cult

CULT

Ciascuno cresce solo se sognato

Still Life un film di Ubaldo Pasolini: Una bellissima storia sulla bellezza del vivere.

John May è un uomo solo. Per il Comune di Londra, si occupa di recuperare, quando ci riesce, qualcuno che possa magari solo presenziare al funerale di chi è morto in solitudine. Quei corpi che i vicini di casa, pur non ricordando nelle loro fattezze, si trovano all’improvviso sbattuti in faccia da quell’odore di morte che, prepotentemente, esce fuori da una porta che non hanno mai varcato e da finestre verso cui non hanno mai alzato neppure uno sguardo. L’odore di chi muore non avendo nessuno accanto. Lui se ne prende cura, setaccia le loro vite per vedere se esiste qualcuno che sappia qualche cosa, fino ad arrivare ad organizzarne la cerimonia delle esequie.

Il lavoro di John May è simile a quello della levatrice. Questa tirando fuori da un corpo un altro corpo, è la prima ad iscriverlo, immediatamente, nel registro del mondo. Lui, è l’ultimo, ma per alcune esistenze è forse il primo, a cercare di riconnettere, da piccoli e insignificanti scorie del quotidiano (un biglietto, una foto strappata, una ricevuta stropicciata) a corpi decomposti in attesa della sepoltura, tracce della vita da cui erano stati attraversati.

Lavori simili; aggrappati come sono ai due punti che delimitano il segmento della nostra vita. Lavori da svolgere da soli. John è solo perché sembra non avere bisogno di parole. Ne riceve pochissime per giunta sempre identiche. Un saluto abitudinario di qualche “collega” dell’apparato burocratico in cui lavora; i molti no quando domanda informazioni. Mai una parola dalla città.

Entrando e uscendo dagli uffici, attraversando la città sempre secondo i medesimi percorsi, non parla mai con nessuno. Sembra quasi non sentire neppure i rumori, avanza con scatti ripetuti, tocca rispettandoli gli stessi luoghi. Si muove seguendo uno spartito urbano fatto di note staccate che cercano una melodia. Still Life non è però un film sulla solitudine; piuttosto un film sui tentativi di ribellione alla solitudine con cui ci vogliono circondare. Quella di chi resta indietro, quella di chi si vuole allontanare , ma non riesce a farsi dimenticare, di chi trova in una gatta quel rapporto con l’altro impossibile anche abitando in quella strana tipologia intensiva dell’abitare inglese rappresentata dal ballatoio. Una serie di strade sovrapposte dove le aperture delle case, seppure una accanto all’altra, sono altrettante porzioni di estraneità.

Case infelici. Fuori e dentro le pareti perimetrali. Con tavoli dove mai compare una sedia per far posto ad un ospite. Cucine dove trovano posto solo scaldavivande. Il cibo ripreso sempre come “una natura morta”, come composizione che non sembra mai avere una consistenza , un oggetto appiattito quasi a farne un’idea immateriale. Stanze dai colori “ghiacciati”: grigio e celeste che sembrano portare all’interno delle mura la stessa atmosfera delle strade deserte, dove non sembra mai passare nessuno. Solo gentilissimi dropouts sulle scale di una chiesa od una signora perennemente in finestra con lo sguardo abbassato sull’asfalto, quasi fosse impossibile trovare un orizzonte di riferimento.

Restano le tante piccole cose, gli atti quotidiani, il modo di sbucciare, sempre identico, una mela, il disporre le pratiche, il ritagliare, l’incollare, le “orecchiette” con cui collezionare le foto in un album che per John May è il suo “diario di bordo”. Lui lo compulsa come se questo fosse uno smartphone e il muoversi tra le tante foto (fa quel lavoro da ventidue anni) è il suo personale social.

La vita di John May è una storia. Bellissima. Abbiamo bisogno di storie. Ubaldo Pasolini ce lo fa capire facendo trovare le parole a John. Quelle speciali che lui stesso scrive per l’orazione di un morto, che nessuno verrà a piangere e che, passate al sacerdote, ascolterà risuonare insieme ad un appropriata colonna sonora (sempre da lui scelta) come se fossero parole e pensieri di altri.

Still Life non è un film sulla pietà e la vita non avrà pietà per John May. E’ un graffiante schiaffo a chi , ai tanti, che non sanno guardarsi intorno, a chi “non sognando gli altri come ora non sono” non riesce a capire che “ciascuno cresce solo se sognato” (D.Dolci). Il cinema serve proprio a questo e questo film serve al cinema.

Eddie Marsan è la faccia di John May, che ci ricorda quanto dice Gipi in “una storia” sulla costruzione di una faccia. Rachel Portman fa della colonna sonora il registro perfetto dell’architettura della città egoista, separata, crudele ,destinata a non avere futuro.