OPINIONI

«Chiamiamola la pace eterna nel Medio Oriente»
Venti principi enunciati in una conferenza stampa da Trump e Netanyahu senza alcun coinvolgimento della parte palestinese. E, se non accettano, «si finirà il lavoro iniziato»
«Let’s call it eternal peace in the Middle East», «chiamiamola la pace eterna nel Medio Oriente», così Trump definisce il suo piano all’inizio della conferenza stampa – senza domande – con Netanyahu sul cosiddetto “piano di pace” per tutta la regione mediorientale, non solo la Palestina. Perché si sa, quando si muove Trump, le cose si fanno in grande! E dato che Trump le parole le sceglie con cura, e non a caso come sembrerebbe, non ha usato “la pace perpetua” di kantiana memoria, ma la pace eterna, che in termini cristiani è l’eterno riposo, o meglio la morte. E non ci fu metafora mortifera più adeguata per definire questi “principi di pace”.
E restiamo ancora sui preliminari: il piano viene presentato in una Conferenza stampa dal Presidente Trump e dal Presidente Netanyahu, dopo qualche ora di attesa. Trump spiega di aver parlato con un sacco di leader del mondo e li ringrazia con uno sovraesteso utilizzo di aggettivi superlativi: «Desidero ringraziare i leader di molte nazioni arabe e musulmane per il loro straordinario sostegno nello sviluppo della proposta, insieme a molti dei nostri alleati in Europa. L’Europa è stata molto coinvolta». E va avanti mimando le supposte conversazioni avute: «un piano incredibile […] una cosa enorme», ne ha parlato con l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia, il Pakistanm l’Indonesia. Ma nessuno è lì per presentarlo, per firmarlo, o per supportare apertamente il piano. E in nessun modo è stata coinvolta la parte palestinese. In nessun modo.
Gli accordi di Oslo, per quanto assolutamente fallimentari, sono stati un momento storico nella storia palestinese-israeliana e sono rappresentati simbolicamente dalla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin. Perché la pace, o i tentativi di pace, si fanno con le due parti del conflitto, non tra le sole parti amiche.
Alla conferenza stampa ci sono gli alleati di sempre: gli Stati Uniti e Israele, tra cui accordi, pace, buone relazioni diplomatiche e commerciali esistono già. Ma non c’è nessuno altro. E questo è molto rappresentativo dell’era in cui viviamo, di come si stanno trasformando le relazioni internazionali e dell’ordine mondiale emergente. Si parla con chi si conosce già, si impongono i propri punti di vista, non si ascoltano le opinioni opposte e la controparte, si procede sostanzialmente dritti per la propria visione del mondo. In un certo qual modo, questo è anche molto rappresentativo delle nostre relazioni interpersonali, dei dialoghi inesistenti che portiamo avanti nelle chat, incomprensioni continue, impossibilità di dialogo, e quasi nessuna propensione all’ascolto di chi non la pensa come noi.

Nessuna mediazione possibile. Insomma, una catastrofe. E leggendo i principi elencati nel piano ce ne rendiamo conto.
«Gaza sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non rappresenterà una minaccia per i Paesi vicini». È il primo punto, ripetuto più volte nei principi. Gaza non avrà controllo del proprio territorio, Hamas deve capitolare, lasciare le armi, lasciare il territorio, non è in alcun modo presa in considerazione come parte in gioco delle trattative o del successivo governo di Gaza, come non lo è l’Autorità Palestinese.
A Gaza non è riconosciuta nessuna indipendenza, controllo sui confini o altro tipo di autodeterminazione. Per un periodo transitorio, non sappiamo quanto lungo, l’amministrazione sarà nelle mani di un comitato palestinese tecnocratico composto da tecnici ed esperti palestinesi e internazionali, sotto il controllo del Consiglio di pace, con a capo il Presidente Trump, Tony Blair e altri membri e capi di stato che dovranno essere annunciati.
Al punto 16, leggiamo: «le Forze di Difesa Israeliane (IDF) si ritireranno sulla base di standard, tappe fondamentali e scadenze legate alla smilitarizzazione che saranno concordate», quindi l’esercito israeliano non si ritira dal territorio immediatamente, ma in maniera graduale, per poi essere sostituita da nuove forze militari internazionali e una futura polizia palestinese.
Il futuro di Gaza rimane quello di una zona economica speciale, punto 11, dove si può derogare agli standard internazionali in termini di diritti, tariffe, e salari. I gazawi non saranno, quindi, forzati ad andare via, ma saranno la forza lavoro a basso costo nella nuova Riviera, che verrà costruita grazie all’aiuto di esperti che hanno lavorato ad «alcune delle più fiorenti città moderne del Medio Oriente», punto 10.
Il punto 7 – «Una volta accettato il presente accordo, gli aiuti saranno immediatamente inviati nella Striscia di Gaza» – riconosce implicitamente che non entrano aiuti sufficienti a Gaza e che gli aiuti – come scritto nel punto 8 – dovrebbero essere distribuiti dall’Onu, le sue agenzie e altre organizzazioni internazionali, come la Croce Rossa e la Mezza Luna Rossa. E non da una fondazione privata gestita in maniera poco trasparente.
Conclusa la presentazione del piano per la pace eterna Trump ribadisce che, «se Hamas rifiuta, sosterrò Israele perché finisca il lavoro», ripreso poi da Netanyahu «questo può essere fatto nella maniera più morbida o nella maniera più dura». Ed è inutile dire, come stanno facendo innumerevoli commentatori, che ora la palla passa ad Hamas, perché qui non c’è nessun gioco possibile. Nessuna trattativa. Nessuna prospettiva di pace, solo pace eterna, cioè nuova morte e distruzione.
Immagine di copertina: screenshot della conferenza stampa
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