editoriale

Dentro, contro e oltre Facebook

Dall’oscuramento delle pagine pro-curde è nato un interessante dibattito intorno al social network da 2,4 miliardi di utenti e ai posizionamenti delle soggettività antagoniste. Un ragionamento collettivo in tre battute: cosa è successo; di chi è Facebook; che fare tra dentro e fuori

Guardiamo il sovrano, ma è la guerra civile

Cosa sta accadendo su Facebook? 

Quello che sappiamo: in Italia da metà ottobre è in corso un oscuramento capillare e sistematico di contenuti e pagine che hanno postato contenuti pro-curdi. L’operazione è partita da singoli (una foto di Michele Lapini) e account strettamente legati alla questione curda (Binxet – Sotto il confine; Rete Kurdistan Cosenza). Da mercoledì 16 ottobre, però, ha iniziato a estendersi verso pagine politiche di natura generalista. Prima le principali testate indipendenti legate al movimento (DinamoPress, MilanoInMovimento, GlobalProject, ControPiano, Radio Onda d’Urto, Infoaut) e poi moltissimi centri sociali (tra gli altri: Cantiere, Magazzino 47, Tpo, Làbas, La Strada, Casetta Rossa, Askatasuna). Colpito anche il collettivo studentesco Casc Lambrate e, per l’ennesima volta, Rete Kurdistan Italia. Martedì 22 ottobre è stata oscurata addirittura la pagina del Pd provincia di Lecco e il giorno seguente quella dei Giovani democratici piemontesi. 

Di queste pagine alcune sono tornate online (Binxet, MilanoInMovimento, GlobalProject, ControPiano, Pd provincia di Lecco, Giovani democratici piemontesi, Rete Kurditan). Qualcuna è riuscita a evitare l’oscuramento nonostante i ripetuti avvisi (DinamoPress e Infoaut). Le altre sono in attesa dell’esito del ricorso o risultano definitivamente cancellate. 

Come è iniziato tutto questo?

Non possiamo saperlo con certezza. Nei primi giorni abbiamo fatto due ipotesi: un’iniziativa di Facebook; segnalazioni da parte di account legati al regime turco. Il primo caso riporta alla mente la cancellazione del 9 settembre scorso di pagine legate ai partiti neofascisti di Casapound e Forza Nuova e di account di militanti di quelle organizzazioni. Ci sono però due differenze ormai palesi: Facebook non ha spiegato pubblicamente gli oscuramenti come nel caso dei neofascisti; alcune pagine sono state riattivate con tanto di scuse. In più, il fatto che siano state colpite due pagine legate al partito di governo rende ancora più difficile pensare che l’operazione sia stata avviata dalla società di Menlo Park o dal suo distaccamento italiano.

Che in passato account legati al regime turco abbiano preso di mira pagine solidali con i curdi è fatto noto. Ci sono però differenze significative. Innanzitutto, la scala dell’operazione. Si potrebbe pensare a un salto di qualità dell’impegno di media center legati a Erdoğan in occasione di un’offensiva militare che ne ha minato profondamente la credibilità internazionale. Abbiamo pensato da subito a questa possibilità. Ma allora perché tanto impegno solo in Italia? Abbiamo ricercato notizie di operazioni simili all’estero, usando diverse lingue. Abbiamo trovato solo casi isolati, niente di paragonabile a oscuramenti che hanno i due caratteri citati all’inizio: capillarità e sistematicità. L’affaire, almeno per ora, pare tutto italiano.

E quindi?

Gli elementi di cui disponiamo al momento ci fanno pensare che non sia in corso un’operazione di pulizia ordinata dal sovrano (Facebook), ma che alcuni soggetti in forma più o meno organizzata stiano utilizzando dei contenuti che sono allo stesso tempo contrari agli standard della community ma estremamente diffusi con lo scopo di cancellare pagine che probabilmente ritengono sgradite. E, chissà, magari anche per riaprire «a sinistra» il tema della censura sul social network. In ogni caso è chiaro: Facebook è un campo di battaglia.

 

Di chi è Facebook?

In seguito agli oscuramenti si è aperto un interessante dibattito intorno a questa domanda e su come dovrebbero posizionarsi i soggetti antagonisti in uno spazio strutturato da regole stabilite privatamente. Il dibattito è stato animato dai siti di movimento, dai soggetti colpiti dalle segnalazioni e dal quotidiano il manifesto. 

