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MONDO

Colonizzazione di corpi e generi. Pinkwashing e lotte queer tra Israele e Palestina

In Israele e Palestina identità di genere e orientamento sessuale sono intrecciati profondamente con il conflitto, tanto da venire strumentalizzati e abusati, mentre l’esistenza delle persone queer è sempre più visibile ma altrettanto problematica. Nella settimana del Pride, un articolo uscito su Transizioni, numero 4 della rivista Dinamoprint

La questione israelo-palestinese negli ultimi anni si è intrecciata in modo assai complesso con la tematica lgbtqi+. Alcuni nodi della discussione sono noti, altri meno e, in generale, come spesso accade in quel pezzo di terra, vi è una stratificazione di storia e processi politici che necessita un’analisi profonda per evitare banalizzazioni.

Pinkwashing and Israel

Cominciamo da un elemento abbastanza conosciuto. Lo stato israeliano, a partire già dagli anni ’90, ha intenzionalmente promosso una immagine di sé quale paese paradiso per i diritti lgbtqi+ circondato da nazioni dove l’omosessualità è invece severamente proibita. Mettendo per ora da parte la profonda parzialità di questa narrazione, è evidente quanto essa sia riuscita nell’intento, fino a colpire l’immaginario mainstream. È una narrazione che pertanto permette di accentuare un carattere suppostamente democratico, civile e progressista, europeizzante di Tel Aviv.

Tale dispositivo è utile a edulcorare l’immagine esterna dello stato e a oscurare gli elementi autoritari militarizzati e antidemocratici che invece sono manifesti nella gestione di terre occupate dal 1967 e nella violenza politica strutturale esercitata contro la minoranza palestinese che vive in Israele.

Questo dispositivo è stato utilizzato in modo intensivo a partire dagli anni 2000, fortemente aiutato da campagne pubblicitarie mirate in modo specifico alle comunità lgbtqi+. Il 23 novembre 2011, la docente dell’Università di New York nonché romanziera e attivista queer e contro l’occupazione, Sarah Schulman, titolava un potente articolo sul “New York Times” Israel and Pinkwashing descrivendo il fenomeno in tutte le sue sfaccettature. In questo modo si risignificava il termine pinkwashing rispetto al Medioriente, mentre precedentemente era stato utilizzato per campagne pubblicitarie per la prevenzione del cancro al seno ritenute ipocrite o strumentali. Un anno dopo l’articolo di Schulman, nel 2012, Tel Aviv viene dichiarata la migliore destinazione di viaggio al mondo per la popolazione gay.

Il pinkwashing è una sorta di a priori rispetto a qualunque ragionamento in merito alla questione.

A un occhio critico la menzogna che si nasconde dietro a questa narrazione emerge in modo netto. Anzitutto i diritti per la popolazione lgbtqi+ sono garantiti a Tel Aviv, Haifa, e in pochi altri luoghi della costa. Molto più complesso e discriminatorio è vivere in città conservatrici come Gerusalemme o Be’er Sheva, in cui il peso delle componenti religiose è onnipresente. In secondo luogo, l’apertura nei confronti dei diritti civili negli aspetti ricreativi e commerciali – a Tel Aviv i locali e le spiagge gay sono innumerevoli – non vuol dire piena equità né laicità. Ricordiamo che Israele è uno stato nel quale le autorità religiose mantengono un forte controllo a livello di giurisprudenza e legislazione, ad esempio nella gestione delle festività, del cibo, dei matrimoni.

Attiviste e attivisti di Berlin Against Pinkwashing (BAP) davanti all’ambasciata israeliana il 28 luglio 2018. Foto credit Activestills

Richiedenti asilo e spie?

