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ITALIA
Assemblea in Val Susa: «Resistere alla guerra per pretendere una trasformazione radicale»
Provare a costruire una mobilitazione non rituale che sia all’altezza di uno scenario radicalmente peggiorato, questo è l’intento che ha portato a promuovere una assemblea nazionale in Val di Susa a fine luglio. Nell’intervista le soggettività promotrici spiegano il percorso che ha condotto alla convocazione
Una gruppo di soggetti diversi ha lanciato la proposta di una assemblea nazionale a Venaus il 27 luglio, dal nome “Guerra alla guerra” nell’ambito del tradizionale Festival ad Alta Felicità. Abbiamo intervistato un gruppo di compagnx che hanno scritto il documento di invito per comprendere quali analisi abbiano portato alla convocazione di quella assemblea e quali prospettive immaginino per l’autunno.
Qual è stato il percorso che vi ha portat3 a scrivere il documento “Guerra alla guerra” e a convocare l’assemblea in Valsusa per il 27 luglio?
L’idea di convocare l’assemblea in Valsusa del 27 luglio è nata all’interno di un dibattito che va avanti da mesi fra i collettivi studenteschi che nelle università, da Cosenza a Torino, da Milano a Roma, hanno animato le intifada studentesche, fra le realtà politiche che si muovono all’interno delle periferie, come quella del Quarticciolo, fra chi fa lavoro politico nelle battaglie territoriali contro le grandi opere e costruisce forme di rifiuto della guerra nelle metropoli lungo tutta la penisola. Ma lo spazio che abbiamo immaginato vuole essere di tutt3 non solo di chi ha pensato di convocare l’assemblea. Vuole essere uno spazio di incontro dove esplicitare degli interrogativi collettivi che in questa fase di accelerazioni internazionali spesso non trovano spazio e tempo per essere dibattuti.
Non ce lo nascondiamo. Sarà un incontro tra militanti di organizzazioni politiche. Da questo punto di vista è piuttosto un momento che proverà a individuare le domande giuste e condivise per aprire un percorso più che presentare una ricetta per far fronte all’impotenza collettiva dell’escalation della guerra. Non vogliamo rappresentare la paura che ci assale quando pensiamo allo stato di guerra interna ed esterna ai nostri paesi, non vogliamo rappresentare un movimento e un conflitto che non c’è, non vogliamo essere mossi solo dall’urgenza di cambiare le cose in questa fase storica. L’urgenza/l’emergenza sembra essere una costante da diverso tempo ed è il dispositivo tramite il quale vengono applicate leggi di austerità o che aumentano il controllo sulle persone e i territori. Non vogliamo neanche sostituirci a tutte quelle forze più o meno organizzate che hanno, finora, creato degli spazi di dibattito e mobilitazione contro il riarmo dell’Italia e dell’Europa.
Vogliamo innescare – a partire dalle lotte significative, per quanto parziali, esistenti oggi in vari territori – un processo di convergenza che metta a disposizione le capacità e i saperi accumulati per stimolare la partecipazione collettiva.
Come si fa e con quali strumenti a innescare un dibattito pubblico sulla guerra? Quale ruolo possiamo avere noi – collocandoci in un Paese occidentale che è complice e artefice dei conflitti internazionali – nel fermare la guerra e chi produce armi e accumula profitti sulla guerra? E quindi – perché non si può pensare all’uno senza l’altro – come mettere in discussione il capitalismo e le democrazie al suo servizio?
Sembra sotteso al vostro documento la necessità di allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico, ma sente l’urgenza oggi di agire contro la guerra. Come si possono raggiungere queste persone oggi? Con quali strumenti e quali linguaggi? Evitando quali errori del passato?
È proprio questo il nodo ma parlare di errori forse è fuorviante. Spesso riproduciamo schemi e proposte che non sono all’altezza della fase storica. Proponiamo ritualità. Se vogliamo essere del tutto onesti anche l’assemblea convocata in Val di Susa potrebbe sembrare una ritualità ma siamo felici di venire accolte e accolti nella valle che resiste, una lotta simbolo che appartiene a tutti e tutte, così di lunga durata che è attraversata da giovani e meno giovani, che ci ha insegnato come metodo la condivisione di un obiettivo comune. Inoltre, è anche l’emblema della guerra a bassa intensità che lo Stato porta avanti sui territori “sacrificabili”. Nonostante la documentata inutilità dell’opera, quello che si vuole piegare è la forza che autorganizza un territorio e che vuole decidere del destino delle montagne e della salute di chi vi abita. Pensiamo ci sia bisogno, quindi, non solo di approfondire un dibattito ma di condividere un metodo.
