EUROPA

Da Amburgo con amore

Riflessioni, sensazioni, sentimenti sulle giornate di opposizione al G20 vissute nella città tedesca. Con i piedi nel presente e lo sguardo sul futuro.
Speciale: Le giornate di Amburgo contro il G20

Tornati da Amburgo abbiamo avuto bisogno di qualche giorno per riprendere fiato, come dopo una lunga immersione in un mare di emozioni, adrenalina, solidarietà, scontri. Partiamo da quello che ancora non è finito: mentre scriviamo ci sono molti compagni ostaggi della polizia tedesca, privati della libertà e accusati di reati gravi. Sei di loro sono italiani. Le giornate di Amburgo non saranno veramente finite fino a quando non saranno liberi tutti quanti.

Intanto, dalla Germania abbiamo notizie di un dibattito politico intenso, tra Angela Merkel che ammette l’errore di aver convocato un G20 al centro della scena antagonista tedesca e gli immancabili tentativi di criminalizzazione della resistenza che ha invaso le strade della città anseatica. I giornali e la polizia invitano i cittadini a denunciare i “soggetti pericolosi”: non scrivendo in segreto il loro nome su un frammento di terracotta, come con l’òstrakon dell’antica Atene, ma twittando una fotografia, un volto o un dettaglio. Ma è tutto da vedere quanto questa operazione di generalizzazione dell’infamia funzionerà. Il Rote Flora è di nuovo sotto attacco da parte di stampa e politici, accusato di essere il centro degli scontri e la sorgente del fiume nero. Non è la prima volta che qualcuno vorrebbe sgomberare il centro sociale. Gli ultimi tentativi sono andati molto male, con una difesa a oltranza che non solo ha preservato lo spazio, ma ha obbligato il comune a comprarlo per evitare nuovi possibili tentativi di evacuazione. Su giornali e tv è partita la caccia alle streghe contro i movimenti della sinistra radicale, in un’asta al rialzo di proposte repressive tra il folle e il ridicolo. Evidentemente questi movimenti hanno fatto davvero paura.

Del resto, è chiaro a tutti che l’arrogante provocazione di Merkel di far atterrare l’astronave aliena del G20 su una città come Amburgo è stata respinta al mittente. Con le molteplici pratiche messe in campo, una parte significativa della città ha detto in faccia ai 20 grandi e al dispositivo militare che li accompagnava che non erano graditi, difendendo Amburgo da queste forze d’invasione.

Da parte nostra, nelle strade della città abbiamo visto qualcosa di grande. Di potente. Che passa anche attraverso i violenti scontri che hanno riscaldato l’atmosfera del vertice, ma ne eccede qualsiasi rappresentazione epifànica. Alle apparizioni mariane della “rivoluzione” nel fuoco delle barricate, preferiamo la lettura dei processi politici, organizzativi, sociali che a quei fuochi hanno portato legna e scintille, facendoli brillare come una delle luci di un rifiuto di massa espresso da Amburgo. Sicuramente il più spettacolare: sulla macchina mediatica, mainstream e di movimento, hanno meno impatto gli striscioni e i cartelli contro il vertice esposti da ogni casa e in ogni negozio, gli applausi di solidarietà dalle finestre, la street parade che ha raggiunto la zona rossa con decine di carri musicali e 25 mila giovani, la massiccia partecipazione dei quartieri di St. Pauli, Altona e Schanzeviertel ai blocchi stradali e ai cortei selvaggi, così come tutta quella moltitudine di persone di ogni età che, anche quando non partecipavano direttamente agli scontri, presidiavano comunque le strade per complicare la vita alla polizia. Queste pratiche hanno avuto meno impatto mediatico, ma è solo all’interno della loro molteplicità, protetta da un lavoro politico diffuso ma quotidiano nella città anseatica, che il riot urbano ha potuto darsi e assumere un senso, pur non rimanendo privo di grosse contraddizioni, come evidenzia la difficile situazione del Rote Flora.

Sui quartieri che hanno ospitato le mobilitazioni e gli scontri è utile aggiungere qualcosa. Si tratta di territori sociali che ospitano un alto tasso di occupazioni e di spazi militanti: centri sociali, hausprojekt, associazioni, locali alternativi. Quartieri ad alta produzione di istituzioni autonome e luogo di concentramento delle forme di vita più varie del precariato giovanile e non, di sedimentazione della storia delle lotte sociali di Amburgo. Luoghi in cui la memoria degli scontri di Hafenstrasse degli anni ’80 e le più recenti sperimentazioni di solidarietà No Border (come Lampedusa in Hamburg) convivono. Spazi di produzioni artistiche culturali alternative, di cooperazione sociale organizzata: in una parola, i quartieri di quelle forme di vita che, a vario titolo, esprimono un’alterità radicale allo stato di cose presenti. Forme di vita che definiscono quella città e quei quartieri e che quei quartieri hanno difeso da un esercito di occupazione ritenuto a ragione un corpo estraneo. Nella eccezionale congiuntura politico-urbana rapresentata da un G20 nel centro di Amburgo, insomma, gli alieni non erano i ragazzi che con pietre e bottiglie attaccavano la polizia, ma quelle migliaia di robocop che, nonostante armi e tecnologie, non riuscivano a mantenere l’ordine. St. Pauli e Altona non sono corso Magenta, insomma.

