NELLE STORIE

4 luglio 1849: cade la Repubblica Romana

170 anni fa come oggi, finiva una rivolta diventata rivoluzione

Un anniversario: quello della caduta, 170 anni fa, della Repubblica Romana. Quello stato democratico e repubblicano che prese vita da una rivolta, presto diventata una vera e propria rivoluzione, contro Pio IX e i suoi poteri temporali di sovrano dello Stato Pontificio. Un nuovo Stato che ebbe la forza e il coraggio di darsi come forma istituzionale, quella di una Repubblica parlamentare, e come organo di governo un Triumvirato formato da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi, Carlo Armellini (rimasto in carica dal 29 marzo al 1º luglio 1849).

Proclamata il 9 febbraio 1849 con un decreto fondamentale il cui art. 1 suonava “Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano”, il suo ultimo atto politico fu la seduta dell’Assemblea legislativa, nel corso della quale fu proclamata quella che doveva essere, e non fu, la Costituzione dello stato. Era, appunto, il 4 luglio 1849. Quando già le truppe francesi avevano occupato la città.

Nata nel cuore dei grandi moti, delle rivoluzioni e delle guerre che a partire del 1848 coinvolsero tutta Europa, e dunque pienamente in sintonia con il radicalismo di quegli anni, fu anche la principale conseguenza, in qualche modo, dell’oscillante atteggiamento politico di papa Mastai, inizialmente favorevole a un sia pur moderato processo di unità nazionale e a una guerra “patriottica” contro le potenze straniere, Austria in primo luogo, che occupavano buona parte dell’Italia.

Questo atteggiamento, rapidamente contraddetto da un rapido ritiro dalla contesa e dallo schieramento “nazionale”, sul piano interno portò a politiche di governo in qualche modo riformatrici che però, come nel caso della nomina a Primo Ministro di Pellegrino Rossi, subito caduto ucciso per mano di un gruppo di congiurati repubblicani, non trovò alcuna attenzione o favore da parte democratica e popolare. E non riuscì a evitare l’inasprirsi dello scontro politico, fino ai moti che culminarono nell’abbandono della città da parte del papa la sera del 24 novembre 1848 e nella successiva fase costituente, durata poco più di un mese, che vide accorrere a Roma personaggi come Giuseppe Mazzini (celebre il telegramma inviatogli da Goffredo Mameli il cui testo recitava «Roma. Repubblica. Venite») e appunto, attraverso libere elezioni, alla proclamazione della Repubblica.

 

La Repubblica Romana ebbe vita breve, non più lunga di cinque mesi.

 

Cadde a causa dell’intervento militare della Francia repubblicana di Luigi Bonaparte, che per un duplice calcolo politico, quello di contrastare il ruolo assoluto di potenza egemone su scala continentale dell’impero austriaco, e quello non secondario di rafforzare con una vittoria politico-militare il suo potere personale, in vista della ricostituzione di un Secondo Impero, organizzò, in deroga a un articolo della costituzione repubblicana francese, il corpo di spedizione che, dopo alcune incertezze iniziali e un mese di durissimi combattimenti, riprese la città e la riconsegnò al Papa.

 

Tuttavia quella della Repubblica Romana fu un’esperienza significativa nella storia del processo di unificazione italiana, giocata come fu su un progetto politico e sociale direttamente ispirato da Mazzini e dalle sue teorie: così rilevanti, malgrado tutto, nella definizione delle moderne dottrine europee per l’affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato.

 

In questo, divenne anche un laboratorio nel quale si sperimentarono nuove forme di diritti della persona e del cittadino, quali il suffragio universale maschile, una certa libertà di culto e un sistema giudiziario basato sull’abolizione della pena di morte – la Repubblica Romana fu il secondo stato europeo, dopo l’altrettanto effimera Repubblica Toscana di Guerrazzi e Montanelli, ad adottare un simile provvedimento. Repubblica Toscana, va detto per inciso, con la quale il Triumvirato romano cercò di stabilire un’intesa politica e militare ma senza riuscire ad arrivare ad alcun accordo, soprattutto per l’opposizione del Guerrazzi, poco incline a ogni forma di federalismo.

La Repubblica fu animata e sorretta da un buon consenso popolare: anche se non mancarono attriti tra governo e determinati settori della cittadinanza, a proposito, per esempio, delle emissioni di moneta cartacea e del corso forzoso di tali sistemi di conto al posto delle tradizionali valute in oro e argento. E anche se in realtà, malgrado l’impegno profuso da molti patrioti, non sempre andò in porto il tentativo di creare una comune coscienza repubblicana che superasse i tradizionali schieramenti di classe o quelli legati alle appartenenze culturali e sociali.

 

La Repubblica ebbe comunque, sul piano della proposta generale, politica e ideale, grandissimi meriti. Fu soprattutto aperta all’apporto e al sostegno del volontariato patriottico e rivoluzionario italiano ed europeo.

