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MONDO

Crisi sociale e sanitaria in Sudan: intervista a due operatrici di Emergency

La gestione dell’ospedale di Emergency in Sudan e delle attività sanitarie complementari durante le varie fasi del conflitto. Crisi della coesione sociale e difficoltà terapeutiche nelle interviste a due operatrici sul campo

Da aprile 2023 il Sudan è lacerato da una guerra civile tra l’esercito nazionale e le forze di supporto rapido (Rsf), una milizia paramilitare. Il conflitto ha dato luogo alla più «grave crisi umanitaria al mondo» secondo le Nazioni Unite, con 12 milioni di sfollati, 25 milioni di persone affette da carestia, centinaia di migliaia di feriti e decine di migliaia di morti civili. Il sistema sanitario è al collasso, gli aiuti umanitari sono insufficienti e non riescono a raggiungere tutte le aree interessate dalla crisi. L’ospedale Salam center di Emergency nella capitale Khartoum, attivo dal 2007, è rimasto in piedi per tutta la durata della guerra; solo da gennaio 2025 ha vaccinato 1133 bambini, ne ha visitati 4633 e ha accettato in pronto soccorso 2100 persone, portando a termine 41 interventi di cardiochirurgia specializzata. A raccontarlo sono Elena Giovanella, responsabile della clinica di anticoagulazione del Salam Center e Abulwahab Abdallah Hassan Suha, senior medical officer e direttrice del dipartimento.

Qual è lo status del vostro ospedale e qual è stato l’impatto della guerra sulla struttura?

Giovanella: L’intero sistema sanitario sudanese è gravemente danneggiato, il nostro ospedale per fortuna non è mai stato colpito. A causa della ristrettezza dei fondi e dell’impossibilità di ricevere aiuti umanitari per via aerea, le risorse mediche e chirurgiche sono molto inferiori ai bisogni della comunità. Le catene di approvvigionamento sono state interrotte, sia gli abitanti dell’area che le strutture sanitarie hanno dovuto comprare le scorte al mercato nero, per un costo che in pochissimi potevano permettersi. Al momento il nostro staff è composto da 120 persone, 10 internazionali e 110 nazionali, e viviamo dentro la struttura.

Riusciamo a fare al massimo 20 operazioni al mese, dobbiamo selezionare i pazienti da sottoporvi in base a chi ha più chances di sopravvivere. All’inizio della guerra, quando le Rsf controllavano la città, eravamo lontane dall’area dei combattimenti quindi a differenza di altri ospedali non abbiamo subito danni eccessivi. A partire dall’ottobre 2024, quando l’esercito ha lanciato la campagna di riconquista della capitale, ci siamo ritrovate nel mezzo del fuoco incrociato: abbiamo dovuto allestire un bunker nel seminterrato dove durante i bombardamenti portavamo anche i pazienti. Ritirandosi, poi, le milizie hanno distrutto o portato via tutti i cavi elettrici lasciando la città completamente al buio e il carburante necessario per alimentare il generatore era difficile da trovare – a un costo comunque molto alto – mettendo gravemente a rischio la tenuta dell’ospedale.

Suha: Durante tutta la campagna non entrava nulla nell’area, siamo sopravvissute grazie alle scorte di cibo secco e abbiamo organizzato camion di distribuzione dell’acqua, che riuscivamo a rimediare da un pozzo sotto la struttura, per la popolazione locale rimasta senza. Da gennaio, quando i combattimenti si sono intensificati, abbiamo dovuto interrompere totalmente la chirurgia, perché l’ospedale poteva essere un obiettivo militare e operare era troppo pericoloso. Abbiamo ripreso solo a fine aprile. In questi due anni la struttura è stata riorganizzata più volte, in base alle esigenze: abbiamo aperto un ambulatorio pediatrico che oggi si occupa di varie patologie tra cui la malnutrizione, che interessa tre milioni di bambini nel paese. Siamo ripartite anche con il programma vaccinale, ma in molti hanno saltato dosi critiche e sono esplose epidemie come il colera che ora colpisce sei regioni. Allo stato attuale è anche difficile monitorarne la diffusione, non abbiamo numeri precisi dei malati e dei morti.

