cult

CULT

“Combat Art.”: a due passi da San Pietro

Cosa è stata l’arte nel decennio tra il ’68 e il ’78? La mostra “Combat Art: Roma 1968-1978”, aperta dal 16 aprile al 15 giugno e ospitata nella Galleria Mascherino, esibisce l’intreccio tra politica ed arte, riproponendo le opere dei principali fotografi, artisti e letterati di quegli anni

A qualche centinaio di metri dal colonnato della Basilica di San Pietro, in piena atmosfera religiosa, alcune contraddizioni risaltano agli occhi dei visitatori, anche dei meno attenti. Tra negozi di suppellettili e abiti clericali l’antico Rione Borgo si connota di modernità. Ristoranti e caffè storici trasformati in moderni locali turistici tirati a lucido ricordano che la santa regola del consumo si è radicata in ogni angolo della città. In questo scenario una nota stride con il contesto: al numero 24 di via del Mascherino riapre i battenti al pubblico, dopo dieci anni di sospensione dell’attività, la storica Galleria Mascherino.

Il gallerista Stefano dello Schiavo decide di rilanciarsi nello scenario artistico cittadino con una mostra dalla spiccata connotazione politica, evidente già nel titolo: Combat Art: Roma 1968-1978.

La scelta di concentrarsi su Roma non è di poco conto. L’analisi del rapporto tra arte-politica-città permette di comprendere al meglio quali processi investirono, trasformando e velocizzando ogni forma di vita, il panorama artistico e cittadino dell’epoca. Il clima culturale che si respirava a Roma in quegli anni era decisamente molto vivace. Gallerie di punta, critici e storici dell’arte, artisti nativi e artisti d’adozione animavano la città. Ci si interrogava continuamente su quale dovesse essere il ruolo dell’arte e dell’artista e quali i punti di incontro dell’arte con la politica – era impossibile allora immaginare che l’arte si potesse disinteressare a ciò che accadeva ai suoi spettatori nella quotidianità.

Volendo ricostruire il minimo comun denominatore della mostra emerge con forza l’intento della Galleria di ripensare le geografie dell’arte e i suoi confini storicizzati con un approccio pienamente interdisciplinare. Porre l’attenzione su forme espressive storicamente escluse dal mondo dell’Arte significa rientrare in una prospettiva d’analisi in buona parte debitrice al pensiero warburghiano, sia rispetto all’impostazione metodologica sia rispetto all’obiettivo finale che tale metodo perseguiva: quello cioè comprendere al meglio la cultura e le idee di un popolo in un determinato contesto storico-culturale.

 

Tano D’Amico, Il giorno che uccisero Giorgiana Masi

 

Proprio questo avevano fatto gli artisti tirati in causa in questa mostra. Ognuno di loro, nel corso della propria carriera ha sperimentato forme espressive volte a rompere i legami con la tradizione: Tano D’Amico con la fotografia, Pablo Echaurren con le fanzine e i fumetti, Franco Angeli con gli stencil combinati alla fotografia, Agnese de Donato con il suo storico e bellissimo Manifesto per i Movimenti di liberazione della donna, e ancora Mario Schifano, Nanni Balestrini, Tomaso Binga/Bianca Pucciarelli Menna e Giovanni Tubi.

La mostra si presenta però con una sorpresa inaspettata: l’esposizione a parete del libro Lettera a una professoressadi don Lorenzo Milani con al fianco una piccola rassegna di vinili degli Alleluja e dei Ragazzi di Francesco, gruppi beat degli anni ‘60-’70, che si dedicavano alla composizione di musica associando testi cristiano-religiosi con uno stile musicale allora molto in voga. 

Sulla parete opposta della sala, sono esposte alcune piccole opere disegnate, tra cui la famosa copertina di Porci con le Ali, di uno degli artisti più eccentrici del periodo: Pablo Echaurren. Militante di estrema sinistra, Echaurren ha sempre praticato la sua arte libero da ogni schema gerarchico, manifestando una sana insofferenza verso gli steccati che comprimevano la creatività. La sua attività artistica ha mantenuto un intenso rapporto con i movimenti e il sociale: ha lavorato per il giornale “Lotta Continua” e ha contemporaneamente dato vita a “Oask?!”, il foglio degli Indiani metropolitani, e ad altre fanzine legate all’ala creativa del movimento.

Al suo fianco le fotografie di Tano d’Amico. Romano d’adozione, D’Amico ci regala alcune tra le immagini più belle, amate e ricordate della storia dei movimenti di lotta. Una storia che appartiene a tutti noi. La narrazione degli ultimi, la voce degli organizzati, dei disperati e dei disperati organizzati. Il valore delle sue fotografie è inestimabile. Non si può monetizzare! Riguarda la passione, il subbuglio dello stomaco quando si incrociano gli occhi delle donne in lotta, riguarda la rabbia quando ad essere presentato è uno scenario di repressione, riguarda l’emozione della solidarietà quando i protagonisti della storia narrata nella fotografia ti assomigliano. In più occasioni, Tano D’Amico è stato in grado di ritrarre l’inquietudine e l’insoddisfazione del periodo a dimostrazione di come l’immagine grafica, disegnata, dipinta, più che la parola scritta, si era caricata del ruolo di veicolo ed emanazione dei sentimenti dei movimenti.

