MONDO

Tre scene di violenza contro le donne in Argentina

Violenze per abbandono, per impotenza, per oblìo, mentre si prepara un nuovo sciopero delle donne dopo la sentenza patriarcale per il femminicidio di Lucia Perez.

Violenze I

Chi è questa ragazza? È Agustina, una bambina wichi (popolazione indigena del nord dell’Argentina) morta a 13 anni i primi giorni di novembre, mese di azioni contro la violenza verso le donne. È arrivata in ospedale con anemia, denutrizione cronica e polmonite. E incinta di 30 settimane.

Questa ragazza era da sola. Sola di famiglia, perché sua madre era morta l’anno prima e non aveva mai avuto un padre. Sola, perché il ragazzo di 19 anni con il quale viveva non è mai andato a trovarla ed è da questa relazione prematura che viene la maternità. Questa ragazza era sola, perché lo Stato le ha negato il diritto a tutto.

Le è toccato nascere a El Sauzal [Piccola località nella provincia del Chaco nel nord dell’Argentina – ndt], zona senza strade né acqua potabile e senza medici, eccezion fatta per un presidio sanitario attivo solo ogni due settimane. Non andava a scuola e non ha mai partecipato all’Educazione Sessuale Integrale [ESI – progetto di educazione sessuale e di genere nelle scuole argentine – ndt]. Non aveva accesso ad alcun servizio sanitario e nessuno le disse che aveva i requisiti per accedere al diritto ad un’interruzione volontaria di gravidanza (ILE) [Interrupción Legal del Embarazo, Interruzione Legale della Gravidanza – protocollo del Ministero della Salute argentino per le interruzioni di gravidanza – ndt]

 

L’indifferenza genera impotenza, e una ragazza wichì dell’Impenetrabile del Chaco è destinata all’indifferenza perché nessuno la vede.

 

Lo Stato è responsabile. Lo Stato nega di tutto alle bambine delle comunità indigene. L’unica porta aperta del servizio sanitario è la maternità. Perché per i ragazzi lo Stato si manifesta con il sistema penale, mentre per le ragazze il controllo sociale più efficace sembra essere la maternità. Una maternità non pianificata, prematura, adolescenziale, non desiderata, in condizioni con costi vitali di varia natura, compresa quella letterale del termine. In questo caso, il costo è stato di due vite. Però a chi importa. Nessuno sa chi sia né dove si trovi questo posto che dicono così inospitale.

Chi è questa ragazza? È Augustina, ed è morta di morte violenta come violente sono tutte le morti premature e inattese. Una morte per abbandono è violenta. È morta cinque giorni dopo che le era stato praticato un cesareo d’urgenza a seguito del peggioramento delle condizioni di salute della madre e del feto. Il suo bambino è morto due ore dopo essere nato: fortemente prematuro, non raggiungeva il chilo di peso.

Nel paese, ogni anno 3.000 bambine sotto i 15 anni hanno un figlio o una figlia. I dati ci indicano come delle 10.000 gravidanze di adolescenti tra i 15 e i 19 anni, sette su dieci non siano intenzionali, che otto gravidanze su dieci di bambine minori di 15 anni non siano intenzionali, e che la maggioranza siano conseguenza di situazioni di abuso sessuale e stupro.

 

 

Violenze II

Il Nordelta [quartiere benestante nella zona laguanre dell’estuario del fiume Lujàn, al nord di Buenos Aires – ndt] è il quartiere privato più costoso dell’Argentina. Ci vivono più di 35.000 persone e ogni giorno ne entrano 10.000 per lavorare. La maggiora parte di queste viene da Las Tunas, un quartiere periferico senza fognature che si allaga ogni volta che ci sono forti piogge visto che Nordelta chiude i canali e scarica acqua e immondizia.

A Nordelta, il quartiere dei famosi, degli imprenditori, dei funzionari e anche dei narcotrafficanti, lavorano 8.000 collaboratrici domestiche e la metà lavora in nero. Lavoratrici disponibili e multiuso che si fanno carico di ogni tipo di servizio perché ottengono poco con la classificazione del lavoro per tipo di mansione.

 

Il lavoro domestico e di cura è invisibile e illimitato, è mal retribuito ed è accompagnato da maltrattamenti. E soprattutto è un lavoro di donne, in questo caso donne ricche che lo terziarizzano a donne dei ceti popolari.

 

Abbiamo saputo da poco che a questa situazione di sfruttamento lavorativo si è aggiunto il disprezzo: alcuni proprietari hanno cominciato a fare pressioni affinché le combis [furgoncini usati per il trasporto pubblico e privato – ndt] che girano per il quartiere smettano di far salire le lavoratrici «a causa del loro odore e perché non la smettono di parlare a macchinetta». Stanche e davanti all’evidenza che le combi non si fermavano, hanno deciso di bloccare una strada.

