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“Datacrazia”: per decifrare la cultura algoritmica

“Datacrazia” libro a cura di Daniele Gambetta per D Editore tenta, sfidando il loop logico, di descrivere dall’interno la quarta rivoluzione industriale e i suoi usi politici. In particolare la questione dei dati e degli algoritmi, che vanno smitizzati e riportati sotto un controllo sociale  

Come si può parlare della struttura del linguaggio? Wittgenstein sosteneva che fosse un’impresa impossibile. Trovare le parole per definire la struttura interna alle parole stesse era, ed è, un compito aldilà delle nostre forze. Siamo immersi nel linguaggio, il linguaggio è il nostro limite, è il limite del nostro mondo: trovare un modo di comunicare a parole questa dimensione radicale può rivelarsi più complicato del previsto. Perché parliamo di Wittgenstein recensendo Datacrazia, nuovo libro edito da D Editore, curato da Daniele Gambetta? Per due motivi: il primo, incontestabile, è che Wittgenstein c’entra sempre e comunque; il secondo è che questa raccolta di saggi multidisciplinari nati dalla volontà comune di giornalisti, storici, programmatori, ingegneri e ricercatori di affrontare uno dei temi cardine di attualità a livello globale, Big Data, AI e rivoluzione digitale, consiste in un tentativo più che meritevole di porsi fuori, in un certo senso, dal limite wittgensteiniano. Chiaramente a nessuno sano di mente verrebbe in mente di equiparare il Tractatus a un libro che esce per una collana, Eschaton, curata da Raffaele Alberto Ventura. Tuttavia lo sforzo compiuto all’interno del libro sembra andare in questa direzione: parlare oggi di Big Data e Intelligenze Artificiali nonché del loro impatto a livello sociale, etico, economico e politico, si scontra con quell’impossibilità, descritta da Wittgenstein, di descrivere un fenomeno estremamente complesso dal suo interno, dovendone usare le parole e sottostandone alle regole. Come descrivere altrimenti l’impresa titanica di dar conto della quarta rivoluzione industriale, nell’esatto momento in cui la si sta vivendo?

 

LONDON, ENGLAND – DECEMBER 02: A staff member passes a projection of live data feeds from (L-R) Twitter, Instagram and Transport for London at the Big Bang Data exhibition at Somerset House on December 2, 2015 in London, England. The show highlights the data explosion that’s radically transforming our lives. It opens on December 3, 2015 and runs until February 28, 2016 at Somerset House. (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images for Somerset House)

 

 

«Quo facto, calculemus. Era il diciassettesimo secolo quando il filosofo e matematico Gottfried Leibniz, ancora giovane, sperava di poter elaborare un modello logico capace di risolvere ogni dibattito in un mero calcolo, che fornisse risposte precise e inconfutabili. Oggi, per i profeti della Silicon Valley e i loro adepti, quel mito è più vivo che mai. Ad alimentarlo sono i proprietari dei dati e delle grandi capacità di calcolo, che si autoproclamano così detentori di verità».

 

Dati e algoritmi contribuiscono significativamente in questa fase storica a plasmare le nostre identità e con esse il mondo che ci circonda; i passi da gigante fatti recentemente con l’utilizzo del Machine Learning all’interno dei processi di datamining, profilazione e breeding delle Intelligenze Artificiali, che testimoniano in questo senso, hanno riportato in auge il mito dell’esattezza, dell’oggettività e della logica a ogni costo. Tutta una nuova ritualità legata al culto del progresso si è imposta sulla scena politica, sociale ed esistenziale a livello mondiale, dando il via a un rinascimento del positivismo in chiave cyborg. La potenza di calcolo spacciata per verità, in quest’ottica, sostituisce in modo sempre crescente la capacità critica dell’umano alterandone inevitabilmente l’ecosistema in maniera insidiosa. Datacrazia sotto questo punto di vista si rivela un libro importante, con il coraggio per niente scontato di ribadire un assunto fondamentale al fine di capire la natura degli eventi in atto: non è più possibile tornare indietro. Quantomeno senza pagare prima un prezzo altissimo. Citando Najerotti, autore dei uno dei saggi più ispirati di tutto il libro, intitolato Hapax Legomenon: la guerra delle parole: «Da qui non si torna indietro: oggi produrre dati è un requisito imprescindibile per essere parte della società moderna; una società assolutamente interconnessa, in grado di abbattere i confini geografici e che si muove a velocità ben lontane dalla nostra umana comprensione».

 

Il prosumer, la figura ipotizzata da Richard Toffler nel suo The Third Wave, è l’abitatore di questo nuovo mondo interconnesso; una figura in grado di bypassare la divisione fra produttore e consumatore, vivendo agilmente all’interno del circolo vizioso creatosi fra dati e servizi. Il ritorno ad una condizione precedente di separazione tra la miriade di livelli (layerz in gergo) che compongono questo nuovo mondo, è un’utopia pienamente funzionale alla narrazione tossica che intorno a questo tema si è sviluppata parallelamente alla sua nascita. Nel mentre si sprecano tempo ed energie nel vano tentativo di riportare indietro le lancette dell’orologio, le distopie tanto care alla letteratura fantascientifica di ogni epoca  bussano sempre più insistentemente alla porta. In questo senso la capacità di porsi aldilà della sterile dicotomia fra cyberpositivisti e anarcoprimitivisti, proponendo un approccio rizomatico alla società del dato, dimostra di essere uno dei punti forti di questo libro. L’economia del dato si configura come un nuovo modo di essere nel mondo, una produzione h24 alla quale partecipiamo quotidianamente, volenti o nolenti e che vive in ogni piccolo gesto quotidiano. All’interno di questo cambio di paradigma prendono voce i vari saggi, uniti dalla comune volontà di non abbandonare il piano della narrazione ma bensì di porre sul tavolo l’urgenza della riappropriazione e della riconfigurazione nei confronti di questi modelli imposti in modo verticale e incontestabile.

