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Desaparición e morte di Santiago Maldonado

Cosa è accaduto il 1 agosto 2017 sulle rive del fiume Chubut, nella Patagonia Argentina? Le responsabilità,  le coperture, i depistaggi e le menzogne del governo argentino, ma anche le ragioni della lotta mapuche, la solidarietà e la lotta per la verità e la giustizia raccontate in un documentario che denuncia anche i soprusi della multinazionale italiana Benetton in Patagonia.

Una strada dritta ed infinita, all’orizzonte la Cordigliera delle Ande con le cime innevate, le distese verdi delle pianure patagoniche in un giorno freddo di un inverno argentino: queste immagini in movimento introducono lo spettatore nel cuore delle terre mapuche colonizzate dalle multinazionali straniere, in gran parte europee e nord americane, tra cui l’italianissima Benetton.

La Gendarmeria in tenuta di guerra va a “caccia di mapuche”: oltre un centinaio di effettivi si dirigono verso un blocco stradale, organizzato da una decina di appartenenti alla comunità mapuche Pu Lof Cushamen, in lotta per recuperare le proprie terre. Con il blocco stradale sulla Ruta 40, i mapuche chiedono la liberazione del loro leader politico e spiriturale Facundo Jones Huala (arrestato e poi estradato in Cile, dove è stato incarcerato in assenza di prove).

 

Poche ore prima, un giovane artigiano e tatuatore, Santiago Maldonado, era arrivato nella comunità, con il desiderio di conoscere l’esperienza di vita e di lotta indigena.

 

Santiago era li per esprimere solidarietà con chi reclama la propria terra, per entrare in contatto con quelle popolazioni che il razzismo e l’impronta coloniale continuano a disprezzare e criminalizzare. Santiago, nato in provincia di Buenos Aires, si era trasferito da poco nella cittadina di El Bolson, nella Patagonia argentina, a poche decine di chilometri dalla comunità dove è stato desaparecido il 1 agosto 2017.

 

 

Pochi mesi prima, nella stessa comunità c’era stata una durissima repressione, con arresti e feriti da armi da fuoco, nell’ambito di un’operazione che si inscrive pienamente in quell’aumento della violenza statale contro i popoli originari, e in particolare contro le comunità mapuche, in tutto il paese durante il governo neoliberale di destra della coalizione guidata da Mauricio Macri. La repressione illegale e violenta della Gendarmeria argentina del 1 agosto 2017 contro la comunità mapuche ha portato alla desaparición seguita da morte: il corpo del giovane Santiago Maldonado è stato ritrovato, in condizioni tutt’altro che chiare, in un’ansa del fiume Chubut il 17 ottobre di due anni fa. Sul luogo dell’operazione è stata dimostrata la presenza di Pablo Nocetti, avvocato difensore di militari accusati di genocidio e crimini di lesa umanità durante la dittatura. In quel momento era capo di gabinetto della ministra Patrizia Bullrich, figura chiave delle politiche di sicurezza e militarizzazione del governo Macri.

Il documentario si apre con le dolorose immagini della durissima repressione e continua con la voce del fratello di Santiago, Sergio Maldonado, mentre legge una lettera aperta al fratello dopo il ritrovamento del corpo, quasi tre mesi dopo la sparizione. Le candele davanti all’obitorio, i volti in lacrime, i cartelli e gli striscioni per Santiago, la commozione di un intero paese, la denuncia delle responsabilità dello Stato e delle multinazionali introducono lo spettatore in quella tragica vicenda che ha commosso l’Argentina e il mondo. E che ci racconta della commistione profonda tra neoliberismo, razzismo e continuità coloniale fino ai nostri giorni in America Latina.

 

 

Per chi ha vissuto quei mesi di rabbia, dolore, angoscia e continue mobilitazioni, rivedere quelle immagini e rivivere quei momenti è profondamente doloroso, ma permette al tempo stesso di tornare a riflettere sulla vicenda e sull’importanza di portare avanti la lotta per la verità e la giustizia, affinché non accadano mai più vicende del genere. Per chi invece ne ha solamente sentito parlare da lontano, è un’occasione imperdibile per immergersi in quei territori e in quelle vicende che hanno avuto una eco internazionale e hanno mostrato la continuità della violenza coloniale.

 

Il documentario pone al centro una serie di domande rimaste inevase da parte della giustizia argentina: che cosa successe a Santiago il 1 di agosto? Chi sono i responsabili della sua scomparsa? Dov’è stato per quasi tre mesi?

