sfrontato da affermare che se avessi potuto, avrei parlato anche di ciò che dopo avvenne: di tutta la fase boemo-palatina, oltre la Bílá Hora, della guerra; e poi, ovviamente, della fase danese (1625-1629), della fase italiana (1628-1631), della fase svedese (1630-1635), della fase franco -svedese (1635–1648) e della Pace di Westfalia. E dunque di Cristiano IV di Danimarca, di Albrecht von Wallenstein, di Ambrogio Spinola, del Duca-conte di Olivares, della Guerra del Monferrato in Italia, della peste del 1630, quella dei Promessi Sposi, della cosiddetta Cabala degli Italiani al comando degli eserciti imperiali, Torquato Conti, Ernesto e Raimondo Montecuccoli, Rambaldo di Collalto, Rodolfo di Colloredo, Mattia Gallas, Ottavio Piccolomini, della presa di Magdeburgo e del suo orribile saccheggio da parte degli imperiali, di Gustavo Adolfo di Svezia, del suo cancellerie Axel Oxenstierna, delle battaglie di Breitenfeld, di Lützen, di Nördlingen, di Richelieu, del Gran Condè, dei Tercios Viejos de Lombardia, de Naples, de Cerdeña, de Flandes alla battaglia di Rocroi…e di Simplicissimus e della Vita dell’arcitruffatrice e vagabonda Courasche, opere uscite a pochi anni dalla pace del 1648 dalla magica penna di Grimmelshausen.