approfondimenti

MONDO

Dollari e no. La crisi dell’impero americano

Gli Stati Uniti, il neoliberismo, la guerra di classe che stiamo perdendo, e la presidenza Trump raccontati da Bruno Cartosio nel libro per DeriveApprodi. Un volume utile per provare a capire il presente e il passato del paese americano, ma anche in che direzione va la sua democrazia. Al di là di chi vincerà le elezioni

«Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo». Sono passati quasi quindici anni da quando nel 2006 Warren Buffett, il quarto uomo più ricco della terra, ci ricordava l’ovvio. È la fulminante premessa da cui parte Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano di Bruno Cartosio, uscito da qualche mese per DeriveApprodi. La seconda premessa è che gli Stati Uniti sono stati dal dopoguerra a oggi il teatro principale dove si è svolta questa guerra di classe, l’osservatorio privilegiato, ma che in questo lungo declino che il paese sta affrontando nuove potenze mettono in crisi, oscurano, ricalibrano la leadership globale. Cartosio riprende un’espressione di William Butler Yeats – Things fall apart; the centre cannot hold, «le cose cadono a pezzi; il centro non regge più» – per notare come «gli Stati Uniti non “reggono” più il peso della loro stessa secolare centralità» (p. 31). Il libro di Cartosio infatti non è solo un libro sugli Stati Uniti.

È un libro che guardando agli Stati Uniti infatti si chiede se e come siano ancora il paese guida a cui guardare le evoluzioni del capitalismo e se siano ancora il posto dove le contraddizioni esplodono (la risposta a entrambe le domande è sostanzialmente affermativa).

 

La profondità storica utilizzata da Cartosio restituisce al lettore non una radiografia della società statunitense ma un vero e proprio timelapse degli ultimi 40 anni di storia, società ed economia negli Stati Uniti d’America (con riferimenti anche alla nascita stessa del paese), trasformando il libro in uno strumento essenziale per cogliere gli incroci e le sovrapposizioni di fattori diversi sul medio e lungo periodo, dinamiche queste incomprensibili se analizzate attraverso semplici istantanee.

 

La covid-19 e le proteste

Da quando il libro è stato completato sono successe due cose di un certo rilievo negli Stati Uniti. Una è naturalmente l’impatto dell’epidemia Covid-19, che ha accentuato le disuguaglianze e colpito soprattutto i più deboli e marginali, come e forse più che altrove. E l’altra è l’imponente ciclo di proteste scoppiate a maggio e giugno in risposta alla brutalità della polizia. Difficilmente prevedibile la prima, più la seconda, che Cartosio identifica come fenomeni di lunga durata e lega alle elezioni, specie le ultime. Cartosio parla infatti in apertura delle «ripetute mobilitazioni, estese, composite e addirittura sorprendenti» (p. 17) che hanno spinto più persone a votare contro i Repubblicani nelle elezioni di midterm del 2018. Andrà verificato numericamente un certo ottimismo che Cartosio presenta quando dice che «la percentuale dei votanti nel 2018 rimane bassa in assoluto; ma nel numero comparativamente alto dei partecipanti al voto, giovani inclusi, si è manifestata una chiara inversione della pluridecennale tendenza al disuso» del voto (p. 68), ma già da giorni diversi osservatori notano come il voto dei giovani potrebbe essere decisivo in queste elezioni e molti giovani sono già andati a votare di persona grazie al voto anticipato. Del resto le piazza in estate si sono riempite anche di persone, specie giovani, non abituate ad attraversarle consuetamente.

 

La conseguenza Trump

Il libro di Cartosio è senz’altro una fotografia degli Stati Uniti e del suo presidente, ma li inserisce in fenomeni di lunga durata e cambiamenti strutturali, in particolare l’erosione della democrazia statunitense e i processi di accentramento del potere e delle ricchezze nelle mani di pochi. Di questo Trump è conseguenza, non causa, quasi un (naturalmente importante) epifenomeno. «Il “tronco” stesso della democrazia – nota Cartosio – su cui si è innestato il successo di Trump era fiaccato da prima della sua entrata in scena» (p. 17).

