MONDO

Condanna a Cristina Kirchner in Argentina in corso uno svuotamento della democrazia

La condanna a Cristina Fernández de Kirchner segna una proscrizione politica più ampia e mette in evidenza l’avanzata di un regime in cui il potere economico sostituisce la democrazia. È urgente articolare le resistenze sociali oltre l’ambito elettorale

Due settimane fa, il 10 di giugno, è arrivata la sentenza definitiva della Corte Suprema argentina, senza dibattito pubblico, per il processo denominato “Causa Vialidad”, in cui l’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner è stata condannata a sei anni di carcere (poi trasformati, il 17 giugno, in reclusione domiciliare) con l’accusa di corruzione e alla proscrizione politica a vita (vero obiettivo politico del processo). Una manovra politica del potere giudiziario (e della destra) che aveva come intento, ormai da diversi anni, di eliminare l’ex presidente dallo scenario politico argentino, a poche settimane dalle elezioni dove Cristina era candidata. In questo modo è stata colpita, con accuse non dimostrate e con centinaia di irregolarità nel processo che ha portato alla condanna, la principale figura dell’opposizione e leader del peronismo (tra le questioni, il fatto che il procuratore generale e il giudice della causa fossero molto vicini all’ex presidente di destra Mauricio Macri, come testimoniato dalle foto pubblicate dal quotidiano Pagina 12 che li ritraggono mentre giocavano a calcio assieme nella villa di quest’ultimo). Una evidente e chiara manovra di lawfare, come accaduto con Lula in Brasile, necessaria per disarticolare forme di opposizione alle politiche neoliberiste con il beneplacito del Fondo Monetario Internazionale e del governo Milei, che stanno devastando le condizioni di vita e dei diritti sociali e del lavoro in Argentina. Al di là del giudizio politico sull’operato dei diversi governi kirchneristi, peronisti e progressisti in Argentina, questa condanna è un precedente gravissimo, che segna una nuova tappa della persecuzione politica e della crisi della democrazia in Argentina. Nelle scorse settimane in America Latina vi sono state importanti manifestazioni di solidarietà da parte di presidenti, partiti e movimenti politici a Cristina, e in Argentina, in più di una occasione, migliaia di persone sono scese in piazza, bloccando strade ed autostrade e marciando fino alla Plaza de Mayo, per chiedere la libertà di Cristina e l’annullamento della proscrizione politica [ndr].

La sentenza contro Cristina Fernández de Kirchner segna una proscrizione che, attraverso Cristina, è anche la proscrizione stessa della possibilità di opposizione politica all’interno del sistema istituzionale. In questo senso rappresenta un nuovo punto di svolta nella forma di governabilità strutturata dall’estrema destra al potere. Dobbiamo leggere in questa sentenza, di fatto, una modalità di annullamento della forma democratica elettorale, che esprime una profonda disinibizione del potere economico concentrato, al punto da decidere di fare a meno del regime politico liberale. L’ordine politico non si distingue più dal blocco di potere: coincide con l’assetto di un sistema d’affari monopolizzato da pochi settori della rendita (finanziaria, estrattiva e immobiliare) che non ha più bisogno di spazi di negoziazione.

Ci sono prove più che sufficienti dell’influenza della Camera di Commercio degli Stati uniti, del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e della calorosa accoglienza — come si suol dire — da parte dei mercati alla sentenza. Quella che in un testo collettivo abbiamo definito la “geopolitica del testo della condanna” è proprio questa, e si completa con la celebrazione di Milei da Israele, nel bel mezzo del genocidio contro il popolo palestinese.

Sappiamo che la democrazia, nel contesto del capitalismo, sopravvive sempre grazie al mantenimento di settori della popolazione in condizioni non democratiche. Ma la democrazia, riaperta di volta in volta come terreno di conflitti molteplici, rappresenta lo sforzo di contrastare e rendere illegittime e intollerabili quelle situazioni. Con le destre estreme al governo, però, questo non è più così: sono proprio loro a radicalizzare l’indistinzione tra economia e politica e, di conseguenza, a fare a meno delle condizioni democratiche del conflitto.

Proprio per questo, questa congiuntura non può avere una pura risoluzione elettorale, cioè non si può passare immediatamente a discutere di riorganizzazione delle correnti interne o delle liste, normalizzando o sorvolando sul significato profondo della proscrizione contro Cristina Fernández de Kirchner. Persino la strategia, di cui si vocifera, del voto bianco o dell’astensione — richiamandosi a tattiche storiche — rischia, in assenza di un’organizzazione dell’opposizione che prenda sul serio la drammaticità di quanto sta accadendo, di essere anch’essa assorbita in un tatticismo elettorale frammentato e dispersivo.

