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Blade Runner 2049

Una festa per gli occhi che però non scalda il cuore e non accende la mente . Blade Runner 2049 è un sequel di tutto rispetto, ma non un cult movie. Lo spettacolo c’è ma non si fa mito.

La fantascienza crea mondi immaginari che richiedono compattezza grafica per conferire plausibilità. Inoltre informa, attraverso l’espediente utopico o distopico, su contraddizioni e tendenze del presente. Vecchia storia.

Sul primo piano, BR 2049 di Denis Villeneuve funziona, grazie anche allo straordinario contributo della fotografia di Roger Deakins e alla performance “paesaggistica” di Ryan Gosling – uno studio sul volto impassibile zero-emotions e lo strabismo, non lasciatevi ingannare dal vigore gestuale delle zuffe. Si spalmano campiture a tono dominante bianco-argento, rosso-sabbia o grigio-blu, come nei precedenti Polytechnique e Arrival, preferenze per il fioccare di neve (ancora Polytechnique in b/n) piuttosto che per la pioggia livida, pur non assente, del primo BR, ci si inerpica fra le macerie di San Diego come fra quelle libanesi in La donna che canta: Villeneuve non è mai banale nelle sue soluzioni figurative e ha tempi dilatati ma quasi sempre giusti (esita per farci assorbire), il sottofondo Dolby fa sussultare, ma resta qualcosa di irrisolto nel suo rapporto con le storie che narra, come se sul più bello scivolasse e mancasse la presa.

Osserviamo di sfuggita – citando le fonti – che lo sperimentalismo di Refn è più “sensato” nell’uso del monocromo e di Gosling. E non parliamo del bianco finale domestico-amniotico dell’Odissea kubrickiana. Ma sul piano della generazione mitopoietica di immaginario gira a vuoto: Ridley Scott ci era riuscito (una volta solo) prefigurando una metropoli meticcia da incubo. Villeneuve tenta di descrivercene il declino. Eccellente progetto.

Nel nostro caso – trattandosi pur sempre di uno spin-off del film di Ridley Scott, che qui figura come produttore – il confronto con il mito è però impietoso. Pur facendo la tara sull’equivoco edipico, lo straordinario ritorno di Harrison Ford come cacciatore Deckard in clandestinità a Las Vegas e la fuggevole citazione di Sean Young-Rachael schiacciano l’anoressico universo del 2049, anche se gli dànno una sferzata d’energia, mettendo finalmente in scena le acque turbolente dell’oceano che sta sommergendo le coste americane come il black-out del 2022 ha distrutto le memorie digitali e restituito consistenza alle tracce scritte. La rivolta dei Nexus 6 e 8, che non si rassegnavano alla scadenza, è stata schiacciata e, dopo il fallimento della Tyrell, il nuovo inventore Wallace ha costruito una serie di replicanti Nexus 9 docili e acquiescenti alla loro condizione servile e precaria  – un po’ come l’Inps, dopo aver temuto contraccolpi di rivolta all’invio delle “buste arancioni” che simulavano il misero trattamento ai futuri pensionati, ha manipolato e addolcito le previsioni sulla base di indici irrealistici di retribuzione e continuità lavorativa.

In un mondo impoverito, minacciato dall’innalzamento del livello delle acque, da catastrofi atomiche e da carestie (Wallace è anche un mago delle culture in serra e della produzione artificiale di proteine) la caccia agli umanoidi refrattari è ridotta a casi residuali, ma i nuovi replicanti (e perfino i braccatori di vecchi robot devianti) hanno ancora qualche prurito. Perfino gli ologrammi desiderano diventare umani, fino al punto di inserirsi in complicati rapporti sessuali a tre fra replicanti e umani, secondo una sindrome da Cristo che si incarna (redimendo il mondo) o di Pinocchio che vuole “salire” da artefatto a bambino “nato”, suscitando l’intervento dei carabinieri (allora) e della Lapd losangeleña nel 2049. L’agente K si lascia volentieri ribattezzare Joe dalla sex-toy ologrammatica, che vuole assolutamente dargli (e darsi) un’anima e un orgasmo personalizzato.

Figuriamoci che succede quando Gosling scopre per caso, in una delle sue missioni di cleaning (direbbe il prefetto di Roma per analogia con i rifugiati) che due replicanti Nexus hanno generato una coppia di gemelli. Problematica esistenziale e organizzazione di una rivolta fra vecchi e nuovi precari (reduci del ‘77 e Millennials) non si amalgamano però bene e la conclusione è deludente quanto rassegnata, neutra come la neve o la cupola sterile. Resta la retorica “umanista” dei cavallini di “vero” legno (che peraltro ricalcano gli inquietanti origami del primo film), la discussione molto dickiana sui falsi ricordi innestati (altro che le fake news di cui ora si blatera), la riproduzione come segno qualificante antropico (la vogliono pure lo scienziato-magnate Wallace e il suo “angelo” Luv, per completare le loro smanie prometeiche di “creazione”).

La rivolta degli schiavi resta un progetto marginale con una leader improbabile e l’agente K va per la sua strada. Forse neppure si salverà.

Magari questo sconforto è il tratto più attuale per una condizione post-rivoluzionaria. Deckard e Rachael forse ce la facevano, forse no (i due finali del primo Blade Runner), ma ci avevano provato a fuggire con la navicella. Nel 2049 ci si accontenta di toccare del vero legno, di raccogliere la neve nelle palme delle mani. Di constatare infelicità e fallimento dei vincitori; concediamolo. Rischiamo di ripetere collettivamente il grido di speranza e dubbio di un personaggio di Philip K. Dick: «Eppure, se una sola persona, anche una sola, trova la sua via… ciò significa che c’è una Via. Anche se io personalmente non riesco a trovarla». Insomma, andatelo a vedere e poi parliamone.