 

I capitoli dedicati direttamente a Trump sono in realtà solo due, il primo, che presenta le caratteristiche della sua persona e presidenza, e il secondo che si chiede se Trump sia fascista o meno – rispondendo, in sostanza, che la questione è capire cosa stia intorno a lui, quali forze (anche piuttosto dichiaratamente fasciste) lo hanno sostenuto e che il processo di de-democratizzazione in atto negli Stati Uniti al di là di Trump.

 

Vale la pena scindere questi due argomenti e affrontarli entrambi. Una cosa su cui Cartosio insiste molto – e di cui forse in questi anni si è parlato poco, almeno nel dibattito italiano – è che Trump, seppur vicino più all’estrema destra, alla alt-right, a un ideologo come Steve Bannon, è stato poi sostenuto obtorto collo o meno da tutta la destra, anche da quella moderata, poche eccezioni a parte (la più famosa è quella del senatore dell’Arizona John McCain).

 

Donald Trump (foto: commons.wikimedia.org)

 

Se è vero che alcuni aspetti caratteriali di Donald Trump possono essere ricondotti all’eccezionalità, la sua stessa elezione non deve essere letta come un caso sporadico o come il frutto di una congiunzione particolare e irripetibile. Lo svuotamento di valori della democrazia statunitense è il processo che ha determinato le condizioni per le quali un personaggio come Donald Trump ha potuto vincere le primarie repubblicane e poi vincere le presidenziali del 2016. Senza quel processo di svuotamento il linguaggio, i modi, le idee e il razzismo esplicito di cui Trump si è fatto portavoce non avrebbero potuto concorrere a quelle elezioni. In questo senso Cartosio ci suggerisce di guardare all’elezione di Trump come a una tappa di un processo, non come a un evento eccezionale slegato dalla storia degli Stati Uniti negli ultimi 40 anni.

 

Un paese a democrazia limitata

Gli Stati Uniti diventato sempre di più un paese a democrazia limitata. Le componenti di questo processo sono molte: forse la più importante è quella delle limitazioni al voto, di cui ha scritto Pietro Bianchi lunedì. Cartosio ci ricorda come i due candidati alle elezioni del 2016 siano stati scelti dal 9% della popolazione, il che ci dice più di qualcosa anche sul processo delle primarie preso a così ossessivo esempio anche dalla sinistra liberal italiana. Non vale senz’altro più il vecchio assunto per cui l’elevata astensione in Usa fosse dovuta alla soddisfazione degli statunitensi – probabilmente, non è mai stato così. Votano in pochi e soprattutto votano poco i poveri, i marginali, i più deboli socialmente. È lo «“svuotamento” della democrazia e sua trasformazione in plutocrazia» (p. 122). Su questo Cartosio usa parole molto chiare: «quella che ha preso forma è una deformazione oligarchica, e nei suoi esiti tendenzialmente plutocratica, della democrazia rappresentativa. Si è strutturato una sorta di circuito chiuso, in cui una minoranza della popolazione vede la macchina elettorale come strumento per la protezione dei propri interessi di casta e classe, mentre la maggioranza dei potenziali elettori percepisce quella “macchina” – e le istituzioni della politica in quanto tali – come estranea a sé, rimanendo quindi in larga parte indifferente a un processo che non la rappresenta, non la tutela o la esclude» (p. 78).

 

Comunque vadano queste elezioni, il nuovo presidente sarà l’espressione di quella minoranza, di quel circuito chiuso – Cartosio ci ricorda che per la prima volta nella storia la maggior parte dei membri del Congresso sono milionari.

 

E comunque vadano queste elezioni, una delle sfide più grandi che attende gli Stati Uniti nei prossimi anni è continuare il processo di erosione della visione elitista della democrazia statunitense cominciata negli scorsi anni, da Occupy in poi, nelle piazze con movimenti come quelli contro le armi e contro la brutalità della polizia e nei palazzi con le elezioni di candidati socialisti o comunque espressioni della sinistra del Partito Democratico.

È a questo che si lega un’altra delle componenti che fa di una democrazia nominale una democrazia reale e possibilmente matura: quelle che Cartosio, riprendendo Wallerstein, chiama le «disuguaglianze materiali e l’inadeguato livello di inclusione della cittadinanza» (p. 83). Non è un fenomeno recente, visto che la democrazia USA nasce e cresce sull’esclusione (di neri, schiavi, nativi americani, messicani, e inizialmente anche donne) e sono soltanto poco più di 50 anni da quando gli USA sono diventati una democrazia non-razziale – dopo 200 di Stato schiavista, 100 di apartheid, ricorda il giornalista Gary Younge.

 

Un capitalismo a disuguaglianza accelerata

Lo svuotamento di valori della democrazia statunitense negli ultimi decenni è andato di pari passo con il crescere della disuguaglianza nel paese. Quando Trump nel suo discorso inaugurale il 20 gennaio 2017 pronuncia la frase «the forgotten men and women of our country will be forgotten no longer», fa riferimento a quella parte di società statunitense che, in continua crescita a partire dagli anni Ottanta, ha visto i propri salari rimanere stabili o aumentare in percentuale minore rispetto al tasso d’inflazione, ha subito la desindacalizzazione e la conseguente incapacità di affrontare su un piano di forza le lotte contrattuali, ha sperimentato la perdita del lavoro a causa delle delocalizzazioni. Al di là del richiamo alla difesa degli ultimi, il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti ha attuato politiche economiche che sono andate a favorire l’accumulazione di ricchezza da parte dei più ricchi e ad aumentare le disuguaglianze esistenti nel paese. Cartosio evidenzia bene come Trump non abbia messo in atto nessuna azione per «uscire dalla logica disegualitaria e distruttiva del neoliberismo» ma anzi ha operato una riforma fiscale che ha avvantaggiato le fasce più ricche di popolazione e le corporation e in termini di politica economica la sua amministrazione è arrivata a rispolverare vecchie ricette reaganiane.

 

Più che portare alla Casa Bianca “le donne e gli uomini dimenticati” di cui si era autoaffermato rappresentante, Trump ha continuato e rafforzato una politica accomodante e di favore verso le corporation e i grandi ricchi che negli ultimi quarant’anni hanno visto il loro capitale crescere fino a concentrare, nel 2016, il 38,6% della ricchezza dell’intero paese nelle mani dell’1% degli statunitensi più ricchi il 38,6%.

 

Un dato che allargato al 10% più ricco concentra in questa piccola parte di società il 77,1% della ricchezza, lasciando al restante 90% della popolazione americana il 22,8% (p.166). Rispetto all’amministrazione Obama, l’amministrazione Trump ha smantellato la legislazione introdotta per regolare l’attività delle banche d’affari. Insieme a questa azione di deregulation ha agito sulla politica fiscale con l’abbassamento delle aliquote di tassazione sui grandi capitali.

 

Occupy (foto di
Kurt Christensen)

 

Questa traiettoria, che ha permesso un aumento smisurato della concentrazione della ricchezza e che dalla deregulation reaganiana porta all’amministrazione Trump, ha incontrato pochi ostacoli negli ultimi 40 anni, anche durante le presidenze dei democratici, portando gli Stati Uniti ad essere la società più diseguale nell’emisfero occidentale e a trasformarsi in una plutonomia utilizzando l’analisi di Citigroup per i suoi investitori più facoltosi. Un processo che è stato portato a compimento anche grazie alla narcotizzazione della conflittualità sociale ottenuta attraverso un lungo processo di desindacalizzazione e di deindustrializzazione il cui risultato, in termini di diseguaglianze, è una società polarizzata con un grado di diseguaglianza comparabile a quello registrato nell’ultimo quarto dell’Ottocento.

 

Concentrazione dei media

Dollari e no costruisce un parallelo dei percorsi della politica e dell’informazione negli Stati Uniti e al processo di formazione di una oligarchia nella politica affianca uno stesso processo di concentrazione del potere che è avvenuto nel settore dei media. Il parallelo svela anche un altro elemento comune ai due mondi, il crescente allontanamento della politica e dell’informazione dai loro rispettivi destinatari; gli elettori e i lettori. Cartosio fa però notare come questa dinamica possa essere letta anche da una prospettiva opposta, come un allontanamento volontario dei presunti destinatari suffragato da una parte dai dati sui comportamenti elettorali e dell’altra dalla perdita di influenza dei media.