 

Oltre a quello di Giuseppe Garibaldi, accorso tra i primi a Roma con un certo numero di suoi volontari, è noto a tutti il ruolo politico e militare che ebbero nel corso della vicenda personaggi non romani come Carlo Pisacane, Felice Orsini,  Luciano Manara, Goffredo Mameli, Emilio Morosini, Enrico Cernuschi, Angelo Masina, Enrico ed Emilio Dandolo: militanti della causa repubblicana già da tempo impegnati nelle lotte per l’indipendenza e convenuti a Roma spesso alla testa di vere e proprie “brigate internazionali” da essi organizzate e guidate. Tra di essi, numerosi i caduti. Esaltante la presenza femminile nelle file repubblicane: non poche furono le donne, borghesi o popolane, che combatterono accanto ai loro mariti o compagni, come Colomba Antonietti, caduta il 13 giugno.

Di estrema importanza nell’organizzazione di servizi ospedalieri e assistenziali il ruolo esercitato da figure come di quelle di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, di Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane, della giornalista americana Margaret Fuller, di Giulia Calame, moglie del celebre attore Gustavo Modena, di Adele Baroffio, compagna di Goffredo Mameli. Favoleggiata e mitizzata, in questo contesto, sia in senso positivo (gli ideali repubblicani che redimono) da parte di scrittori garibaldini, sia in senso negativo (la corruzione dei costumi) da parte di scrittori reazionari, la presenza negli ospedali di alcune prostitute che avevano abbandonato il loro lavoro per dedicarsi all’assistenza dei feriti e degli invalidi. Anita Garibaldi, al contrario di ciò che viene generalmente creduto, raggiunse invece il suo “José” soltanto negli ultimi giorni di giugno, malgrado tutti l’avessero sconsigliata di farlo, anche perché era al quarto mese di gravidanza. La sua fu una decisione imprudente che le costò la vita, stroncata da inarrestabili attacchi febbrili il 4 agosto nelle paludi del ravennate, nel corso della disperata vicenda che vide un certo numero di combattenti garibaldini cercare di raggiungere, dopo la caduta di Roma, una Venezia ancora libera pur se prossima anch’essa a cadere.

Per Garibaldi, fu la prima grande campagna militare condotta in Italia alla testa di un esercito rivoluzionario basato in gran parte sul volontariato popolare: esperienza esaltata dalla retorica patriottica come una vera epopea e comunque costellata di numerose vittorie, in primo luogo quella ottenuta il 30 aprile lungo la via Aurelia tra Villa Pamphili e Malagrotta e che tanti entusiasmi suscitò tra i combattenti repubblicani; o quella di Velletri del 20 maggio sui contingenti napoletani inviati da re Ferdinando di Borbone. Non mancarono tuttavia le ombre. Soprattutto sul piano di alcune decisioni strategiche, prese in contrasto con il resto dell’apparato di comando militare della Repubblica e in netto spregio della dirigenza politica mazziniana.

 

Garibaldi sostenne più volte e con la sua poco meditata irruenza, nel corso degli anni a venire, che la Repubblica si sarebbe salvata se gli fosse stato affidato il potere assoluto di una Dittatura: anche se avere avuto una simile carica anni dopo, nel corso della spedizione dei Mille, non ebbe alcuna conseguenza sul piano politico.

 

Mentre poco raccontate sono di converso la feroce antipatia, mai venuta meno, e le continue provocazioni che furono rivolte negli anni successivi dal condottiero nizzardo a Pietro Roselli, di buona nobiltà romana, capo di stato maggiore dell’esercito repubblicano, preso a capro espiatorio della sconfitta militare della repubblica, che furono da quest’ultimo pazientemente sopportate o ignorate.

Per Mazzini invece fu il solo e unico momento di impegno in una pratica di governo e di reggimento della cosa pubblica: nel corso del quale peraltro dette prova di grande moderazione e di tolleranza. Facendosi promotore di significativi tentativi di pacificazione “religiosa” col clero rimasto in città e vietando esplicitamente atti di vandalismo o ruberie nei confronti delle chiese e delle proprietà ecclesiastiche. Abbozzi mazziniani di una concreta politica sociale furono anche numerosi provvedimenti repubblicani riguardanti l’abolizione di privilegi e manomorte ecclesiastiche, o di monopoli come quello del sale; e quelli riguardanti l’assegnazione di abitazioni nobiliari abbandonate a poveri e senzatetto.

Tentativi che causarono le esplicite accuse che gli vennero in più occasioni rivolte di essere propalatore di dottrine diaboliche quali il Socialismo, o peggio ancora, il Comunismo. Accuse che vennero poi poste alla base del cosiddetto Processo delle Carrozze, celebrato contro di lui in contumacia al ritorno del papa, e che ebbe tra i vari capi d’accusa il sequestro a scopo militare degli equipaggi cardinalizi e dei loro tiri equestri. Va detto che dopo la caduta della Repubblica, Mazzini ebbe la ventura di rimanere indisturbato ospite della città per almeno altri dieci giorni, in attesa di un passaporto concessogli dall’ambasciata inglese che gli permise alla fine un sicuro espatrio.

