Chi è sazio e chi ha fame
Una risposta all’anticipazione del libro di Concita De Gregorio.
Capita delle volte di girare su Internet e incrociare un articolo che ti fa saltare i nervi. E’ quello che, probabilmente, è successo a molti questa mattina leggendo l’anticipazione del nuovo libro di Concita De Gregorio, dal titolo – il testo, non il libro – “Generazione Sazia”, pubblicata su ilPost.it. Com’è facile comprendere dal titolo, nell’articolo si cerca di disegnare un ritratto della nostra generazione, quella nata a partire dagli anni ottanta, che a tratti fa rabbrividire per superficialità e distanza dal reale.
La De Gregorio, con uno stile “pedagogico”, ci racconta la sua esperienza di madre sconcertata cui gli insegnanti del figlio primogenito e gli allenatori di rugby del più piccolino consegnano un giudizio impietoso sulla nostra generazione: Siamo sazi. Non abbiamo fame, non abbiamo voglia di lottare per conseguire un obiettivo, siamo appagati perché abbiamo tutto ciò che possiamo desiderare, abbiamo accesso al benessere tramite le garanzie conquistate dai nostri genitori e grazie a queste ce la passiamo fin troppo bene. Siamo, per dirla tutta, viziati.
E così, dopo “fannulloni” e sfigati”, possiamo aggiungere alla lunga lista di aggettivi che ci hanno affibbiato anche il “viziati” di Concita De Gregorio. Certo che ce ne vuole a definire “viziata” l’unica generazione dell’ultimo secolo che ha una struttura delle opportunità più ristretta della precedente, e il cui tasso di disoccupazione è arrivato al 37%. Ci vuole un bel coraggio a definire viziati e sazi tutti quei giovani che si destreggiano tra un lavoro al pub e un tirocinio gratuito presso qualche azienda bisognosa di freschissima forza lavoro gratuita. Il racconto che ci troviamo a leggere francamente ci spiazza, per i contenuti ma soprattutto per la totale assenza di aderenza alla realtà. A questo punto però possiamo azzardare un’ipotesi: forse dai salotti televisivi e dalle redazioni dei grandi giornali la realtà appare un tantino distorta. C’è infatti, fuori dalle stanze ovattate del circo mediatico, un’intera generazione che lotta giorno dopo giorno contro la precarietà del lavoro, vivendo sulla propria pelle il desiderio di un mondo diverso. Una generazione tutt’altro che appagata, perché ben poco è stato fatto per soddisfarne i desideri e che ogni volta che ha ottenuto qualcosa lo ha fatto grazie alla sua generosità e al suo coraggio.
Tutto questo è stato dimostrato nell’arco di questi anni, a partire dal grande ciclo di lotte studentesche che si è aperto nel 2005 contro la riforma dell’università firmata da Letizia Moratti, e che come un’onda si è via via ingrossato. Fino ad arrivare alla grande esplosione di movimento del 2010 contro la riforma Gelmini e il ddl Aprea. In quei mesi centinaia di migliaia di studenti e giovani precari si sono ribellati ad un sistema che percepivano come ingiusto, che li condannava al ricatto della precarietà. Ma di quel movimento, che veniva esaltato dalla stessa De Gregorio come una forza che finalmente riportava alla luce la vera natura dei giovani di questo paese, purtroppo nel suo testo non vi è traccia. Come non vi è traccia di tutti i giovani che lottano in Val Susa, a Taranto, e in decine e decine di altri luoghi. Soprattutto non vi è traccia di tutti quei giovani che, una volta mostrata la “rabbia degna” che la giornalista esalta, quella in grado di rovesciare i governi e cambiare il mondo, quella che si accende per poi costruire, si trovano proprio in questi giorni a dover pagare con processi durissimi e rischiano di finire in galera. Dopo una così accorata esaltazione dei giovani “che si arrabbiano” con passione, due paroline su quello che avviene proprio a chi si ribella, si potrebbero anche spendere.
È cosa facile, d’altronde, dimenticarsi di tutto questo quando non lo si vive sulla propria pelle. Quando non si è costretti a lavori pesanti e umilianti, quando non si cova dentro la voglia e la rabbia di farla pagare al tuo padrone di casa, al tuo datore di lavoro. Cara De Gregorio, se lo lasci dire, probabilmente lei di questa generazione non ha compreso molto. Forse perché, lei sì, non ha fame come noi, e proietta, come troppo spesso i genitori fanno, le proprie ansie, aspirazioni e modelli, su di noi. Nulla di grave, non ci resta che augurarle che almeno i suoi figli possano incontrare la meraviglia del “gioco”, quella che sfugge anche ai suoi allenatori di rugby: quella di poter lottare in tanti, per cambiarne le regole.