Il carattere ipocrita del discorso dello stato israeliano sui diritti lgbtqi+ si rivela pienamente con il trattamento riservato a soggettività palestinesi queer che per fuggire a violenza o minacce vissute in West Bank o Gaza decidono di chiedere asilo in Israele. Queste persone ricevono un permesso di soggiorno molto fragile, con necessità periodiche di rinnovo, ma non hanno accesso a lavoro, né a forme di accoglienza, né a un reddito di inserimento. Se possono godere di qualche agevolazione è grazie ad associazioni di volontariato, ma al contempo sono spesso vittime di razzismo (come tutta la popolazione palestinese che vive in Israele) e a volte costrette alla prostituzione come strumento di sopravvivenza.

Ci sono sostanzialmente due categorie di palestinesi richiedenti asilo in Israele, in fuga perché la loro vita è in pericolo in West Bank e Gaza: i collaboratori dello stato israeliano e la popolazione lgbtqi+.

Non stupirà sapere che il trattamento ricevuto, una volta in Israele, è molto più favorevole ai primi che ai secondi, soprattutto riguardo alla ricerca lavorativa. L’abbinamento con gli informatori dello Shin Bet è però un ulteriore fragilità per le persone queer, perché nell’immaginario collettivo sia palestinese che israeliano le due motivazioni per l’asilo si sovrappongono e questo provoca ancora più isolamento e pericolo anche una volta rifugiati in Israele.

Si stimano oggi circa 60 persone richiedenti asilo palestinesi queer, molte in attesa di poter essere redirette in un altro paese. Le testimonianze raccolte dal webmagazine 972mag in una approfondita inchiesta del settembre 2021 sono estremamente dure. Colpisce la marginalizzazione a cui sono sottoposte le persone intervistate e il profondo disagio vissuto. Il paese arcobaleno dei flyer per la popolazione lgbtqi+ mondiale diventa violento quando chi chiede diritti per il proprio orientamento sessuale è palestinese, quando è dunque una possibile minaccia alla supremazia ebraica nello stato.

Sostanzialmente la popolazione palestinese queer, sia essa nata in West Bank, sia invece nata con passaporto israeliano, vive una doppia e costante marginalizzazione.

Nel contesto palestinese, soprattutto negli ambiti più conservatori e patriarcali, dominano pregiudizio e discriminazione a causa dell’orientamento o dell’identità di genere, oltre che la paura di essere considerati uno strumento di pinkwashing, di normalizzazione del conflitto, una sorta di nemico interno.

Nel contesto israeliano, questa popolazione vive la violenza razzista che è riservata a chi è palestinese, nonché la paura di essere percepiti come una minaccia, di non essere accolti. Neppure la comunità lgbtqi+ israeliana mainstream è pienamente solidale, perché in essa vivono forme di omonazionalismo molto accentuate e soprattutto perché è immersa nel discorso sionista, fondato sulla stratificazione della società in base alle origini etniche. Pertanto, non potrà mai essere pienamente solidale su basi di equità, come ci si aspetterebbe in virtù della condivisione della bandiera arcobaleno. Vi sono ovviamente le eccezioni, quali i contesti queer antisionisti israeliani, ma sono esperienze purtroppo minori e limitate.

Attiviste e attivisti israeliani protestano contro il pinkwashing, in solidarietà con le manifestazioni a Gaza, durante il Pride di Tel Aviv, giugno 2018. Foto Credit Activestills

Un regime coloniale di oppressione

Nel 2014 un caso arrivò fino alle pagine del “New York Times” e di “The Guardian”. L’Unità 8200 dei riservisti dell’esercito israeliano scrisse una lettera pubblica dichiarandosi non disponibile a tornare in servizio per via delle pratiche costanti di ricatto nei confronti della popolazione palestinese al fine di ottenere informazioni e, nello specifico, di ricatto nei confronti della popolazione queer palestinese residente in West Bank e Gaza, sulla base dell’orientamento sessuale. La questione destò molto clamore in Israele.