 

Della campagna militare che vide contrapposti francesi e repubblicani, va detto che lo scontro, condotto inizialmente da entrambe le parti con un certo savoir faire e con reciproci gesti di cortesia e di cavalleria militare, come cura dei feriti o ripetuti rilasci di prigionieri, divenne in breve tempo sempre più combattuto e sanguinoso.

 

Pur vantando una larga superiorità di mezzi e di uomini, il corpo di spedizione francese puntò a sconfiggere il valoroso ma raccogliticcio e male armato esercito repubblicano in una guerra di logoramento che si esaurisse sulle varie linee difensive sempre più arretrate entro le quali i repubblicani furono costretti a rifugiarsi: ciò per evitare che il conflitto si spostasse nel centro urbano, più pericoloso per un invasore perché più difendibile sia pur con mezzi estemporanei come barricate o trinceramenti improvvisati. Sull’uso massiccio da parte francese dell’artiglieria e sui bombardamenti indiscriminati verso la città non mancarono già nell’immediato polemiche e recriminazioni, alcune delle quali portate avanti al momento dai funzionari delle poche residenze diplomatiche rimaste in città.

Numerosi gli episodi di eroismo popolare riportati al riguardo, alcuni probabilmente leggendari, di bambini o di donne che si gettano sui proiettili appena atterrati per strappare micce ed evitare esplosioni devastanti: come quello che racconta del trovatello Righetto e della sua cagnetta Sgrullarella, uccisi alla fine da una bomba che il dodicenne non era riuscito, come altre volte in precedenza, a disinnescare.

Dei combattimenti veri e propri oggi si tende soprattutto a ricordare l’eroismo dei difensori repubblicani e il loro coraggio, spesso ostentato nei confronti di un nemico descritto come tanto più forte quanto più alla fine responsabile di una condotta puramente militare delle operazioni, impenetrabile agli ideali di fratellanza che avrebbero potuto legare due repubbliche similmente democratiche.

Va detto in ogni caso che la campagna condotta dal generale Oudinot, comandante dei Francesi, fu strettamente conseguente alle direttive politiche, spesso segrete, ricevute al riguardo da Luigi Napoleone, finalizzate al duplice obiettivo di cui abbiamo in precedenza fatto cenno. La condotta complessiva di Luigi Bonaparte fu esemplarmente ambigua e mistificatoria in tutte le fasi della vicenda: sin dagli inizi in cui gli ottomila soldati sbarcati a Civitavecchia furono presentati all’opinione pubblica europea come difensori dell’integrità territoriale del nuovo Stato contro possibili azioni austriache o napoletane, peraltro già in atto e con l’azione francese sia pur indirettamente concomitanti. Esemplare in questo senso fu la missione di Ferdinand De Lesseps, inviato dal parlamento francese apparentemente per trovare una soluzione onorevole alla crisi, ma usato da Oudinot e da Bonaparte per avere il tempo di portare sino a trentamila uomini il corpo di spedizione.

 

Numerosi oggi, sul Gianicolo, i ricordi delle battaglie repubblicane e della difesa a oltranza della città.

 

Dal bel museo organizzato nei locali della Porta San Pancrazio al Sacrario dei Caduti dalle sgradevoli architetture fascisteggianti, costruito nei pressi della chiesa di San Pietro in Montorio, alla sfilata dei busti garibaldini lungo i viali del parco, alle lapidi sulle mura gianicolensi che circondano Villa Sciarra, ancora segnate dalle brecce causate dall’artiglieria francese.

Memoria ancora viva a Roma di un “eroe” popolare e di un’epopea tutta repubblicana è quella di Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio: figura di capopopolo faconda e pittoresca, solidamente legata, però, a tutte le congiure e le cospirazioni antipontificie, dalla Carboneria alla Giovine Italia, e a tutte le agitazioni e i moti che si saldarono nella Repubblica, compresa probabilmente l’uccisione di Pellegrino Rossi, a cui uno dei suoi figli prese parte.

La sua fucilazione con accanto i due figli, appunto,  che lo avevano seguito nella disperata fuga verso Venezia è ancora, al di qua di ogni retorica, un’icona del “martirio”, dell’impegno e del sacrificio di tanti patrioti e combattenti rivoluzionari. Citiamo qui d’istinto Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, che ebbero nell’immediato sorte identica a quella dei Brunetti.  Meno ricordata la vicenda “nera”, anche se in qualche modo fieramente (…o ferocemente!) anticlericale e “repubblicana”, di Callimaco Zambianchi, ufficiale garibaldino che nel convento di San Calisto, in Trastevere, organizzò una squadra di giustizieri che si dedicò, per qualche tempo, alla ricerca e all’uccisione di elementi del clero sospettati, o sospettabili, di intelligenza col nemico assediante.