Chi volesse schiacciare la narrazione di quanto avvenuto per le strade della città anseatica su di un piano strettamente “militare”, dovrebbe ricordarsi in primo luogo che qualsiasi esercito separato dalle sue retrovie e senza adeguate catene di rifornimento ed appoggio, è destinato a una ben misera fine. È tutto ciò che li circondava e sosteneva che ha permesso ai gruppi più organizzati di praticare le differenti forme di azione che si sono date. È grazie alla cooperazione tra i soggetti organizzati e la moltitudine solidale che li accompagnava che le strade si sono di fatto rese ingovernabili: al sopraggiungere di una carica che spazzava un blocco o una barricata, subito seguiva un’altra marea di corpi a riprendersi la strada. Alla polizia non restava che continuare a liberare assi viari che non poteva mantenere sotto controllo, dovendo ricominciare daccapo una volta e un’altra ancora.

Questa saldatura de facto tra i gruppi militanti e il precariato metropolitano è stata la vera chiave di volta del successo delle mobilitazioni. I gruppi politici hanno garantito, con il loro lavoro preparatorio e la loro capacità organizzativa, la possibilità per queste soggettività molteplici di essere le vere protagoniste della scena di piazza. Grazie alla definizione di una cornice ampia di sensibilità politiche e di pratiche, il coordinamento “leggero” tra i gruppi ha permesso ad ognuno di trovare il proprio posto e la propria possibilità espressiva, senza innescare la tristemente nota concorrenza tra aree politiche che segna purtroppo tante volte lo scenario di movimento italiano, non esibendone che la povertà di idee e radicamento sociale. Ad Amburgo, al contrario, le soggettività di movimento hanno cooperato pur mantenendo la loro eterogeneità, permettendo così a quanti sono scesi in strada di sopperire alla loro necessaria insufficienza. E queste ultime due parole le vorremmo tenere insieme: perché se è vero che le azioni organizzate hanno mostrato tutti i loro limiti (dalla difficoltà di tenere i blocchi stradali del venerdì mattina al fallimento del blocco nero del corteo del giovedì, spazzato via dopo pochi metri dalla partenza), hanno tuttavia rappresentato la condizione necessaria perché tutto il resto potesse prodursi.

È così che le forze di occupazione della città il controllo l’hanno perso per davvero. Per tutto il pomeriggio e buona parte della notte di venerdì, lo stato di eccezione che il potere aveva allestito gli è stato ribaltato contro. Alla sospensione dei diritti democratici, fatta di perquisizioni e arresti preventivi, di minacce e botte persino a giornalisti e parlamentari, di attacchi al corteo autorizzato di giovedì, di uso di forze speciali con il mitra spiegato e di agenti in borghese, la città ha saputo rispondere senza farsi schiacciare dal dispositivo della paura.

Persino una gestione dell’ordine pubblico di tipo militare non ha potuto contenere la moltitudine di corpi che lottando si è ripresa le strade della città, a ritmo di musica elettronica il mercoledì, con gli scontri diffusi dopo il blocco del corteo Welcome to Hell, bloccando le strade dall’alba del venerdì e poi, durante la stessa giornata, sciamando per ogni via in direzione della Filarmonica ed erigendo ovunque barricate per respingere la polizia in serata. Fino all’enorme corteo del sabato, aperto dalla comunità curda e da rappresentanti delle YPG in un simbolismo enorme, che forse in pochi hanno sottolineato: nel palazzo dove andava in scena il vertice ufficiale si trovavano Erdogan, i sauditi e i principali finanziatori dell’attuale “nemico pubblico globale numero uno”, cioè l’ISIS; fuori, con i ragazzi venuti da tutta Europa, i guerriglieri che quel nemico lo combattono davvero, con le armi e con un progetto di società alternativo al fascismo islamico e al capitalismo occidentale.

Da Amburgo torniamo a casa sempre più convinti che non sia l’asticella della violenza a determinare l’efficacia o la radicalità delle pratiche di piazza, quanto la capacità di queste e dei gruppi che le promuovono di affermarsi in sintonia con le necessità che il terreno di scontro pone loro di fronte, sapendosi rimodulare in accordo con il pulsare del cuore della moltitudine. Perché è solo da quella forza di sciame che esse traggono la loro forza. È grazie a questa sintonia emotiva e d’intenti che sarà difficile che riesca il giochino portato avanti da forze di polizia e partiti della Grosse Koalition, ossia di imputare a gruppi venuti da fuori le responsabilità degli scontri, come dimostra la caccia allo straniero andata in scena nella giornata di sabato. È evidente a tutti che le cose sono andate esattamente al contrario: ad essere percepito come un corpo estraneo dalla città era l’enorme apparato militare dispiegato, al contempo violento ed inefficace, da cui la città si è difesa con successo.

Se delle indicazioni possono essere tratte dalle giornate di Amburgo, questa ci pare determinante: il momento del rifiuto e della rivolta non può mai essere separato dalla capacità dei movimenti di costruire nuovi mondi, da rafforzare e di cui prendersi cura, da abitare nella sperimentazione di modi di vita insubordinati alle logiche di governo del capitale e dei suoi dispositivi disciplinari. È questo per noi il primo compito dei rivoluzionari oggi. Perché il nostro odio per l’arroganza del potere non può che commisurarsi al nostro amore per la vita in comune e al nostro impegno per la sua riproduzione.