«Non stiamo più zitte!», dice la portavoce impegnata nel raccontare la discriminazione di cui sono vittime centinaia di donne lavoratrici. Senza nascondere le proteste per tanta umiliazione e malgrado la paura che la porta ausare un nome fittizio per parlare e le impedisce di formalizzare una denuncia. Se i padroni lo venissero a sapere, la caccerebbero. Finora, il sindacato non si è fatto vedere e il suo segretario (un uomo, nonostante quasi il 100% dei lavoratori sia donna) si è limitato a rilasciare una dichiarazione in rete dopo che la discriminazione era ormai diventata di pubblico dominio.

Sono discriminate anche da parte dello Stato. Il governo di Cambiemos [coalizione politica dell’attuale Presidente dell’Argentina, Mauricio Macri – ndt] ha annunciato un buono di 5.000$ per attenuare la caduta dei consumi, che però non si applica a chi lavora in abitazioni private. Il 98% dei collaboratori domestici sono donne, e di queste il 57% sono lavoratrici non registrate.

Ci raccontano di come vadano a lavorare quando sono malate e che spesso devono lasciare i propri figli malati alle cure dei vicini perché sono pagate a giornata, non vengono mai credute e sono tacciate di pigrizia. Dicono che in molte case passano fino a dodici ore senza mangiare né bere perché non le danno nulla e che alcune abbiano dei rimborsi per le spese di viaggio e altre no, però le combi sono molto care ma necessarie viste le grandi distanze. Raccontano come anche le proprie figlie, spesso impiegate come cameriere o commesse nella zona commerciale, vengano maltrattate. Il disprezzo è all’ordine del giorno.

 

 

Violenze III

«Non stiamo mai più zitte!», dicono le ragazze nelle scuole, le nostre compagne nel mondo del lavoro e le militanti delle organizzazioni sociali. Quindi, quello che prima passava inosservato, nonostante il malessere che ci causavano questi comportamenti che terminavano di solito in una presa di distanze silenziosa da parte delle donne per evitare il costo di denunciare quello che succedeva (dequalificazione, censura, infantilismo, maltrattamenti, ostacoli alla partecipazione, molestie sessuali), comincia ad essere denunciato.

Parlarne in contesti di fiducia, nominare le violenze infastidendo e generando processi pedagogici nuovi e dandoci da fare per interrogare le nostre stesse organizzazioni, è una forma con cui chiamiamo in causa noi stesse e le forme con cui ci relazioniamo e mettiamo in discussione o meno l’ordine costituito.

Nei diversi ambiti attraversati dalle donne si sta pensando come affrontare le violenze che continuano ancora ad essere parte della nostra vita quotidiana. Quindi discutiamo di metodologie nelle riunioni interne, nelle facoltà e nelle scuole. Andiamo avanti in questo processo, assumendoci la responsabilità di rafforzare gli spazi di fiducia così come le strategie di formazione e di presa di coscienza sulle violenze machiste. Pensando, interrogandoci e creando possibili risposte come organizzazione. È un processo già avviato.

 

Tuttavia, dire basta ed esporre le violenze che subiamo ai nostri compagni continua a essere oneroso per noi. Continuiamo a passare per pazze, a doverci confrontare con forme più o meno sottili di disciplinamento e a doverci fare da parte come forma di tutela personale. Però non siamo più sole e invisibili.

 

Anche i maschi hanno iniziato un percorso, perché iniziano a capire che la mascolinità all’interno della quale sono stati cresciuti ci danneggia o perché si rendono conto che si sono varcati i limiti della decenza. Rimane da verificare quanto di questa trasformazione che stiamo costruendo, partita dai femminismi popolari, riesca ad intaccare le strutture istituzionali di matrice patriarcale e come fare affinché questo sogno emancipatore delle nostre organizzazioni includa ogni emancipazione della donna, oltre a farci trasformaretutte e tutti lungo il cammino.

Perché non lottiamo contro gli uomini ma contro i machismi. Perché non vogliamo incarichi ma poter parlare del potere e ripensare le forme di esercizio e costruzione di tale potere per riuscire a trasformarlo. Per questo difenderemo la nostra partecipazione, proporremo le modalità femministe di fare politica che abbiamo appreso, ci interrogheremo su quanto abbiamo ancora di machista e continueremo a costruire strategie per ribaltare la situazione. Perché ci vogliamo vive e libere.

 

L’autrice è segretaria per la questione di Genere e le Pari Opportunità del sindicato CTA Autónoma Capital. Lavoratrice dell’Infanzia e membro della rete Infanzia e Territorio.
(CTA. Central de Trabajadores de la Argentina – Centrale dei Lavoratori dell’Argentina, confederazione sindacale argentina – ndt)

Pubblicato su Canal Abierto in occasione del 25 novembre, giornata internazionale di lotta contro la violenza sulle donne.

Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress.