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Corpo, territorio ed estrattivismo: una prospettiva femminista dall’Amazzonia

Torniamo a parlare di ambiente, resistenze nel Sud del mondo ed estrattivismo su Dinamo. In questo contributo dal portale indipendente spagnolo El Salto, il collettivo “Sguardi Critici sul territorio da prospettiva femminista” spiega le peculiarità del proprio progetto, basato sulla denuncia della devastazione ecologica provocata dall’estrattivismo in Amazzonia.

Lo Yasunì è un parco nazionale ecuadoriano situato in Amazzonia. Solo in un ettaro del suo bosco puoi incontrare più specie che in Canada e Stati Uniti assieme, fatto che lo converte in uno dei polmoni più importanti del pianeta. Nelle lotte per la difesa del Yasuní, che è stato minacciato sei anni fa dalle politiche petrolifere del governo di Rafael Correa, si sono incontrati vari attivisti che alla fine hanno formato il collettivo “Sguardi critici sul territorio da prospettiva femminista.”

Il frutto del lavoro di questo collettivo, formato da membri da vari paesi quali Ecuador, Brasile, Uruguay o Messico, è una pubblicazione “Lo Yasuní in chiave femminista: la vita nel centro e il petrolio sotto terra”.

Nello scorso mese di giugno il collettivo ha realizzato un viaggio in Europa per relazionarsi con diversi spazi femministi e collettivi autonomi per la difesa dei territori, al fine di condividere esperienze e pianificare le proprie metodologie. Durante la visita a Valencia, nella quale sono state accolte dai collettivi “Periferies” e “Entre Pobles” della comunità Valenciana, Tania Cruz e Gabriela Ruales hanno approfittato per condividere il lavoro del proprio collettivo.

 

Il mondo accademico e l’attivismo

Anche se la devastazione e l’aggressione ai territori è una costante nella storia della colonizzazione in America Latina, negli ultimi anni i progetti estrattivisti sono cresciuti in modo esponenziale in tutto il continente a causa delle politiche neoliberiste. Allo stesso modo, la resistenza contro questi progetti si è mantenuta viva ovunque, e non solo da parte di un attivismo che mette in campo il corpo (e in alcune occasioni, purtroppo, la vita) ma anche dall’accademia, cercando così di apportare sostegno intellettuale a queste lotte.

 

Tania e Gabriela parlano della propria condizione di attiviste contro l’estrattivismo e della loro relazione con il mondo accademico.

 

Tania spiega «Anche se molte tra di noi hanno relazioni con quel mondo, avevamo la necessità di formare un collettivo non accademico. Pensiamo sia necessario rompere con la percezione individualistica della conoscenza che ha luogo nell’accademia». Gabriela aggiunge che la sua scommessa è creare una conoscenza collettiva, per questo «anche l’accademia diventa un territorio di sfida. Si può riflettere da soli, ma la conoscenza ti viene grazie a chi scrive, nei contesti e nelle relazioni che si danno in diversi spazi, geografie, persone». E precisa: «pensiamo che la conoscenza sia relazionale e collettiva».

 

Per analizzare le problematiche di cui soffrono nei propri contesti e lavorare con gli strumenti adeguati alla loro lotta, non basta importare i modelli di conoscenza occidentali.

 

«Come femministe del Sud, in molte occasioni ci siamo sentite percepite come oggetti da parte dell’Occidente, ma siamo soggetti», segnala Gabriela. Rivendicano quindi l’essere soggetti creatori e, come dichiara Tania, «quale modo migliore per fare questa rivendicazione che farla proprio da un paradigma distinto da quello dell’individualismo occidentale, un paradigma collettivo?»

 

 

 

Le categorie Corpo e Territorio

In questa rottura con il paradigma occidentale, oltre a rivendicare una conoscenza collettiva in contrapposizione a quella individualistica, si scommette sul rimpiazzare la analisi tradizionale della realtà, secondo la quale un soggetto individuale e razionale si raffronta con un oggetto di studio esterno e passivo. Nella loro metodologia, le categorie di soggetto e oggetto non sono valide e se ne utilizzano altre, quelle di corpo e territorio, in modo che, come argomenta Tania, «il corpo ha una saggezza ancestrale che abbiamo messo da parte a causa dei paradigmi occidentali dominanti. Noi cerchiamo di recuperare questa saggezza, di mostrare che non è perduta, evidenziare che è sempre rimasta qui». Si deve comprendere che il corpo parla di sé, per sé e attraverso di sé, come argomenta Gabriela: «Il corpo è il primo luogo del territorio, è un nostro limite e luogo di rivendicazione; è anche un mediatore tra il personale e il collettivo, un veicolo delle relazioni che avvengono negli spazi comuni».

 

Riconoscere il corpo come principio della nostra maniera di essere e di stare al mondo, insieme a rivendicare l’importanza delle emozioni nella nostra forma di relazionarci, presuppone un punto di partenza totalmente distinto dal modello tradizionale di conoscenza razionale.

 

Come spiega Tania, «cerchiamo di mettere la soggettività allo scoperto per riconoscere il corpo come un luogo abitato che fa politica. Vogliamo svegliare il corpo per renderlo politico, perché le emozioni siano affettività, cioè possano aver luogo nella nostra vita quotidiana». Gabriela continua: «Questo lo chiamiamo fare politica del corpo, esprimere quello che sentiamo, vedere come ci relazioniamo agli altri per comprendere quello che non possiamo vivere senza gli altri. Per riconoscere questo è fondamentale mettere al primo posto le nostre soggettività».