È cambiata la situazione da quando l’esercito a fine marzo ha riconquistato la città?

Suha: Sì, da un lato è migliorata perché sono ripartiti gli aiuti umanitari, il cibo terapeutico per le persone affette da malnutrizione e i vaccini, dall’altro l’afflusso di pazienti è aumentato a dismisura. All’ambulatorio pediatrico riusciamo a visitare 67 bambini al giorno e negli ultimi mesi ne sono arrivati sempre di più. Sfollati provenienti da tutte le zone del conflitto sono venuti a chiedere assistenza: dal Darfur o dal Kordofan sono più di due settimane di viaggio e spesso arrivano già consumati da malattie come la tubercolosi. Una donna è arrivata dal campo profughi di Zamzam, nel Darfur, per ricevere un’operazione al cuore; quando è arrivata la sua condizione era già troppo avanzata e non abbiamo potuto procedere con l’intervento. Ci ha raccontato che al campo venivano attaccati dalle milizie ogni giorno, che stupravano, uccidevano, razziavano e arrestavano arbitrariamente.

Il vostro ospedale è l’unico gratuito in una regione che interessa 300 milioni di persone e molti Stati, avete operato pazienti provenienti da 35 Paesi diversi, cosa ha comportato lo scoppio della guerra?

Giovanella: L’impatto è stato devastante, allo scoppio del conflitto avevamo 35 pazienti dal Ciad, Uganda, Somaliland, Etiopia e altri Paesi in attesa di interventi chirurgici. Siamo riuscite a operarli tutti ma non sapevamo come farli evacuare. Grazie alla collaborazione di altre Ong e al nostro staff li abbiamo portati ai confini o in zone sicure. Due bambini li ho portati io stessa fino a Port Sudan, attraversando aree controllate dalle milizie. Milioni di persone hanno perso l’accesso a cure mediche specializzate gratuite, il nostro ospedale era un punto di riferimento per tutta la regione, soprattutto per il reparto cardiologico. L’impatto di questa guerra eccede i confini del Sudan.

Dr. Suha come sono cambiate le geografie del suo Paese, la coesione sociale e la vita quotidiana dallo scoppio del conflitto?

Suha: sento di avere due identità: quella professionale che deve rimanere concentrata e la cittadina che ha il cuore spezzato. Il Sudan è devastato. Ho perso amici, vicini e quelli che sono sopravvissuti hanno perso tutto, intere famiglie sono state separate o decimate. La mia è sfollata in Egitto, mia madre ha una malattia cronica e non la vedo da quasi due anni. Le scuole e le università sono chiuse o distrutte, i luoghi un tempo pieni di vita come le piazze, le strade, i mercati e gli spazi culturali sono sventrati o deserti. Le maglie della nostra vita quotidiana sono irrimediabilmente sfaldate, ci vorrà ben oltre la fine della guerra per ricucirle. La sfiducia e la diffidenza imperano e minano profondamente la coesione sociale, per gruppi etnici che hanno subito persecuzioni come la comunità Masalit c’è un trauma collettivo da superare. Le persone sono state colpite per la loro identità e questo lascerà delle cicatrici indelebili. Tuttavia, la società civile non è persa: ho visto famiglie accogliere vicinati interi nella loro casa rimasta in piedi, organizzare collettivamente i trasporti, condividere quel poco di cibo e acqua a disposizione.

Gli studenti credono ancora nella possibilità di costruire un Paese migliore e unito attraverso la cultura e la creatività. Il Sudan ha sempre trovato la forza di reinventarsi, ci riuscirà anche questa volta. Affinché ciò avvenga, però, è necessario che sia fatta giustizia. La comunità internazionale deve costringere i responsabili di queste atrocità a prendersi le proprie responsabilità, oltre agli aiuti umanitari abbiamo bisogno di un processo politico di ricostruzione.

Nell’immagine di copertina la vista aerea della città di Khartoum. Di Christopher Michel, da Flickr


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