Insieme ad altri abbiamo affermato la necessità di riconoscere che il social network da 2,4 miliardi di utenti è ormai de facto un’infrastruttura di pubblica utilità e che come tale occorre democratizzarla, svincolandola dal libero arbitrio dell’azienda di Zuckerberg. 

Nell’inserto Social netWar pubblicato dal manifesto, Marco Liberatore del gruppo Ippolita, che su Facebook ha condotto lavori di ricerca transdisciplinari di enorme pregio, ha scritto: «Facebook è uno strumento per il governo dei viventi, non un sito di informazione. Pur comprensibili, finiscono per essere risibili le richieste di democratizzarlo o statalizzarlo».  Altri hanno sottolineato l’impossibilità di simili pretese a partire dalla natura privata del social network. 

Tutte queste posizioni ritengono in qualche modo “ingenua” la rivendicazione di democratizzarlo. All’apparenza i ragionamenti che ne seguono sembrano improntati maggiormente al “realismo”. Bisogna però stare attenti a non diventare più realisti del re. 

Quando gli operai di Pietrogrado presero il palazzo di Inverno non si posero il problema che fosse di proprietà dello Zar.  Anzi, essendo stato costruito dai proletari russi, occupandolo decisero semplicemente di dargli l’utilizzo che (potenzialmente e virtualmente) aveva sempre avuto: quello di essere uno strumento della classe e non uno strumento dei padroni. 

Gli espropri proletari da supermercati, negozi e armerie non si sono fermati di fronte all’evidenza che quelle merci avessero una titolarità privata. Stesso discorso vale per gli spazi liberati, occupati e autogestiti in edifici di proprietà privata o statale. 

«È la forma del social network commerciale a essere un problema, la sua struttura, la sua interfaccia e solo per ultimo il suo algoritmo», continua Liberatore. Verissimo. Le strutture però non possono essere intese in senso statico. Al contrario crediamo che negli interstizi delle prigioni del presente dobbiamo provare a intravedere gli spazi di possibile libertà futura. È ciò che hanno fatto gli occupanti del Forte Prenestino nel quartiere romano di Centocelle o quelli della ex prigione della Gestapo di via Klapperfeld a Francoforte: trasformare attraverso l’azione soggettiva e organizzata edifici pensati e realizzati come roccaforti militari o carceri nazisti in spazi di autonomia, libertà e creatività.

Si potrebbe dire: erano luoghi vuoti e abbandonati, Facebook non lo è. Vero. Ma non lo erano neanche le fabbriche dentro cui nel secolo scorso gli operai hanno coltivato il sogno del comunismo. Luoghi di produzione che hanno bloccato con scioperi selvaggi, occupato, sabotato, dato alle fiamme. Molti di loro mentre lottavano dentro quegli spazi costruiti e regolati dalla legge del padrone sognavano di abbandonare per sempre il lavoro salariato, di costruire una società senza classi in cui finisse il furto continuato e legalizzato del plusvalore che il loro lavoro quotidiano produceva. Nonostante ciò era dentro le fabbriche che si organizzavano. Lo stesso discorso potrebbe valere per le metropoli progettate dai bisogni del capitale. 

Si potrebbe obiettare che gli spazi di Facebook non sono stati occupati o sovvertiti, ma semplicemente abitati da soggetti antagonisti. In alcuni casi però negli ultimi dieci anni i social network sono stati utilizzati come strumenti di organizzazione e di rivolta. Oltre che uno spazio disegnato dal nemico e di sua proprietà, Facebook va anche interpretato come un’infrastruttura che svolge ormai funzioni importanti per la vita sociale. Anche la rete idrica, quella energetica o quella ferroviaria sono state costruite da privati, ma raggiunto un certo livello di utilità sociale sono state nazionalizzate, persino da Stati capitalisti.

È anche in virtù di questo aspetto funzionale che il social network andrebbe considerato un bene pubblico nonostante la sua natura giuridica. Bisogna uscire da quest’idea realisticamente capitalista che Facebook è di Zuckerberg perché l’ha inventato lui (e anche su questo ci sarebbe molto da discutere). Facebook rappresenta il prototipo dell’economia estrattiva del capitalismo digitale, perché si alimenta della nostra attività, delle nostre relazioni, dei nostri affetti, del nostro tempo. E su quello estrae plusvalore e produce forme di vita. È Zuckerberg che espropria un bene comune a milioni di utenti!

 

Dentro o fuori: che fare?

Partendo dai recenti episodi, vari interventi hanno sollecitato la riflessione intorno al tema dell’uscita da Facebook. Magari verso piattaforme autogestite e alternative. Ci pare che il problema resti che tutte le grandi piattaforme, compreso Facebook, funzionano sulla conquista della posizione di monopolio e su quello che viene chiamato l'”effetto network”, cioè il fatto che superato un certo numero di soggetti implicati le alternative diventano inefficaci. Quindi benissimo costruire piattaforme cooperative e non proprietarie, ma crediamo che questo di per sé non risolva il problema. Queste potranno essere socialmente efficaci solo dopo la rottura del monopolio.

Facebook è un grande dispositivo di privatizzazione e accumulazione dell’attenzione collettiva, che viene capitalizzata e venduta a degli inserzionisti pubblicitari. Esattamente come stanno facendo altre piattaforme negli ultimi anni (YouTube, Amazon, Netflix, Apple e prossimamente Disney). L’attenzione è un bene essenziale per un capitalismo che a partire dagli anni 2000 (ma forse già dagli anni ‘80) è in crisi profonda di profittabilità. Vogliamo davvero stare fuori da una delle più importanti contraddizioni e potenziali luoghi di conflitto del capitalismo contemporaneo?

Comunque, nel “fediverso” delle pratiche di antagonismo, delle controcondotte e delle forme di vita alternative le relazioni tra ipotesi differenti e spesso dissonanti non dovrebbero essere interpretate nella logica dell’uno o in quella del due. A questi modi di ragionare, preferiamo la molteplicità. Il punto forse sarebbe immaginare nuove forme di cooperazione e complicità tra le diverse sperimentazioni, dentro contro e oltre. 

Più che il tema del dentro o fuori, l’oscuramento delle pagine ci sembra abbia sollevato il problema di una certa dipendenza da Facebook. Allo stato attuale il nostro portale ha una media del 70% degli accessi (tra l’altro sotto la media) che provengono da quel social network. Questo dato sappiamo essere comune a tutte le principali testate e fonti di informazione online nel mondo. Quello che dobbiamo imparare da questa vicenda è l’esigenza di lavorare su degli strumenti che ci permettano di rompere quel rapporto di potere. Dipendenza significa sempre assoggettamento e mai libertà. 

Anche perché da Facebook, in virtù della sua posizione di infrastruttura monopolistica, passa il grosso dell’informazione politica. Cosa vuol dire controllare democraticamente la piattaforma? Ancora non lo sappiamo, soprattutto perché non sappiamo “chi” dovrebbe essere il soggetto di questa democratizzazione. Facebook stesso? Gli stati nazionali? Gli utenti? Di questo problema è necessario discutere. La sua complessità è enorme. A livello globale, comunque, questo dibattito è già in corso, soprattutto in vista delle prossime elezioni degli Stati Uniti. 

Per noi le questioni più importanti sono: come si limita dal basso il potere di Facebook di decidere i contenuti che vengono diffusi e il suo potere di sorveglianza e di controllo dei dati? Quali forme di contropotere, dentro la piattaforma, potrebbero sostenere tale processo?

Queste domande valgono nonostante sia chiaro che esiste una differenza ontologica tra gli amici di Facebook e i compagni di lotta. L’esperienza digitale è solo uno dei riflessi della vita intesa in senso pieno e non crea la stessa intensità di passioni, legami, mondi condivisi. È un riflesso che appiattisce i cinque sensi, traduce i sentimenti in emoticon, riduce l’amicizia a un collegamento tramite un bottone. È comunque una parte dell’esperienza nel mondo che ci troviamo a vivere. E che dovremmo smettere di leggere nella dicotomia online-offline. Quei confini sono già smarriti.

Mentre cerchiamo le risposte non smetteremo di pretendere quello che è nostro: il plusvalore prodotto dalle nostre relazioni sociali che ci viene costantemente sottratto e la costruzione collettiva della struttura che dà forma a quelle relazioni. Questa battaglia non riguarda soltanto Facebook, ma non ne è del tutto estranea.