Il paese è cambiato profondamente nel giro di non troppo tempo e quando parliamo di fascistizzazione della società non ci riferiamo solo all’azione politica dell’estrema destra di Governo. Ci riferiamo al fatto che la società civile nell’ipermodernità ha posizione conservatrici, oscurantiste, dietrologiche e la ragione principale di questa postura è che è aumentata vertiginosamente la competizione, l’individualismo, il carrierismo, il consumo di merci e affetti: l’effetto sulle nostre vite del capitalismo avanzato. Eventi tragici così come la pandemia da Covid-19 e il genocidio in Palestina hanno spezzato questa quotidianità e molte persone si chiedono qual è lo scopo della loro messa a valore, per quale motivo, per quale paese e quale società si svegliano la mattina per andare a farsi sfruttare. Per molti, la reazione subito dopo la pandemia è stata quella di fuoriuscire dal mercato del lavoro classico per unirsi a spazi di mutuo aiuto, ad associazioni di solidarietà, per lavorare in organizzazioni internazionali umanitarie, nelle file del cattolicesimo di base. È una militanza anche questa per certi versi. Anche qui la domanda non è «come si fa ad allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico», perché capiamo il senso ma in parte pecca di presunzione. La domanda è come si fa a individuare un orizzonte comune con le migliaia di persone che già si mobilitano nelle forme e nei luoghi diversi da quelli che attraversiamo noi nelle nostre nicchie residuali.
In tanti decidono di mettere a disposizione le proprie capacità là dove hanno la sensazione di poter incidere sul reale. Le mobilitazioni classiche che proponiamo non hanno questo tipo di appeal ormai, questo non vuol dire che non siano necessarie. In questo senso pensiamo che il metodo utilizzato dalle student3 universitari3 sia da approfondire. Mettere in discussione l’utilizzo delle risorse pubbliche per finanziare la ricerca per le industrie delle armi ci sembra una delle poche azioni incisive a sostegno della Palestina che si sono manifestate durante l’anno. Moltissime università hanno aderito al boicottaggio (quindi è stata una lotta riproducibile); molte facoltà hanno deciso di chiudere i rapporti con le università israeliane (è stata una lotta vincente); l’istallazione delle tende ha creato uno spazio di incontro e di dibattito (quindi è stata aggregante). Ovviamente non ci sembra sufficiente. Bisognerebbe, quindi, lavorare su strumenti e pratiche che aprano un dibattito pubblico più che impartire ricette.
Pensiamo a chi lotta contro la devastazione dei territori, a chi lotta contro l’occupazione e l’ampliamento delle basi militari, a chi occupa le fabbriche per ottenere una riconversione in senso ecologico, a chi resiste al Dl Caivano e al Dl Sicurezza nelle periferie, a chi costruisce battaglie per l’aumento dei salari e la riduzione delle ore di lavoro nel comparto della logistica e nelle campagne, a chi organizza gli scioperi, a chi si siede per strada per denunciare le decisioni scellerate dei governi che aumentano le problematiche relative al cambiamento climatico, chi da dieci anni, ormai, scende in piazza come marea contro la violenza di genere. Tutto questo è guerra interna che ha la stessa matrice della guerra esplicita sul territorio russo/ucraino, palestinese, iraniano, pakistano, congolese, purtroppo l’elenco potrebbe continuare. Se il nemico è comune «abbiamo amici dappertutto».

Nel corso di quest’anno ci sono stati soggetti che hanno sottolineato la centralità del nodo della guerra: la Rete Reset che ha organizzato una tre giorni a marzo, la coalizione Stop Rearm Europe che ha convocato il corteo del 21 giugno e la stessa Non Una di Meno che ha posto il tema della guerra come focus di molti cortei nell’ultimo anno. Come immaginate una collaborazione con questi soggetti a partire dai molti punti in comune di analisi?
Immaginate di essere all’interno della serie televisiva Andor, uno spin off di Star Wars, da cui abbiamo estrapolato uno degli slogan per chiamare questa assemblea del 27 luglio. Siamo in una galassia sterminata con centinaia di pianeti. Alcuni di questi hanno già individuato il problema, alcuni resistono all’estrattivismo delle risorse naturali, alcuni si rivoltano nelle carceri, altri utilizzano metodi classici della partecipazione politica, altri fuggono dai loro pianeti in cerca di fortuna, altri vivono nel cuore della bestia. Come facciamo a mettere a sistema i saperi e le capacità di ognuna e ognuno, individui e collettività? Come si fa a scambiare saperi, pratiche, strumenti che spesso rimangono rilegati all’interno di lotte specifiche o di cerchie ristrette? Come si costruisce una radio interplanetaria, come si coinvolge il mondo dello spettacolo in crisi, come si dà voce a chi voce non ha? Come si trovano gli schemi della “morte nera”? Come si coinvolgono le maestranze che li sanno leggere? Come si coinvolgono i piloti che sono in grado di distruggere l’arma che con un solo click può far implodere un pianeta? Più che di collaborazione si tratta di mettere a disposizione strumenti e capacità che già ognuno sperimenta, per un obiettivo comune.
