cult

CULT

Cannes 9/ Cannes, il #metoo e i movimenti femministi

Si è concluso sabato il Festival di Cannes con la Palma d’Oro assegnata dalla giuria presieduta da Cate Blanchett e con una significativa presenza femminile a “Shoplifters” di Kore-eda Hirokazu. Ma lo spettro del #metoo e di Harvey Weinstein ha aleggiato per la Croisette per l’intera durata dell’evento

La marcia delle 82 donne

Il #metoo è arrivato sulla Croisette già durante il primo giorno di Festival: prima con le dichiarazioni ufficiali di Thierry Frémaux e della Presidente di Giuria Cate Blanchett – giuria costituita secondo il principio delle pari opportunità da quattro uomini e quattro donne – poi sabato con una vera e propria “marcia” sul red carpet di 82 donne (tra cui Agnès Varda, unica ad aver vinto una Palma d’oro d’Onore nel 2015, insieme a Jane Champion che ottenne la vera e propria Palma d’Oro nel 1993), a rappresentare una plateale sproporzione: sono stati solo 82 i film in concorso firmati da registe donne durante i 71 anni di Festival.

E sin dal primo giorno si malignava che il clima generale del #metoo, oltre che la composizione della giuria, avrebbero fatto propendere la scelta per uno dei tre film firmati da registe donne che hanno concorso con gli altri 18 firmati da uomini. Cosa che puntualmente non è avvenuta dato che a vincere la Palma d’Oro è stato invece Shoplifters, film impeccabile e amatissimo dalla critica, diretto dal grande regista giapponese Kore-eda Hirokazu, che ha dimostrato come la giuria “delle quote rose” – come l’ha spregiativamente chiamata qualcuno – sia stata invece molto più competente e rigorosa di molte giurie “maschili” degli ultimi anni. Tuttavia alcune donne sono state premiate: il Premio della Giuria a Capharnaüm di Nadine Labaki, quello per la Migliore Sceneggiatura ad Alice Rohrwacher per Lazzaro Felice a ex-aequo con Nader Saeivar per 3 Faces di Jafar Panahi, mentre a bocca asciutta è rimasta Eva Husson e il suo Girls of the Sun dedicato alla storia delle combattenti curde dell’YPG. Quest’ultimo film che è passato in concorso proprio lo stesso giorno della marcia delle 82 è stato al centro di moltissime polemiche (e siamo certi, anche contestazioni nel prossimo futuro) per aver affrontato una questione politica decisiva di questi anni con una messa in scena piena di ambiguità e inesattezze, sbilanciata sulla narrazione militare (come se questa potesse essere scissa dalle riforme sociali e dagli interventi politici su cui si è costruita l’esperienza del Rojava), infarcita di luoghi comuni umanitari e vittimistici, facendo in definitiva un pessimo servizio alla causa politica che pure sposa.

Vale la pena ritornare sulle parole della Presidente di giuria Cate Blanchett, pronunciate durante la conferenza stampa finale, che ha ribadito in sostanza il discorso tenuto durante la marcia delle 82: «puntiamo ad avere una maggiore female representation all’interno dei Festival». Sulla Montée des marches, infatti, aveva precisato che «le donne non sono una minoranza […] stiamo su queste scale come simbolo della nostra autodeterminazione e del nostro impegno verso il progresso […] siamo in solidarietà con le altre donne che lottano in altri settori».

Fatto assolutamente non marginale è che durante la cerimonia di premiazione sia stata proprio Asia Argento – che in un primo momento era stata considerata una “paria” e lasciata sola nella sua denuncia del colosso delle produzioni hollywoodiane Harvey Weinstein – a consegnare il premio alla sceneggiatura; e che l’abbia fatto proprio nel paese di quella Catherine Deneuve, che senza mezzi termini aveva bollato il #metoo come una sorta di nuovo puritanesimo. Prima della consegna, Asia ha pronunciato un discorso molto forte di accusa a Cannes, che storicamente aveva sempre ospitato il produttore di Hollywood, augurandosi non solo che egli non «venga mai più accolto», ma che abusi e violenze del genere finiscano per sempre, dal momento che «anche tra di voi stasera siedono uomini a cui non è stato chiesto conto della loro condotta contro le donne».

 

L’industria del cinema e i movimenti

È vero che l’incontro tra cinema e movimenti può avvenire in molti modi e tramite diverse occasioni. Un caso, per esempio, è quello dell’attore che ha vinto il premio come Migliore Interpretazione Maschile, Marcello Fonte, di origine calabrese, protagonista di Dogman di Matteo Garrone, ma soprattutto attivo al Nuovo Cinema Palazzo nel quartiere di San Lorenzo a Roma, luogo che è stato sottratto alla speculazione edilizia (sarebbe dovuto diventare una sala da bingo) nel 2012 e restituito al quartiere come sala di proiezioni e di spettacoli teatrali – che era il suo uso originario – all’interno del quale Marcello, insieme ad altri,  organizza iniziative. Un attore straordinario, che si divide tra impegno politico concreto e una professione (anzi varie professioni, visto che è stato tecnico, macchinista, sceneggiatore, ristoratore ecc.) per la quale ha ricevuto uno dei massimi riconoscimenti a livello mondiale.

Più spesso invece accade che i professionisti del cinema siano apparentemente prossimi ma nella realtà assai distanti da tutto ciò che accade al di fuori del loro (assai piccolo) mondo. Aggirandosi per Cannes, quello che sorprende è la scarsa consapevolezza non solo di molte attrici, registe, produttrici, ma spesso anche della stampa stessa dell’esistenza di un movimento che non solo travalica il #metoo dell’industria del cinema, ma che ne ha anche in qualche modo preparato il terreno. Già a partire dal 2016, era iniziato a livello mondiale un movimento con numeri impressionanti contro i dilaganti femminicidi post-crisi economica. Anche all’interno di Ni Una Menos (Non Una di Meno in Italia, International Womens’ Strike negli Stati Uniti e poi altre sigle ancora in Polonia, Spagna ecc.) la questione delle molestie sul lavoro è stata da subito individuata come l’espressione di una violenza economica e fisica molto più estesa, che riguarda le posizioni di potere sulla cui base si organizzano processi produttivi e riproduttivi.

Il #Metoo e il movimento Ni Una Menos sono state le due forme che, con diversi punti di contatto ma anche differenze, hanno dato vita a quell’ampio e variegato fenomeno che viene definito “femminismo della quarta ondata”. Il primo con una presa di parola che ha attraversato soprattutto (ma non solo) i social network e il secondo per le strade di tutto il mondo sono stati capaci di individuare le regole che governano l’economia politica attuale, largamente fondata su posizioni di potere (maschili) e sfruttamento delle differenze di genere e della sessualità. Perché, allora, gran parte della stampa che ruota attorno al cinema e delle professioniste del settore non vedono e non insistono sulla forte connessione tra questi due modi di parlare e agire politicamente?

Notare questa mancanza di consapevolezza o, se vogliamo, di comunicazione non significa contrapporre banalmente un movimento “reale” a uno del mondo dello “spettacolo”, né tanto meno lamentare una mancanza di riconoscimento da parte dell’industria del cinema di un movimento che non ne ha certo bisogno, dato che già ora conta milioni di donne. La questione diventa davvero interessante se la si guarda da un punto di vista prettamente politico. Accanto a un movimento globale di donne che ha provato a interagire con il proclama del #metoo delle attrici, trasformandolo in un #wetoogether, si è delineato un movimento opposto – un tentativo di riassorbimento del #metoo in un discorso (soprattutto nei media) che punta a contenerne il danno, a ridurlo a una “riforma” del sistema, con il rischio di non riuscire a rovesciare la profondità e la pervasività dei meccanismi di ricatto, violenza e abuso. Se il #metoo viene assunto come fenomeno esclusivo dell’industria cinematografica e se ne oblitera il legame (o la comunanza) con il movimento delle donne, si ripropongono gli schemi classici di tipo rappresentativo, in cui vengono identificate alcune figure che (di fatto) hanno più voce in capitolo e più potenza di parola.