Vale la pena però leggere quanto scritto in merito da Al Qaws, una delle due associazioni palestinesi per i diritti lgbtqi+, perché permette di comprendere la condizione di perenne frontiera vissuta dalle persone queer. «Considerare come questione a parte la sessualità è un modo per ignorare lo strangolamento che il regime militare e coloniale israeliano esercita nei confronti delle nostre vite e sulla nostra privacy […]», scrive l’organizzazione, spiegando che il focus solo sulla sessualità rischia di rafforzare il pinkwashing e di trascurare la prospettiva più ampia, perché non va oltre la narrazione mainstream di Israele tollerante vs. Palestina omofoba, quasi a dire: “Israele, comportati bene! Puoi fare meglio di così”.

«Sorvegliare la sessualità nella sua totalità in Palestina è qualcosa di socialmente, politicamente e psicologicamente grave, ma va considerato come il sintomo di un problema ben più grande, cioè il regime coloniale che è un dispositivo di oppressione sulle vite e sui corpi dei palestinesi e dei palestinesi queer […] La sorveglianza è centrale o persino costitutiva dello stato militare di Israele. Scandalizzarsi verso Israele per questo è qualcosa che ricolonizza i nostri corpi e li fa apparire come ammiratori di Israele in quanto salvatore, colonizzatore che può offrire qualcosa di importante e necessario che i colonizzati non sono in grado di provvedere autonomamente. È un crinale molto pericoloso […] anche quando nelle intenzioni si vuole criticare l’ipocrisia di Israele nel suo sfruttamento delle persone queer. Questo è un’ulteriore illustrazione del fatto che il pinkwashing alla fine è un prodotto del sionismo ed è finalizzato a sostenerlo e rafforzarlo, non ha nulla a che vedere con la libertà per le persone queer».

Al Qaws e Aswat sono le due principali organizzazioni per la tutela delle persone queer in Palestina, la prima con base anche in Israele, la seconda, di carattere femminista, unicamente in West Bank. Non hanno una vita facile. Senza dubbio la loro esistenza è un segnale importante che in altri contesti mediorientali non sarebbe possibile, ma è pure un’esistenza sempre precaria, minacciata da ritorsioni interne.

Nell’agosto 2019 l’Autorità Palestinese proibì ogni attività pubblica di Al Qaws dopo che questa organizzò un presidio solidale a Nablus, a seguito dell’accoltellamento in strada di un ragazzo queer. In generale, lo spazio di agibilità per loro è sempre angusto ma pure praticato con determinazione e capacità critica. Ancora più difficile è per loro operare nella prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.

Anche in Israele definirsi insieme associazione queer e contro l’occupazione è un atto di coraggio. Il 5 settembre 2021 Al Qaws è riuscita a organizzare per il terzo anno di fila un “Rallying Cry for Queer Liberation” ad Haifa, in cui sono state sventolate bandiere palestinesi, antifasciste e arcobaleno assieme. Nel comunicato di invito l’organizzazione ha ricordato un anno particolarmente duro vissuto dalla popolazione palestinese e queer: «Abbiamo affrontato le politiche coloniali di pinkwashing di Israele, finalizzate ad alienarci dalla nostra società e a usare l’esperienza queer per occultare i suoi crimini orrendi. […] Abbiamo affrontato la violenza patriarcale e le dinamiche di potere in virtù del genere, tra cui il discorso politico che priorizza l’unità contro il colonizzatore e non lascia spazio per un discorso queer e femminista, mentre glorifica una immagine di resistenza iper-mascolina e infine abbiamo subito l’esclusione di alcuni di noi dagli spazi di organizzazione politica».

Festa Queer al Rogatka, Tel Aviv. Foto Credit Activestills

Temi lgbtqi+ e politica nello stato di Israele

Nel corso del 2021 alcune vicissitudini hanno per molti versi messo al centro la questione queer, fino a renderla una cartina tornasole per la politica palestinese in Israele. Significativo, infatti, è quanto accaduto alla Joint List – una lista unitaria di partiti palestinesi presente alla Knesset – che si è divisa all’inizio dell’anno. Tra le varie ragioni della spaccatura, proprio le posizioni da tenere rispetto ai diritti lgbtqi+ che hanno motivato la parte islamica della lista a tornare ad essere partito autonomo, in quanto contraria a qualunque posizione progressista in merito. In questo modo, paradossalmente, il partito islamista si è avvicinato ai partiti religiosi ebraici ultraortodossi alleati di Netanyahu, che per le stesse ragioni e nello stesso momento si stavano distinguendo dal mondo laico dei partiti sionisti di centro.