Queste propositi portano a mettere in discussione la figura del soggetto di conoscenza individuale e riconoscere che la vita è, in se stessa, una questione relazionale. Entrambe insistono che «è necessario comprendere che, anche se ci hanno insegnato il contrario, viviamo in un mondo nel quale nessuno può esistere da solo. Siamo in relazione con gli altri e le altri, ma anche con l’aria, l’acqua, la terra, il sole e la luna».

 

La metodologia di analisi che prospettano Tania e Gabiela, viene da una educazione popolare femminista che cerca di ripensare la relazione del nostro corpo con il territorio per rompere la distanza e la sottomissione che si stabiliscono con lo schema occidentale soggetto/oggetto.

 

Le attiviste spiegano che «i nostri corpi sono costituiti dallo spazio che abitiamo, dal suo clima, la sua geografia, la sua storia, il suo nutrimento». Da qui deriva l’idea che, al tempo stesso «anche lo spazio che abitiamo è costituito dai nostri corpi e dai nostri comportamenti e da come ci relazioniamo tra di noi e con l’ambiente», come commenta Tania.

«Il territorio si legge a partire dal nostro modo di relazionarci con lo spazio, da come stiamo in esso, come ce ne prendiamo cura, lo lavoriamo, lo viviamo»,  aggiunge Gabriela, «per questo quando si violentano i luoghi che abitiamo si violentano i nostri corpi nello stesso modo in cui quando si violentano i nostri corpi vengono colpiti i luoghi in cui viviamo». Ed è così proprio che concepiscono questa altra categoria, quella di territorio. È una categoria che viene dai popoli originari in resistenza contro le devastazioni e le violenze sofferte nelle ultime decadi, «una categoria che nasce per rivendicare il proprio spazio e il proprio luogo di vita», conclude Gabriela.

Tutta questa prospettiva critica definisce una maniera di affrontare le problematiche generate dall’estrattivismo, perché, come spiega Gabriela, «è a partire dalle categorie di corpo e territorio che possiamo analizzare come stiamo vivendo gli attacchi delle politiche estrattiviste nei nostri paesi. Pensiamo che sia necessario concepire che i nostri corpi stanno incarnando, soffrendo e riproducendo le relazioni di potere che esistono nel sistema capitalista, patriarcale, coloniale, razzista e specista». A questo Tania aggiunge che «bisogna pure essere coscienti delle grandi disuguaglianze che produce il sistema;  per quest’ultimo non tutti i territori hanno lo stesso valore, né tutti i corpi valgono lo stesso all’interno dei territori».

 

 

L’ESTRATTIVISMO, UN MODELLO PATRIARCALE

Dal loro sguardo femminista, Tania e Gabriela non hanno dubbi a definire l’estrattivismo come un modello patriarcale. Le conseguenze dell’inserimento di questo modello colpiscono vari aspetti della vita nei territori, infatti come racconta Tania, «è a partire da logiche maschili che si decide quali territori vadano sfruttati e in che modo si debba operare in questi». Quello che succede, continua Gabriela, «è che quando un territorio è conquistato, deve essere controllato, questo implica una militarizzazione dello spazio che si domina, così come la imposizione di una maschilità violenta, aggressiva e armata tanto contro il territorio quanto contro i corpi che lo abitano». Tutta questa aggressione al territorio è, per loro, «intrinseca al corretto funzionamento dei progetti petroliferi».

 

Quando l’estrattivismo si impone, si rafforza la logica patriarcale che produce importanti cambiamenti nella convivenza delle persone, nei luoghi dove arriva.

 

È risaputo che, con il suo impianto in un territorio, si generano un tipo di relazioni dove al centro vi sono i soldi. «La centralità dell’aspetto economico approfondisce a sua volta la divisione sessuale del lavoro. Si produce un accerchiamento sui corpi. La presenza nel territorio di petrolieri e militari fa sì che lo spazio si mascolinizzi e che le donne siano molestate, aggredite o violentate nei loro stessi spazi, vedendosi così rinchiuse negli spazi privati e perdendo la presenza che avevano ottenuto negli spazi pubblici», spiega Gabriela.

Inoltre non bisogna dimenticare la dimensione ecologica, come ricorda Tania: «in una estrazione si violentano le stesse risorse naturali comuni come l’acqua e la terra, che mai torneranno ad essere uguali. Questa violenza verso le risorse provoca in molti casi una aggressione anche contro le donne, perché sono loro quelle che hanno in carico i lavori di cura e di gestione di queste risorse, ora violentate».

NORD-SUD

Nella condivisione con diversi collettivi europei con cui si sono incontrate durante il loro giro, Tania e Gabriela hanno tratto alcune riflessioni con le quali concludono l’intervista. Tania fa un appello «a tutte coloro che lottano per la difesa dei propri territori, a imparare a guardarci in relazione: manca un guardarsi dentro, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.

Le devastazioni in America Latina, in Africa o in ampie zone dell’Asia producono grandi violenze delle quali siamo responsabili anche noi a Sud».  Gabriela fa un appello al Nord perché «anche se qui non lo si estrae, il petrolio viene elaborato, con le raffinerie. Bisogna domandarsi qual è la relazione tra quello che succede qui e quello che accade là. La lotta deve essere diversa e in relazione. Dobbiamo guardare a noi stesse e smettere di guardare agli altri come oggetti perché la lotta sia più forte e onesta».

 

Tratto da El Salto. Traduzione di Riccardo Carraro per DINAMOpress.