Storicamente, i movimenti femministi, dagli Stati Uniti all’Europa, hanno rifiutato la rappresentanza (non solo quella dei quadri e delle dirigenze maschili, ma anche quella interna al movimento delle donne) per affermare il valore di una presa di parola diretta. Questo “insegnamento” è stato fatto proprio da centinaia di movimenti, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, specialmente a fronte della crisi dei processi tradizionali di mediazione di partiti e sindacati (pensiamo a Seattle, ai no global, al movimento contro la guerra, ai movimenti per l’ecologia ecc.): questa stessa tensione anti-rappresentativa attraverso i movimenti delle donne di oggi a livello mondiale. Dove sta il problema, allora? Il problema non è che il #metoo si limiti a una testimonianza individuale (o una denuncia), a cui non fa seguito alcuna azione diretta o cambiamento concreto. Persino nella retorica di un festival ingessato e tradizionale come Cannes si è riusciti a passare dal discorso all’azione, tanto che sono stati tentati alcuni “aggiustamenti” (anche se minimali) nell’organizzazione dell’evento, e la stessa marcia delle 82 donne ha provato a rompere il copione dell’evento che si ripete sempre uguale di anno in anno.

Come spesso accade la presa di parola individuale ha funzionato come reagente e ha richiamato altre prese di parola, dando vita all’ondata del #metoo e producendo degli effetti che non possiamo definire puramente “retorici” e di “costume” – a meno di non ripetere il tedioso discorso sessista e misogino di tanta stampa italiana. Da questo punto di vista il settore del cinema si è organizzato, utilizzando soprattutto lo spazio di visibilità dei concorsi e delle premiazioni.

Tuttavia, la presa di parola di una singola attrice o regista, per quanto possa suscitare una massima visibilità televisiva e giornalistica non riesce (e non potrebbe riuscire) fino in fondo a “rappresentare” tutte le altre donne che hanno subito violenze e molestie. Il #metoo ha funzionato non perché una sola attrice ha parlato, ma perché le ho hanno fatto anche altre: perché dalla testimonianza individuale (che naturalmente è già di per sé un punto di partenza politico) si è passati a un’azione progressivamente collettiva. Come la parola delle attrici non sostituisce la parola di tutte le altre donne, così la presa di parola nell’ambiente del cinema, non supplisce automaticamente alla presa di parola delle donne che lavorano in settori produttivi (o domestici) spesso molto distanti. Se quindi, all’interno del microcosmo festivaliero, maschile per selezione dei film e retribuzione differenziata degli addetti, la presa di parola delle 82 donne assume un valore inestimabile, non è detto che riesca, nonostante la risonanza mediatica, a “parlare per” tutti gli altri settori o per tutte le altre donne. Un limite che risalta anche nel documento, per tanti altri versi efficace, di Dissenso comune oppure in quello di Time’s up, usciti entrambi a inizio 2018.

L’impossibilità di farsi portavoce della parola delle altre significa, quindi, dichiarare l’impossibilità dell’autosufficienza. Per condurre fino in fondo una lotta che, come si è dimostrato, non è tanto di natura etica o morale (cioè non riguarda i presunti limiti della seduzione), ma è fino in fondo politica ed economica, occorre immaginare un rafforzamento delle possibili intersezioni tra settori e soggettività molto diverse tra loro. È questo quello che l’industria cinematografica – a parte qualche rara individualità – non è riuscita fino in fondo a mettere in pratica se non nella forma eclatante, ma spesso molto fragile, dei proclami delle grandi manifestazioni festivaliere. È da questa problematica comunicazione – che peraltro contiene anche un pieno di possibilità – che bisognerebbe ripartire per osservare il fenomeno del #metoo senza ridurlo a quel punto di vista prospettico un po’ limitante e un po’ fuorviante che è il mondo del cinema, ma guardandolo a partire dalle sue possibile connessioni con i movimenti globali della donne.

 

Tutti gli articoli del report da Cannes

 

L’attualità di Cannes

Pájaros de verano di Ciro Grande e Cristina Gallelo

Leto di Kirill Serebrennikov

Le Livre d’image di Jean-Luc Godard

BlacKkKlansman di Spike Lee

En Guerre di Stéphane Brizé

Solo: A Star Wars Story di Ron Howard

Dogman di Matteo Garrone