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Cambia il sindaco a Istanbul, doppia battuta d’arresto per Erdoğan

Un’intervista a Serena Tarabini sulla vittoria a Istanbul di Imamoğlu, candidato dell’opposizione a Erdoğan. La sconfitta del presidente turco, che aveva chiesto di rifare le elezioni, apre una breccia nel futuro della Turchia

Cosa significa, rispetto alla situazione politica turca, l’elezione del nuovo sindaco di Istanbul Imamoğlu?

Il cambio di governo a Istanbul ha delle implicazioni politiche che vanno ben oltre l’amministrazione della singola città. È un cambio di segno significativo perché per un quarto di secolo la città è stata governata dal partito opposto, conservatore e religioso, l’attuale AKP (e i partiti da cui deriva).

Istanbul non è una città qualunque, Istanbul ha un enorme peso simbolico, economico e politico. È la città vetrina dove ogni cosa che accade diventa dominio pubblico nazionale e dove si mostrano le tendenze del paese anche se non è la capitale. Erdoğan è stato sindaco di Istanbul per 2 mandati e grazie ad una amministrazione “energica” che ne ha aumentato l’efficienza gestionale è riuscito ad avere un trampolino che lo ha lanciato verso la politica nazionale. Perdere la città che ha dato inizio alla sua carriera ha un peso enorme.

Inoltre ha un peso economico. È la città più grande della Turchia, con i suoi 16 milioni di abitanti e il suo PIL che è due terzi di quello del paese. Si concentrano a Istanbul turismo, industrie, cultura e centri della finanza. Il giro di affari è di un certo peso e visto che il finanziamento pubblico dei partiti è consentito, perdere la città vuol dire anche perdere il supporto economico di settori significativi della società turca. Infine c’è un peso politico, come riconoscono le parole dello stesso Erdoğan «Chi governa a Istanbul governa il paese». Si può dire che ciò che avviene a Istanbul rappresenta la faccia della Turchia.

 

Puoi fare un identikit di questo nuovo sindaco della metropoli sul Bosforo?

Ekrem Imamoğlu ha 49 anni e non è uno sconosciuto né a Istanbul né in Turchia. È stato un minisindaco della città con la amministrazione di una municipalità. Appartiene al partito repubblicano il GHP. Non fa mistero di essere un credente, si è fatto ritrarre durante la campagna elettorale mentre faceva L’ifṭār, la preghiera di interruzione serale del Ramadan. Non è un rivoluzionario ma appartiene alla generazione politica più giovane nella quale il suo partito sta investendo, mettendo da parte quella generazione di vecchi che non riusciva ad affrontare Erdoğan.

I toni della campagna di Imamoğlu rappresentano una nuova strategia che è estremamente nuova per tutta la politica turca. Il partito sta investendo su una retorica opposta a quella dell’ AKP. Nei suoi discorsi mette da parte aggressività e odio, per portare invece messaggi inclusivi, toni pacati, rifiutando l’attacco frontale. Lo slogan sotto cui si riassume la sua campagna è “l’amore radicale”. Le folle dei suoi comizi oceanici, le mani delle persone si sollevavano a forme di cuore simbolo della sua campagna elettorale

Per questo risultato bisogna riconoscere il merito dell’opposizione tutta, non solo quella di Imamoğlu ma anche quella di Kemal Kılıçdaroğlu, leader del partito. Insieme hanno inventato una retorica politica nuova radicalmente differente che è riuscita vincente.

Non è scontato che un partito storicamente di orgoglio nazionalista come il CHP (inizialmente fondato da Ataturk) lanci messaggi di inclusione e diversità, è un passaggio rivoluzionario. Bisogna vedere se regge. Le sue componenti sono diverse, bisogna capire se è disposto a lasciare indietro la sua componente nazionalistica per farne vincere invece una inclusiva ed ecumenica.

 

Come si può spiegare l’errore di calcolo gigantesco compiuto da Erdoğan?

Non è facile dare una risposta univoca a questa domanda. Ricordiamo da dove siamo partiti. Il risultato del 31 marzo vedeva Istanbul persa per 13 mila voti. Il suo calcolo sarà stato un semplice «Non mi posso permettere di perderla». Probabilmente il calcolo politico però non basta, ci deve essere stata pure l’emotività. Ha pertanto deciso che visti i pochi voti da recuperare si sarebbe potuto fare una forzatura grazie al controllo quasi totale dei mezzi di informazione e alla possibilità di intimidire e influenzare i corpi dello stato. Questo si è poi tradotto nella scelta della Suprema Corte Elettorale di ripetere le elezioni per “irregolarità”.  Il gioco non ha funzionato perché la forzatura ha suscitato indignazione generale. Dentro il suo stesso partito è stato espresso malcontento, dall’ex presidente Gϋl all’ex primo ministro Çavusoğlu. Erdoğan si è trovato più solo di altre volte in questa battaglia.

Dall’altra parte c’è stata la crescita progressiva di Imamoğlu sostenuto da parte di tutta l’opposizione.

La campagna elettorale è stata gestita con speranza, convinti del consenso che si sarebbe potuto ottenere. È stata fatta porta a porta, usando il contatto con le persone, e usando in modo intelligente i social, che sono fondamentali in un paese dove il 90% dei mezzi di informazione è detenuto dal governo.

Queste elezioni per la Turchia erano un bivio, o accettare la degenerazione dittatoriale totale o aprire uno spiraglio di democrazia. La riconvocazione delle elezioni non era mai avvenuta nella storia. Se Erdoğan avesse vinto avrebbe dimostrato che la sua capacità di determinare le elezioni era senza appello.

I tentativi di controllare il voto ci sono stati, ad esempio, tutti i lavoratori dei seggi dove ha vinto la opposizione sono stati interrogati. C’è stata però una prova di tenuta democratica del paese.

 

Quali segnali questa elezione offre a tutta la Turchia?

È un chiaro segnale di indebolimento per Erdoğan ma non si sa quali saranno le conseguenze.

Ci sarà un riarraggiamento dentro l’AKP dato da correnti differenti. Una possibilità è che il partito si frantumi. Questo non significa necessariamente avere un futuro radioso. La componente di destra e nazionalista esiste in modo significativo in Turchia e potrebbe ricomporsi. Quello in cui si può invece sperare è una dinamicizzazione del panorama politico turco i cui effetti concreti, a meno che non si arrivi ad una rottura del governo, non si vedranno prima delle elezioni (tra 4 anni).

Non dimentichiamo che sistema c’è al governo. Erdoğan ha il potere plenipotenziario, legislativo, esecutivo e giudiziario, il parlamento ha poteri limitati. Da qui a 4 anni per possibilità di cambiare questo stato delle cose sono minime.