MONDO

Dentro le urne d’Israele

Nelle priorità dell’agenda politica la crisi economica e nuove colonie.

È tempo di elezioni, non solo in Italia. E c’è la crisi, non solo in Italia.

È molto interessante osservare i risultati elettorali di uno Stato piccolo ma estremamente potente come quello di Israele, sul quale molto si discute e si dibatte con un approccio difficilmente e spesso non volutamente “oggettivo”.

Quello che è certo è che la crisi economica sposta l’elettorato e vince su quelle che invece dovrebbero essere le questioni veramente all’ordine del giorno. Ciò che risulta chiaro da queste elezioni, è che agli israeliani non interessa la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, quanto piuttosto un cambiamento interno delle loro condizioni socio-economiche.

Il Likud di Netanyahu e Liberman – rispettivamente Premier e Ministro degli Esteri uscenti –, partito di destra, capitalista e liberale, ha ottenuto soltanto 31 seggi, mentre il partito, laico e centrista, del famoso giornalista Yair Lapid ottiene 19 seggi alle sue prime elezioni. Tutti i maggiori quotidiani del mondo titolano “disfatta di Netanyahu” che sarà costretto ad aprire a una coalizione molto larga ed eterogenea. Salgono anche gli ultra nazionalisti di “Casa Ebraica” con 11 seggi, meno il resto della destra ultra-ortodossa (Giudaismo della Tora, 7 seggi). I tre partiti arabi ottengono l’11%, ma sono in contrapposizione tra loro e non c’è possibilità che possano trovare un accordo con la sinistra sionista (Meretz 6% e i Laburisti 15%).

Si potrebbe dire che l’alto tasso degli indecisi (stimato al 15% dai sondaggi pubblicati sul quotidiano Ha’arendt) si sia spostato al centro. Perché? Al centro del dibattito, tutto interno, troviamo due grandi questioni.

La leva militare obbligatoria. Israele è uno Stato altamente militarizzato e il servizio militare è obbligatorio per i giovani a partire dai 17 anni (3 anni per gli uomini, 2 per le donne, esonerate solo se incinta). Ne sono esclusi solo i cittadini arabi e gli ebrei ultra-ortodossi, i cosiddetti Haredim. Questi ultimi costituiscono oggi il 10% della popolazione, hanno tassi di natalità altissimi e godono di molti privilegi. Dal 1948, per decisione dell’allora primo ministro Ben Gurion, gli uomini dovevano dedicare la loro vita allo studio della Torah ed erano esenti dal servizio militare. Ancor oggi vivono con sussidi statali e grazie al lavoro delle loro mogli.

A luglio del 2012, Lapid si fece portavoce della manifestazione a Tel Aviv dove più di 20.000 israeliani chiedevano “Un popolo, una leva per tutti”, per mettere fine a questa discriminazione positiva.

La crisi economica. Anche in Israele la forbice tra i ricchi e i poveri è sempre più larga. Un israeliano su quattro vive al di sotto della soglia di povertà, mentre gli affitti sono sempre più alti – a meno che non si accetti di andare a popolare le colonie (circa 350 000 abitanti) situate attorno ai territori palestinesi della Striscia di Gaza e Cisgiordania. Lo Stato ha privatizzato università, scuole e ospedali. Se l’anno scorso la tanto contestata “protesta estiva delle tende” si fosse candidata, avrebbe ottenuto 20 seggi alla Knesset.

Lapid con il suo partito “C’è un futuro” tranquillizza il popolo, gli dà speranza. Si propone come un riformatore laico anche se nella sua lista ha candidato due rabini e altre personalità religiose. Con i suoi discorsi populisti rivolti alla classe media, sembra convincere la gente “normale”. E la questione palestinese? Il partito di Lapid ha una posizione piuttosto ambigua. Vuole riprendere i rapporti con l’autorità palestinese e si dichiara a favore della coesistenza tra lo Stato di Israele e quello Palestinese, ma per i territori delle colonie urbane intorno alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est non è pronto a fare concessioni.

Proprio in una parte di questo territorio, denominato Corridoio E1 e situato a Est di Gerusalemme, Israele ha annunciato a dicembre la costruzione di circa 3000 case destinate ai coloni. Ed è sempre qui che il 12 gennaio circa 300 attivisti palestinesi e internazionali hanno eretto un villaggio palestinese: Bab Al Shams, “La porta del Sole”. Lo sgombero – seicento gli agenti israeliani e sei i feriti tra gli attivisti – è arrivato veloce e puntualissimo due giorni dopo, anche se gli occupanti si erano appellati alla Corte Suprema israeliana che aveva loro concesso 6 giorni di permanenza. Inutile dire che mai è stato riservato lo stesso trattamento ai coloni ogni volta che si prendono illeggittimamente terre palestinesi. In questi casi, la rimozione avviene solo dopo anni e per lo più Israele riconosce queste occupazioni selvagge.

Per una conclusione amara, è di oggi la conferma che il nuovo governo non fermerà la costruzione delle case nel Corridoio E1, e di due giorni fa la notizia della morte di una ragazza di 21 anni e uno di 15 per le ferite causate dai proiettili di militari israeliani. Lei si era avvicinata troppo al confine di Hebron, lui aveva partecipato a una manifestazione a Betlemme.

Questo lo scenario, con un altro mandato per Bibi e una probabile coalizione di centrodestra (Likud- C’è un futuro- Casa Ebraica, che insieme arrivano già a 62 seggi), magari con l’aggiunta di una componente ultraortodossa.

Primo punto del programma annunciato dal primo ministro: l’Iran e il nucleare. Secondo: il governo conferma la costruzione delle case nel Corridoio E1. “Povera umanità infelice!” – ha scritto N. Chomsky riferendosi all’intera popolazione mondiale che ormai barcolla sull’orlo di un buco nero.

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