 

Sergio Lombardo, Mao Tze Tung

 

Rimbalzando ancora da una parete all’altra, vengono presentate due gigantografie realizzate da Sergio Lombardo, psicologo e artista romano che ha dedicato buona parte della sua produzione artistica a ritrarre personaggi politici di fama internazionale. Con una ricerca sperimentale atipica Lombardo ricorda all’osservatore che il rapporto tra arte e politica poteva essere vissuto dagli artisti anche in un’ottica del tutto personale. In un’astinenza espressiva dichiarata, l’artista si concentrava sulle zone interne dei volti, indagando le movenze e le caratteristiche tipiche degli uomini politici, rendendoli chiaramente riconoscibili. La procedura d’esecuzione però resta rigorosamente automatica. Mal interpretato dalla critica dell’epoca, che osannava i suoi Uomini Politici Colorati per «la carica espressiva e la passione pittorica che i suoi quadri sprigionavano», Lombardo decise di ritirare le sue opere e nasconderle per circa un trentennio. Ritrovare il ritratto di Kennedy e il faccione di Mao Tze Tung in questa mostra non era per nulla scontato!

 

Nanni Balestrini, Potere Operaio

La medesima astinenza espressiva di Lombardo si ritrova nella ricerca verbo-visiva di Nanni Balestrini. I suoi romanzi, ricostruzione del tessuto biopolitico dell’epoca, si caricano di una valenza immaginifica risultante dal cambiamento che la nuova condizione storica ha determinato sul sistema linguistico. In Potere Operaio, si palesa la sua insofferenza nei confronti degli schemi linguistici vigenti. L’artista invita l’osservatore a uscire dalla passività della fruizione per sollecitare un’attivazione consapevole dell’opera. L’organizzazione visiva della poesia punta a salvare la comunicazione da una tradizione soffocante basata su schemi e convenzioni ormai logori e mortiferi. Anch’egli, come Tano D’Amico, ha reso omaggio nei suoi scritti agli ultimi, agli Invisibilinelle strade, nelle carceri, nelle lotte.

All’appello in questa rassegna artistica non poteva mancare Franco Angeli, di famiglia romana e antifascista. Inizialmente militante nel Partito Comunista, si avvicinerà poi alla sinistra extra-parlamentare. Le sue opere ci dimostrano l’importanza della valenza metaforica nell’estetica militante. Dagli Half Dollar, demistificazione dell’imperialismo nord americano, alle rappresentazioni dei cortei di operai e studenti realizzate a ridosso del ’68, Franco Angeli ha sperimentato costantemente la commistione di elementi diversi quali la fotografia, le arti visive, gli stencil, aggiungendo alla sua tipica rappresentazione in bianco e nero un’esplicita nota di colore rosso dal forte valore metaforico.

 

Franco Angeli, Half Dollar

 

Un contributo importante alla mostra viene dato dalla presenza delle opere di Bianca Pucciarelli, in arte Tomaso Binga. L’artista, attraverso la sua trasformazione identitaria, ha posto l’accento sulle pesanti connotazioni maschiliste del mondo dell’arte: «Il mio nome maschile gioca sull’ironia e lo spiazzamento: vuole mettere allo scoperto il privilegio maschile che impera anche nel campo dell’arte. È una contestazione, per via di paradosso, di una sovrastruttura che abbiamo ereditato e che come donne vogliamo distruggere». Con le sue Scritture Desemantizzate l’indagine di Binga e quella di Balestrini trovano dei punti in comune. La regressione della parola a segno conserva e comunica, anzi intensifica, il senso della comunicazione. Binga invita alla riflessione sulla necessità di rifondazione del linguaggio inteso come strumento del potere, della storia dei vincitori, della legge, della religione, che ha contribuito all’emarginazione dei vinti.

Il Manifesto del Movimento di liberazione della donna cattura l’attenzione del visitatore per bellezza e per valore simbolico. L’immagine, ideata e realizzata da Agnese de Donato, femminista fotografa giornalista militante tra le fondatrici di Effe, non poteva essere esclusa dalla mostra in quanto simbolo dell’immaginario delle lotte femministe che dagli anni ’70 giunge fino a noi.

 

Agnese De Donato, Manifesto

Inoltre, vanno ricordate alcune foto in mostra che ritraggono Mario Schifano in compagnia di Franco Angeli e una collezione inestimabile di vinili 33 giri in cui perdersi tra lo stupore e la ricerca dell’introvabile, oltre a una rassegna di alcuni tra i giornali più importanti che i movimenti di lotta hanno prodotto tra gli anni ’60 e ’70.

La mostra sembra dunque voler raccontare un decennio significativo ricostruendo le maglie di un’arte profondamente schierata, dando valore alle intenzioni di alcuni tra i maggiori protagonisti dell’epoca: mettere in risalto la dimensione collettiva di cui l’arte si nutriva rompendo le categorie stagne della creatività! Riappropriarsi della creatività passava anche per l’appropriazione di strumenti espressivi non propriamente appartenenti al mondo dell’Arte. La contaminazione fra espressioni estetiche differenti divenne così una prassi sovversiva volta a ribaltare il sistema intoccabile e gerarchico dell’arte: le fanzine e il ciclostile, i fumetti e i manifesti cinematografici, le fotografie, la musica, politicizzarono il modo di pensare l’Arte facendo saltarele convinzioni storicizzate di presunta purezza del medium artistico e di autonomia dell’esperienza estetica.

 

In copertina Franco Angeli, Souvenir