Perché è importante parlare a 360° dei dati e del loro utilizzo? Perché sono loro a parlare di noi, e facendolo ci ridefiniscono, ci profilano e ci incasellano all’interno di uno schema sul quale non abbiamo nessuno strumento di controllo. Come analizza Pintarelli nel saggio Sull’etimologia del dato, la vera insidia nascosta all’interno di questo processo di datificazione imperante è il suo nascondersi dietro il velo abitudinario, innocuo, che si rifà all’etimologia classica della parola dato: «Se prendiamo per buona la frase di Wittgenstein secondo cui i limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo, allora le parole che usiamo per parlare di dati ne creano la realtà e, di conseguenza, anche il modo in cui i dati influenzano e trasformano il nostro modo di giudicare la realtà che ci circonda è legato a esse».

 

 

Quando si parla di dati si ha la tendenza ad associare il termine alle caratteristiche di neutralità impersonalità. In realtà il dato, in particolare nell’era del machine learning, è tutto tranne che neutro e impersonale ma anzi si fa portatore di una serie di errori, di distorsioni e,in ultimo, di rapporti di potere ben nascosti al suo interno. Pensando i dati in questo modo si rischia, come nota ancora Pintarelli, di cadere in un grosso equivoco originato dal ricorso abitudinario:

 

«Quelli che noi ci siamo abituati a pensare come fatti che si danno in modo spontaneo all’analisi, e che chiamiamo comunemente dati, sono in realtà una selezione di un ventaglio infinito di possibilità che operiamo sia artificialmente, per tramite di sensori di vario tipo, sia corporalmente, per tramite dei nostri sensi. E visto che l’operazione di selezionare e stabilire delle differenze tra le cose che ci circondano è l’atto stesso di fondazione di una cultura, allora anche i dati che raccogliamo e analizziamo ne portano impresso il marchio. Descritti in questo modo, come un elemento culturale, i dati perdono qualsiasi possibilità oggettiva, per diventare anch’essi il prodotto delle condizioni e del contesto in cui vengono sviluppati».

 

Il vero pericolo in questo discorso è quello derivante dalla costruzione fraudolenta e artificiosa di una cultura algoritmica che non si presenta come tale, ma si spaccia invece come incarnazione di un’infallibilità dal carattere necessario e desiderabile. Riconoscere l’esistenza di questa nuova cultura, che come fa notare giustamente Massimo Airoldi nel suo saggio L’output non calcolabile, figlia più della statistica che dell’etica, è un primo passo fondamentale per metterne in discussione le chimere e le totalitarie fantasie, fornendo allo stesso tempo uno strumento utile e aggiornato di critica e autotutela dalle logiche a volte nefaste di cui si fa portatrice. Favorire in sostanza un riequilibrio, che cosciente delle contraddizioni possa fare i conti con le enormi difficoltà che questa sfida richiede, senza però cedere il passo su temi fondamentali come ad esempio quello dell’accountability e della privacy.

In conclusione, appare evidente che l’urgenza di sgombrare il campo da narrazioni che il più delle volte si rivelano tossiche o quanto meno largamente fuorvianti, è oggi più incalzante che mai. Riguadagnare una distanza da questa prossimità invadente che la cultura algoritmica rappresenta imparando nel contempo a renderla più a misura d’uomo, più attenta alle esigenze espresse a livello comunitario e meno a quello aziendale, è forse una delle sfide principali dei nostri tempi e di cui questo libro si fa promotore. Per questo motivo questo sforzo di ricomprensione di sé e dell’altro all’interno di un ecosistema così nuovo e complesso, non può essere delegato, questo no, all’auspicata automazione. C’è bisogno dell’umano, con tutta la sua fallibilità e la sua fragilità, a guidare le redini di questo processo che può rivelarsi difficile ma allo stesso tempo entusiasmante e creatore di mondi e possibilità pressoché infinite.

«Gli anni che stiamo vivendo sono quelli in cui il rapporto fra noi e questi fantomatici algoritmi sta invertendo i propri equilibri di forza, a tal punto da farci mettere in dubbio la nostra effettiva capacità di poter ancora influenzare dei meccanismi matematici e informatici che sembrano, in tutto e per tutto, completamente padroni della nostra vita sociale, culturale e personale. Risulta difficile, se non impossibile, pensare di poter sfuggire a dinamiche imposte da alcune aziende private che le sfruttano per, al tempo stesso, sostituire il concetto tradizionale di società e trarre il massimo profitto da questo processo. La realtà, per quanto altrettanto complessa, è a mio parere un’altra: in questa rete intricatissima di produzione, comunicazione e fruizioni dei dati, noi  gli esseri umani continuiamo a rimanere il fattore fondamentale nell’equazione. Benché apparentemente succubi della datacrazia, siamo ancora l’unico modo che gli algoritmi hanno a disposizione per poter agire al di fuori delle loro regole e manifestare delle anomalie che potrebbero, pero o tardi, alterare il processo di isolazione e clusterizzazzione dei nostri gusti, pensieri e intenzioni che il fenomeno della filter bubble sta catalizzando. Se decidiamo che l’algoritmo non funziona più, resta da chiedersi come cambiarlo».