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Cannes 2/ Il capitalismo contro la comunità

“Pájaros de verano”, l’ultima fatica di Ciro Grande e Cristina Gallelo ha inaugurato la Quinzaine des réalisateurs di Cannes, raccontando la genealogia del regno della droga colombiana e lo scontro tra capitalismo e forma di vita indigena, senza però approfondire il tema del conflitto interno alla comunità

All’inizio sembra di trovarsi fuori dal tempo. Pájaros de verano inizia con la storia di una famiglia allargata indigena – un clan ci viene detto – e racconta le vicende di questa comunità a partire dal matrimonio tra due giovani suggellato dalla dote ingente che Rapayet deve trovare per poter sposare Zaida: tre collane di pietre preziose e svariati capi di bestiame. Scopriamo più avanti nel film che la famiglia fa parte del consistente gruppo indigeno degli Wayuuquasi il 20% della popolazione colombiana – e siamo negli anni Sessanta e Settanta, negli anni della modernizzazione della Colombia rurale.

Il film cerca di inquadrare l’origine del narcotraffico in Colombia, prima della cocaina di Pablo Escobar e dei Cartelli, negli anni immediatamente precedenti alla bonanza marimbera in cui si era sviluppato e poi consolidato il traffico di marjuana verso gli Stati Uniti e che costituì il trampolino di lancio per tutte le altre esportazioni illegali e legali. Il protagonista Rapayet, per riuscire a pagare il pegno matrimoniale, vende occasionalmente erba a due hippie americani e da lì inizia una vera e propria attività che non solo porterà la comunità ad arricchirsi, ma anche alla “caduta” e al suo progressivo sgretolamento. Lo chiariscono bene i titoli dei cinque episodi (erba selvatica 1968, le tombe 1971, la prosperità 1979, la guerra 1980 e il limbo) che segnano questa parabola nello scenario deserto e luminoso della Guajira nel nord-est del paese. Cinque atti di una vera e propria tragedia, come hanno detto i due registi che lo hanno firmato, Cristina Gallego e Ciro Guerra, che definiscono il loro Pájaros de verano l’insieme di «un film noir […], un western, una tragedia greca e un romanzo di Gabriel García Márquez».

L’inizio di un modello di narcotraffico pienamente industrializzato, organizzato con dei veri e propri corriere aerei con gli Stati Uniti, segna il passaggio da un’economia di sussistenza e baratto, di cui la comunità viveva, a una vera e propria economia capitalistica, fatta di armi, dollari, ma anche feste ed eccessi. Il film allora racconta ciò che il narcotraffico in Centro e Sud America è effettivamente stato, vale a dire il modello di una nuova forma di neoliberismo che combina estrazione, libero mercato e colonialismo. L’origine di questo “nuovo” capitalismo della droga non viene esposta in tutte le sue sfaccettature – e forse non ce ne sarebbe stato neppure bisogno, vista la sovrapproduzione di letteratura, cinematografia e televisione sul tema – ma è presa esclusivamente dal lato etico e politico.

Cosa accade quando un mondo intatto, che funziona con regole cosmologiche e spirituali antichissime, si scontra con la forma di vita capitalistica e con la sua violenza? Lo spiega bene lo scontro tra Rapayet e Ursula, madre della sposa, matriarca custode del talismano, che organizza politicamente la comunità di Wayuu a forza di premonizioni e interpretazioni dei sogni. Quando la comunità si incontra con l’esteriorità della violenza capitalistica non può che autodistruggersi. Qui sta tutta la rilevanza, ma anche la punta di limite di Pájaros de verano.

Ricordiamo che la coppia di registi aveva già lavorato insieme a Los viajes del vento del 2007 e al notevole successo del 2015, L’abbraccio del serpente, primo film colombiano a essere candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero, dopo essere stato presentato durante la Quinzaine des réalisateurs, che raccontava il viaggio di due antropologi nel 1910 e nel 1940 con uno sciamano e il loro viaggio spirituale e lisergico sul Rio delle Amazzoni. Il film costituiva una denuncia esplicita della progressiva scomparsa delle comunità indigene dell’Amazzonia, a forza di omicidi di massa, depredazione delle risorse ed evangelizzazione forzata.

Il dispositivo di questo nuovo film è analogo al precedente: mostrare l’esistenza indigena, le qualità del suo sistema di sapere unico e ancestrale, connesso con la natura e l’immagine onirica, che sia quella dei sogni o dell’ayahuasca. Gli indigeni sono portatori di una verità che corrisponde non solo a una forma di vita diversa, ma anche più pura: non intaccata dalla faida, dal conflitto, dalla guerra. È il capitalismo l’unico responsabile della deflagrazione della comunità.

Non ci sarebbe nulla da eccepire, se non fosse che Pájaros de verano pecca di manicheismo, non tanto perché identifica nel capitalismo il male e nella comunità indigena il bene, ma perché di quella organizzazione comunitaria non coglie né la potenziale capacità di trasformazione né l’eventuale contraddizione interna. Ursula, la madre, che rappresenta l’elemento conservatore della comunità sarà quella che dall’inizio alla fine avrà già previsto il futuro, perché l’unica a detenere la conoscenza più vera, quella che lega gli esseri umani, alla terra e ai sogni.  Tuttavia, da questa strenua difesa della comunità indigena –che è lo scopo conclamato dei due autori–  emerge uno sguardo tutt’altro che obiettivo che, anzi, interiorizza un gesto implicitamente coloniale: gli indigeni, selvaggi senza tecnologia detengono non solo un sistema di verità assoluto ma, in virtù del loro sistema di verità, sono anche immuni a qualsiasi forma di conflitto. Il conflitto non può che provenire dall’esterno perché la comunità è di per sé priva di contraddizione.

Elegia di una vita più antica, primitiva e qualitativamente diversa, Pájaros de verano, ha un grandissimo potenziale critico e utilizza una struttura certamente innovativa nel descrivere quegli anni Sessanta e Settanta colombiani, ma non riesce a dare conto della tensione conflittuale che anche nelle migliori comunità da tempo immemore può sempre prendere forma.