All’interno di un quadro politico frammentato e trainato da forze e interessi spesso asimmetrici, i diritti lgbtqi+ sono diventati dispositivo di divisione e riaggregazione delle alleanze politiche.

Da parte israeliana perché il pinkwashing è strumento di aggregazione sionista e perché i partiti religiosi ebraici hanno attaccato la cultura lgbtqi+ per esercitare maggior peso politico. Da parte palestinese perché il rifiuto della cultura lgbtqi+ è diventato lo strumento per definire chi è fedele alla tradizione non “corrotta” da culture israeliane, provocando competizione tra chi meglio rappresenta l’identità valoriale palestinese. Ad accelerare questo processo c’è l’evidenza che la comunità queer palestinese in Israele ha iniziato ad avere sempre maggiore visibilità e quindi a porre il problema politico della rivendicazione della propria esistenza. Una simile tensione si viveva in Irlanda del Nord negli anni ‘80 e ‘90: chi era gay o favorevole alla cultura queer veniva visto dallo Sinn Fein come un corruttore dello spirito irlandese, promotore di usi e costumi britannici.

In un contesto così frammentato e conflittuale la popolazione queer palestinese in Israele è stata ancora una volta discriminata, perché gli altri partiti che facevano parte della Joint List, oltre a quello islamico, cioè Hadash e Balad, non hanno ancora una posizione chiara né esplicita in merito ai diritti lgbtqi+.  Nel luglio 2020 la Knesset ha votato un provvedimento per bandire le terapie di conversione dall’omosessualità e solo tre parlamentari palestinesi della Joint List – su 15 eletti al tempo – hanno votato a favore.

Membri del queer block reggono un cartello con su scritto “Gender Intifada” mentre in migliaia marciano a Gerusalemme Ovest per ricordare il decimo anniversario delle celebrazioni LGBTQ, nell’agosto 2021. Foto credit Activestills

Corpo e territorio

La storia insegna che in ogni contesto di conflitto bellico la violenza non è agita solo esternamente ma anche sui corpi delle persone vittime di quel conflitto, e questo è sicuramente il caso della popolazione palestinese queer. Se c’è un luogo del mondo dove il controllo biopolitico dei corpi di cui parlava Foucault viene agito in modo sistematico, questo è Israele e Palestina.

Vale la pena ricordare che proprio per il suo carattere non-nazionale – o antinazionalista nei contesti più radicali – la battaglia per i diritti lgbtqi+ avrebbe un potenziale dirompente per aggregare persone in una lotta politica a prescindere dall’identità etnica. Forse anche intuendo questo pericolo potenziale, lo stato israeliano ha investito un quantitativo di denaro così significativo per promuovere iniziative di pinkwashing.

Finché la rivendicazione dei diritti civili in Israele rimarrà nella cornice omonazionalista non avrà mai la capacità di abbattere le frontiere reali o immaginarie che l’occupazione militare costruisce da decenni. Dividere, stratificare e rinchiudere la popolazione in compartimenti stagni non comunicanti e militarizzati è il dispositivo che tiene in piedi il regime di apartheid israeliano. Senza questo, la situazione sarebbe esplosa già da molto tempo e con esiti non controllabili.

Anche se momentaneamente si può dire che il dispositivo abbia funzionato, nulla è certo rispetto a un futuro in cui la comunità queer palestinese sarà sempre più grande e forte e in cui forse si comincerà anche in contesti mainstream a mettere in discussione la narrazione pinkwashing. I recenti contrasti alla Knesset su tematiche queer sono forse sintomo di un pavimento che comincia a scricchiolare.

Articolo pubblicato sul numero 4 della rivista DinamoPrint, dicembre 2021.

Immagine di copertina e foto nell’articolo di Activestills