MONDO

Bloccare e trasformare: l’8M e lo sciopero globale delle donne

Una riflessione dall’Argentina sul nesso tra pratica dello sciopero e movimento femminista. A poche ore da un’interruzione globale del lavoro che porterà in piazza milioni di donne

#NosotrasParamos è la voce collettiva che costruisce l’internazionalismo a partire dallo sciopero delle donne del prossimo 8 marzo. Trasversalità, alleanze e trasformazione in tempi di grande forza e al tempo stesso di tante pessime notizie: la femminilizzazione della povertà aumenta, non si fermano i femminicidi e la visibilizzazione dei casi di abuso dimostra come l’impunità sia sempre stata la norma.

Lo sciopero internazionale delle donne del 2018 torna a consegnare a tutte la posibilità di un nuovo appuntamento, di un punto di incontro dove convergono esperienze, militanze, spazi comunitari, assemblee, rivendicazioni e desideri. Lo sciopero esprime, un’altra volta, un orizzonte organizzativo qui ed ora, costruito dal basso: in quanto azione che ha ridato forza all’ampio movimento delle donne, trans, lesbiche e travestite dal 2016 in Polonia e in Argentina, non ha mai smesso di crescere, divenitare più ampio e diversificato. In America Latina e nel Caribe la sua forza si esprime sempre come lutto e come lotta: in marzo ricordiamo un nuovo anniversario dell’assassinio di Berta Caceres che oggi continua a vivere anche nelle lotte in Honduras contro il nuovo governo di Hernandez e ricordiamo anche le bambine morte nella casa in Guatemala, i cui nomi risuonano nella campagna globale #NosDuelenLas56. Nel 2017 abbiamo scioperato in 55 paesi riconsegnando all’8M la sua memoria operaia, unendo i nostri corpi a quelli delle lavoratrici tessili di tutti i tempi, con una memoria insorgente che si costituisce nelle resistenze quotidiane. Abbiamo preso in mano la data di un calendario che voleva trasformarla in un rituale malinconico e formale. Attraverso lo sciopero abbiamo rivoluzionato la nostra pratica come movimento trasfrormando contemporaneamente lo strumento stesso dello sciopero, classicamente associato solo al mondo operaio, maschio e del lavoro salariato. Perché?

  • Perché lo sciopero ci ha dato la possibilità di mettere in pratica la trasversalità, di poter essere parte di un atto di forza organizzato in comune a partire dalle diverse situazioni che viviamo come donne, lesbiche, trans e travestiti. Per quanto riguarda il movimento femminista, scioperare non è solamente lasciare il lavoro o assentarsi, ma piuttosto sospendere, bloccare e sabotare tutte quelle attività che storicamente sono state assegnate ai corpi femminizzati, in modo quasi sempre invisibilizzato, non pagato o mal pagato. Attività che generalmente vengono disprezzate politicamente ma che rappresentano la base della riproduzione della società nel suo insieme.
  • Perché lo sciopero ci permette questa doppia dimensione: bloccare e trasformare. Non si tratta di un’azione solamente negativa. Piuttosto, a partire dall’azione di scioperare, la domanda attorno al cosa fare diventa più ricca, più importante e collettiva. Vogliamo cambiare tutto, abbiamo detto. In che modo costruiamo concretamente questa trasformazione a partire dalla pratica?

Come segnala Silvia Federici in un video lanciato dal collettivo Ni Una Menos: “Scioperare non significa solamente interrompere certe attività lavorative, ma piuttosto impegnarsi in attività che hanno a che vedere con la trasformazione, che ci portano in una certa forma al di là delle occupazioni di routine e della vita quotidiana, attività che contengono in sé altre possibilità”.