 

Queste tre domande chiave del documentario sono al centro dell’indagine giudiziaria che si è appena riaperta, dopo che il Tribunale di Rawson aveva deciso di chiudere il processo lo scorso 29 novembre 2018. In quell’occasione, il giudice Lleral aveva chiamato la famiglia Maldonado confessando di avere ricevuto pressioni ed essere stato costretto a chiudere la causa, pur in assenza di risposte chiare rispetto alle responsabilità della morte di Santiago. Ma proprio poche settimane fa, a inizio settembre, è finalmente arrivato l’ordine di riaprire il processo. La sentenza del Tribunale che ordina di riaprire il caso riconosce le ragioni della famiglia Maldonado, che assieme al Cels – Centro di Studi legali e sociali – e ad altre organizzazioni per i diritti umani aveva fatto ricorso dopo la frettolosa chiusura delle indagini sulle responsabilità della catena di comando e della Gendarmeria quel 1 agosto 2017.

Il documentario di Tristan Bauer ripercorre questa vicenda riportando le parole, le immagini e le testimonianze degli uomini e delle donne mapuche, degli e delle abitanti della comunità, degli amici e familiari di Santiago: ci introduce in quelle giornate intense in cui l’Argentina è tornata a fare i conti con gli orrori della propria storia, quella coloniale e quella delle desapariciones di persone che hanno caratterizzato la storia recente del paese.

Al di là delle responsabilità giudiziarie, per cui continua la lotta, le responsabilità politiche sono chiare e il documentario le ricostruisce nei dettagli con pazienza e attenzione. Le interviste, le immagini e le parole del documentario accompagnano lo spettatore in un viaggio nelle comunità della Patagonia mapuche e nelle tante manifestazioni che a partire dal 1 agosto del 2017 hanno cominciato a invadere le strade del paese, restituendo il ritmo vertiginoso di quelle giornate, il dolore e la profondità storica del razzismo e della violenza coloniale. E la vita, le storie, i sogni di Santiago, raccontato dagli amici, dalla famiglia, dall’avvocata della famiglia Maldonado.

Al tempo stesso, il documentario mostra chiaramente i depistaggi e le coperture del governo Macri e della ministra della Sicurezza Bullrich, che aveva dichiarato di essere pronta a difendere i gendarmi «perché ho bisogno di loro per i progetti che stiamo portando avanti per cambiare questo paese». Ancora una volta, una storia di impunità e di menzogne di Stato.

 

 

Tre scene in particolare permettono di cogliere l’importanza di questo documentario e l’urgenza di diffonderlo e proiettarlo il più possibile, per moltiplicare l’indignazione, contribuire alla lotta per la verità e la giustizia e contro l’impunità, far conoscere la storia di Santiago con il suo portato di violenza strutturale che colpisce i popoli indigeni in Argentina cosi come nel resto dell’America Latina.

Nella prima, seduto su un ramo di un albero sul fiume Chubut, un giovane mapuche afferma: «Tutto quello che siamo, se non lottiamo, andrà perduto e qui entreranno le compagnie minerarie, forestali e petrolifere, si porteranno via tutto e non ci lasceranno niente. Vogliamo una soluzione politica, che Benetton e Lewis lascino queste terre affinché tornino ad essere delle persone che qui hanno sempre vissuto». Davanti a una delle case autocostruite nella Pu Lof, una donna mapuche spiega: «Noi non siamo terroristi né delinquenti, stiamo solo difendendo il territorio contro queste imprese che distruggono, impoveriscono e devastano. E lo facciamo per tutti gli abitanti di questa terra, non solo per noi mapuche. Siamo sempre stati gli umiliati, gli spossessati, i discriminati, la mano d’opera a buon mercato per i bianchi. Recuperare la terra che ci ha usurpato Benetton è un modo per recuperare quello che è nostro e trovare una via di uscita dalla povertà».

La seconda scena congiunge il dolore intimo e familiare con una lotta moltitudinaria che ha squarciato il velo dell’impunità della repressione: risuonano ancora le commosse parole di Sergio Maldonado, dal palco della manifestazione del 1 settembre 2017:

 

«Santiago sono orgoglioso di te, lotterò per te fino alla fine, non mi importa niente di tutto quello che mi può accadere! Adesso voglio Santiago vivo!».

 

Mentre il Ministro mette sotto controllo i familiari del giovane desaparecido, garantendo l’impunità dei gendarmi e ostacolando le indagini, la protesta cresce. Migliaia e migliaia di persone si stringono alla famiglia e agli amici di Santiago, alla comunità mapuche e alle organizzazioni per i diritti umani che si mobilitano giorno dopo giorno. Un dolore privato che diventa una questione politica pubblica, un dolore condiviso che si trasforma in lotta per la verità e la giustizia: «Santiago lo vogliamo vivo» ripetono cartelli, slogan, scritte sui muri e frasi sui social. E nel documentario, con il volto sofferente, anche la madre di Santiago racconta di aver sperato sino alla fine in un finale diverso: «Non ho mai pensato che non sarebbe più tornato tra noi».

La terza scena, infine, mostra le coperture, le impunità e le menzogne di Stato e media. La ripetizione ossessiva dell’equazione, basata su un rapporto del Comando Sud dell’esercito degli Stati Uniti, tra mapuche e terrorista. Testimonianze false, utilizzate dai media per spostare l’attenzione dalle responsabilità della Gendarmeria e del governo verso improbabili piste nascoste, sono state all’ordine del giorno in quei mesi in Argentina. E ci dicono molto di più sul potere, disposto a mentire e proteggere i suoi carnefici fino alla fine, fino alla copertura e addirittura alle promozioni per i responsabili. Dinamiche ben conosciute anche in Italia, basti pensare a Genova 2001. Infine, le dichiarazioni di un giornalista che, in diretta durante un dibattito televisivo argentino, si chiede: «E se non fossero stati i gendarmi a ucciderlo, ma gli stessi mapuche?».

Un sorriso beffardo si scorge in quella faccia al servizio del depistaggio, dell’impunità e della disinformazione. Lo stesso ghigno sul volto di Elisa Carrió, parlamentare della (ormai ex) maggioranza di governo, che afferma in prima serata in diretta televisiva, senza alcuna prova, che «c’è il venti per cento di possibilità che Santiago sia scappato in Cile». Lo stesso ghigno che appare sulla faccia di Luciano Benetton quando, incalzato da un giornalista italiano, Parsifal Reparato, che mostra una foto di Santiago durante un evento che il miliardario veneto realizza assieme al fotografo Oliviero Toscani, rimane un momento in silenzio e poi afferma di non conoscerlo, almeno «non personalmente». Il giornalista lo nomina, mostrando davanti alla platea attonita l’immagine del volto che ha fatto il giro del mondo diventando un’icona delle vittime della violenza di Stato. Con il ghigno di chi sa di avere dalla sua l’impunità, Benetton dice di «attendere risposte dalle indagini della polizia». Non ha parole da dire alla madre di Santiago, come gli viene richiesto dal giornalista. Solo uno sguardo incredulo e un farfugliare senza senso di Toscani attorno alle parole legalità e proprietà. Che significano impunità e sopraffazione, in Patagonia come altrove.

 

Il documentario ricostruisce passo dopo passo queste vicende, raccontando la storia di Santiago Maldonado assieme a quella della comunità mapuche, assieme a quella storia collettiva di lotta che non è mai finita, perché i responsabili sono ancora liberi e impuniti.

 

Perché finché non ci sarà verità e giustizia, queste domande continueranno a risuonare, perché il volto di Santiago rimarrà per sempre simbolo della solidarietà e della violenza dello Stato. Così come quello del diciannovenne Rafael Nahuel, comunero mapuche assassinato dai corpi speciali antiterrorismo, colpito alle spalle mentre fuggiva nel bosco proprio nelle stesse ore in cui si celebravano, a qualche centinaio di chilometri di distanza, i funerali di Santiago. Sono immagini finali del documentario queste.

Alla fine si ripete una domanda ancora senza risposte: «Qual è il cammino di Santiago? È la storia di un ragazzo desaparecido e ucciso perché solidale con le lotte dei mapuche, oppure l’inizio di una fase ancora più repressiva in Argentina?».

Intanto in America Latina, nelle giornate convulse di queste ultime settimane, tra le insurrezioni in Ecuador, Haiti e Cile e il golpe in Bolivia, assieme a decine di morti colpiti da armi da fuoco di forze militari e di polizia, ancora una volta si contano decine di desaparecidos. Volti, nomi e storie di giovani ragazzi e ragazze che lottano contro la violenza di Stato, la povertà e la miseria che il neoliberismo impone a milioni e milioni di persone nel mondo. Il cammino di Santiago è il cammino di un ragazzo come tanti e tante di noi, un ragazzo di ventotto anni desideroso di conoscere e sostenere le lotte indigene perché siano possibili altri modi di vita in questo pianeta. Santiago: uno di noi. Per sempre.

 

 

Distribuito da Antropica, il documentario argentino conta con una importante partecipazione italiana. La troupe dell’unità italiana: Regia e giornalista Parsifal Reparato; operatore video: Federico Schiavi; suono in presa diretta: Roberto Colella. Sottotitoli di Emma Ferulano.