Se sessant’anni fa i quattro quinti dei quotidiani statunitensi erano indipendenti, alla fine degli anni Ottanta erano diventati di proprietà di grandi gruppi economici. La situazione attuale vede cinque conglomerate controllare la gran parte del mercato dei media; fuori da questo oligopolio esistono molte altre media corporations la cui stessa esistenza viene utilizzata per smontare le accuse di oligopolio di Comcast, Disney, News Corporation, Time Warner e CBS-Viacom sul mercato dei media.

 

Da un punto di vista materiale i numeri dei media sembrerebbero confortare la tesi di un mercato dei media plurale e in salute; il numero delle stazioni radio è raddoppiato dagli anni Settanta a oggi, periodici e riviste hanno un numero di pubblicazioni molto più elevato rispetto al passato.

 

Cartosio però fa notare come questi numeri facciano facilmente percepire un incremento dell’offerta; quello che quei numeri non possono raccontare sono «i limiti dell’autonomia nella “produzione” dell’informazione e lo scadimento nella qualità della stessa produzione giornalistica» (p.137). Le speranze riposte nella rete come luogo delle possibilità per canali di informazione indipendenti e plurali sembrano in parte soffocate dal passaggio negli ultimi anni di molti siti di notizie online nelle mani delle media corporations.

 

Il paesaggio del declino

La ricostruzione di Cartosio prende in considerazione anche il declino delle città industriali colpite direttamente dalle dinamiche della deindustrializzazione. Detroit, Cleveland, Chicago, Baltimora, Flint, Dayton hanno tutte sperimentato un declino dovuto alla scomparsa delle industrie e alla completa trasformazione di parti consistenti del loro territorio urbano. Detroit è il caso più eclatante di questo fenomeno; una città che dal 1960 a oggi sono state abbattute 200.000 abitazioni e un terzo del territorio cittadino è divenuto vacant land (p.176). Insieme alle industrie anche il settore commerciale legato a quelle produzioni ha lasciato questi contesti urbani contribuendo in maniera significativa a un declino rapido ma le cui prime avvisaglie si potevano cogliere già a inizio degli anni Ottanta. Cartosio racconta la sua visita guidata a un quartiere operaio nella Detroit del 1983, l’ex operaio James Boggs che lo conduce per le strade del quartiere gli mostra «case vuote e sigillate, case appena abbandonate, spazi aperti dove le case erano state abbattute» (p. 177).

Ad abbandonare le città non è stata però soltanto l’industria ma anche il settore industriale-commerciale; il numero di buoni posti di lavoro che la nuova economia offre sono di molto inferiori a quelli che offrivano le grandi aziende; questa differenza la si può notare nel declino di città come Hartford, capitale del Connecticut, nota per essere la capitale delle assicurazioni. Negli ultimi cinquant’anni la città ha perso quasi un quarto della popolazione e dagli anni Novanta a oggi il settore assicurativo della sua area metropolitana è passato da 60.000 a 37.000 lavoratori. Numeri ed esempi quelli di Detroit e Hartford che Dollari e no utilizza in maniera efficace per spiegare come il declino delle città industriali statunitensi non si fermi alle città operaie ma coinvolga nella dimensione urbana contesti anche lontani da quelli ad altissima concentrazione della produzione industriale. L’impatto della pandemia su questa già delicatissima economia urbana andrà naturalmente verificato nei prossimi anni.

 

veduta aerea di Detroit (fonte: commons.wikimedia.org)

 

Conclusione

Bruno Cartosio ci offre con Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano uno strumento per leggere gli Stati Uniti attuali attraverso dinamiche di lungo periodo che permettono di comprendere aspetti nascosti o non facilmente individuabili degli USA contemporanei. Nella sua analisi non ci troviamo di fronte a una fotografia degli Stati Uniti trumpiani, obamiani, clintoniani o reaganiani. Il pregio più grande di questo libro è quello di leggere e interpretare questi periodi incastrandoli tra loro, evidenziandone le differenze quando ci sono ma facendo emergere le continuità che portano all’oggi. In questo senso, non importa che le protesti recenti e la pandemia non siano presenti nel libro, finito appena prima l’emergere di queste due questioni chiavi, perché il volume di Cartosio rimane utile come strumento al di là del nostro presente.