https://www.facebook.com/NUMArgentina/videos/771845543006630/

  • Perché lo sciopero è stato anche la chiave di connessione tra paesi e regioni, su scale differenti danto una materialità allo spazio globale.Una connessione territoriale che significa innazitutto connessione delle lotte. Ma anche una connessione di temporalità: tempi delle ore di sciopero, tempi di insorgenza che eccedono le ore di sciopero, tempi di organizzazione che costruiscono lo sciopero, tempi personali e collettivi, tempi gennerazionali e di differenti lotte storiche e tempi per riflettere su come continuare ad alimentare la marea di femminismi. Per questo è una connessione di temporalità che significa connessioni tra storie eterogenee. Così, lo sciopero è differenza e connessione. Perché contiene e si nutre della molteplicità di tempi e territori (dei nostri lavori ed attività, situazioni di vita, esperienze, organizzazione e rivendicazioni) e contemporaneamente le connette su uno stesso piano, dove la differenza non è frammentazione, ma piuttosto una forza costituente di quel che abbiamo in comune.
  • Perché lo sciopero si rafforza in quanto processo internazionale, transnazionale. Tra una data e l’altra non vi sono stati tempi morti, di attesa tra eventi: abbiamo visto dispiegarsi un processo di accumulazione di forza, di mobilitazioni, di incontri, di battaglie, di campagne, di sfide e di disobbedienza Abbiamo anche notato il peggioramento delle condizioni delle nostre vite. Come hanno appena scritto le femministe nord americane del 99% – come Angela Davis, Nancy Fraser y Keeanga-Yamahtta Taylor, tra le tante firme – occorre denunciare concretamente cosa ha significato il primo anno di governo Trump e al tempo stesso valorizzare il divenire virale delle campagne #MeToo, #UsToo e #TimesUp contro gli abusi. Queste testimonianze, e le loro proliferazioni, sono state capaci di andare oltre l’enunciazione personale. Risulta inoltre fondamentale segnalare – come argomentato dalle stesse – che la violenza razzializzata è internazionale e che dunque, per lo stesso motivo, deve esserla anche la campagna globale che vi si oppone. Così come va denunciato che la violenza nei campus universitari ha dalla sua parte, a sostegno dell’insabbiamento degli abusi, tutto l’apparato legale. Del resto, si tratta dello stesso Stato che finanzia Israele contro la militante Ahed Tamini e che arresta e manda in carcere soprattutto donne afroamericane.
  • Perché costruiamo una voce collettiva che insiste e persiste #NosotrasParamos. Come esprimono in modo molto chiaro le compagne degli Stati Uniti in questo testo, la voce collettiva prende forza nella misura in cui denunciamo e connettiamo il silenzio sugli abusi con gli abusi nei luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle carceri e alle frontiere. Inoltre, questo processo lo costruiamo con alleanze concrete che si mettono in cammino qui e là dando vita a nuovi scenari di coalizioni che sono già in opera. Per esempio, quando a New York è stata lanciata la giornata di sciopero, erano stati fatti volantinaggi durante la Women’s March e al lancio dello sciopero hanno partecipato, tra le tante, Jeannette Vizguerra, militante migrante che ha ottenuto il modo di evitare la deportazione, Lamis Deek, attivista palestinese e avvocata dei diritti umani, María Inés Orjuela, lavoratrice dell’ Hotel Hilton, dove hanno appena organizzato un sindacato e Farah Tanis, fondatrice dell’organizzazione Black Women’s Blueprint.
  • Lo sciopero diventa così un modo di connetterci tra noi, uno strumento collettivo che ci permette di renderci conto che scioperare significa abilitare socialmente le condizioni per cui tutte possiamo scioperare e raccontare cosa questo, a partire da ogni differente situazione concreta, significa reinventare lo sciopero. Da queste ispirazioni e risonanze globali, abbiamo saputo che il movimento delle donne del Kurdistan ha lanciato la campagna dello Sciopero Internazionale delle donne in tutti i suoi territori, divisi tra Iran, Iraq, Siria e Turchia. Lo fanno mentre la città di Afrin viene bombardata dallo Stato turco. Anche lì dicono Ni Una Menos. Sappiamo che non siamo sole quando in ogni territorio si reiventa e si sperimenta questo grido comune che ci rende più forti: Vivas y Libres Nos Queremos!

Pubblicato sul settimanale La 12 e sul blog LoboSuelto

Traduzione a cura di DINAMOpress