I segnali di questo svuotamento democratico ci sono — e da tempo, naturalmente. Alcuni esempi: i risultati elettorali modesti dei partiti di governo che, ciononostante, non ne intaccano né il potere né l’iniziativa politica; oppure l’astensionismo crescente, che non suscita interrogativi profondi sulle ragioni del disaffezione generalizzata verso il voto. È necessario — e non solo come richiamo formale — iscrivere questa sentenza nella sequenza che ha incluso il tentato omicidio ai danni di Cristina Fernández de Kirchner di tre anni fa. Non solo per il nesso, sottolineato dai titoli dei media, tra il proiettile e la condanna. Ma come allerta rispetto a come quella situazione sia stata banalizzata all’interno del sistema politico e di fatto svalutata. Lo dimostra lo stato in cui versa oggi l’indagine.

Che altro può accadere? Tutto dipende da ciò che succederà nelle strade, nei blocchi stradali, negli appelli allo sciopero, in ogni azione capace di interrompere la normalizzazione di questo fatto, di contrastare l’assorbimento di questo nuovo punto di svolta nella velocità della congiuntura e nella crisi economica che governa imponendo l’emergenza quotidiana.

Il compito di costruire una confluenza tra i settori in conflitto — che sappiamo non essere soltanto quelli organizzati: sono anche famiglie, pazienti, vite disgregate dalla precarietà, esistenze a rischio per il livello di violenza classista, machista e razzista che si vive quotidianamente — trova nella strada un luogo insostituibile. La lotta delle persone pensionate, la convocazione trasversale del 4 giugno — in occasione dei 10 anni di Ni Una Menos — da parte dei transfemminismi insieme a lavoratorə della sanità, dell’istruzione, dei diritti umani, del movimento per l’emergenza nella disabilità, delle tifoserie antifasciste, è stato un esercizio fondamentale, che in un certo senso si è ripetuto anche mercoledì scorso. Ma non è affatto chiaro in che modo quella composizione, quell’articolazione e quell’incontro possano assumere forme efficaci di deliberazione, decisione e accumulo di forza. La domanda è: come costruire quell’intreccio?

Questa è un’interrogazione decisiva, soprattutto di fronte all’assenza di altre istanze (un tempo rappresentative) che si assumano questo compito. Il sistema politico, da parte sua, imbocca una scorciatoia: ridurre la piazza a una mera strategia elettorale, scartandone la capacità di portare fino in fondo le domande su come si siano consolidate le condizioni che rendono possibile un simile livello di crudeltà, di angoscia e di odio di fronte all’impoverimento accelerato.

La stessa Cristina, negli ultimi discorsi, ha cominciato a dire che così non si potesse andare avanti, che questo modello non avrebbe retto (il calcolo, fino a poco tempo fa, era di arrivare al 2027, ma sembra che ormai nemmeno quello sia sostenibile). In altre parole, il ragionamento è che la tenuta fondata su un indebitamento fuori controllo, su cui il Governo ha puntato tutto, è insostenibile. Non sappiamo se questo modo di garantire redditività ai settori concentrati — che con ogni probabilità fornirà anche risorse alla stessa macchina elettorale che sostiene La Libertad Avanza, come ha già chiarito il FMI — non sia già, in sé, una forma di durata: una permanenza costruita su una velocità che rinuncia a qualsiasi calcolo del rischio.

Ancor meno si sa valutare quanto incida, su questa resistenza, lo sforzo quotidiano di sopravvivenza che sostengono milioni di persone di fronte all’inflazione, alla perdita di reddito, agli aumenti incontrollati dei prezzi e alla caduta in condizioni disperate. È proprio questa energia che chiaramente non viene presa in considerazione quando, da certi analisi politiche colpevolizzanti, si afferma che dovrebbe esserci più gente in strada, più protesta, più indignazione. Il dilemma del “resistere” è, quantomeno, bifronte.

È evidente quale strategia sostenga non solo il Governo, ma un intero regime politico che sembra aver abbandonato, più che mai, ogni pretesa di legittimità. Resta da vedere come questo cambiamento nelle coordinate politiche si innesti in una società simultaneamente esausta e in movimento in molteplici forme.

Articolo pubblicato su eldiarioar.com. Traduzione in italiano di Alessia Arecco per DINAMOpress. L’immagine di copertina è di Juan Valeiro da lavaca.org, che ringraziamo per la gentile concessione.

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