Non crediamo che oggi si possa pensare in termini di dirigenze che guidino o rappresentino qualcuno se questo qualcuno è oggettivamente assente o disperso.
Oggi si tratta di costruire delle infrastrutture che siano in grado di riprodurre saperi e pratiche, che siano in grado di sapere e saper fare, distribuire questo sapere piuttosto che saper dirigere assemblee. Convergere, secondo noi, vuol dire condividere saperi e pratiche piuttosto che generare una sommatoria delle debolezze esistenti oppure creare l’ennesima sigla contro la guerra.
Crediamo che la Rete Reset, Stop Rearm Europe e Non Una di Meno come altri pezzi che si sono mobilitati in questo ultimo anno abbiano diverse di queste caratteristiche da poter condividere senza perdere la propria specificità e la programmazione che già si è data dopo la mobilitazione del 21 giugno.
Nel documento sottolineate quanto il regime di guerra oggi connette un campo di azioni vasto che va dalle Indicazioni nazionali di Valditara fino ai Decreti Sicurezza e all’aumento di spesa per il riarmo. Come si può riuscire, a vostro parere, a evidenziare questa connessione che potenzialmente genera una ampia convergenza tra movimenti?
Come dicevamo pensiamo ci sia una guerra ad alta intensità su alcuni territori del pianeta e una guerra a bassa intensità all’interno dei nostri Paesi che ci aiuta in primis a capire che il capitalismo ciclicamente alterna periodi di pace e di guerra e che questo si esplica su vari livelli e con diversi livelli di intensità nel tempo e nello spazio; in secundis che individuare la radice del problema ci costringe a pensare a un internazionalismo che non è fatto di “solidarietà” ai popoli oppressi ma da pratiche che mirano alla messa in discussione di un unico regime economico e sociale.
Noi non dobbiamo scendere in piazza perché ci dispiace per i morti in Palestina, certo anche, è ovvio, ma perché, come si diceva un tempo, il «Vietnam è qui!». Le deportazioni forzate dell’ICE negli Stati Uniti, le migliaia di morti sulle nostre coste, la violenza che si dispiega nelle nostre strade, la riduzione drastica di servizi sanitari di qualità, lo svuotamento delle strutture educative, la devastazione di intere regioni per metterle al servizio delle basi militari o per estrarre risorse, la turistificazione selvaggia delle città, tutto questo è reale e non è una proiezione. È qui, è oggi.
Le e gli zapatisti ci dicono sempre di non chiedergli come sostenere la loro lotta ma di chiederci come si fa alle nostre latitudini, come si fa a rompere la nostra stessa oppressione nei luoghi in cui viviamo. Questa è la migliore forma di sostegno alle popolazioni oppresse e a quelle che resistono. Poi, come detto nel seguito dell’intervista, vorremmo soffermarci su un altro aspetto. Pensiamo che parlare di resistenza senza affiancargli un’idea di mondo sia problematico perché il mondo com’era prima dell’arrivo della guerra, prima dell’arrivo delle linee guida sulla scuola, prima delle ruspe che devastano la Val di Susa, prima del Dl Sicurezza e del Dl Caivano non ci piaceva così com’era.
Si tratta di resistere ma anche di pretendere una trasformazione radicale. E allora dobbiamo costruire un piano, come ci insegna il movimento transfemminista, e avere però anche l’ambizione di applicarlo per poter forgiare saperi e pratiche e poter vincere delle battaglie. L’azione collettiva deve poter avere dei risultati perché la partecipazione di ognuno non possa essere vana, sul piano materiale e quello immateriale e anche se fosse un piccolo, parziale, microscopico cambiamento rimane un avanzamento. Da questo punto di vista bisognerebbe evitare di cadere nell’errore dei posizionamenti a cui ci costringono. Prima di tutto sono state spesi fiumi di parole sull’uso strumentale della parola terrorismo su cui non ritorneremo qui. In seconda battuta, dovremmo fare attenzione durante le lotte di resistenza e di avanzamento a chiederci che mondo vorremmo costruire, cosa che nel nichilismo dell’impotenza che ha prodotto e ipotizzato la “fine del mondo” ci siamo dimenticati di curare. Ci limitiamo a scegliere in che fazione stare come se avesse un peso nell’economia del mondo la nostra opinione. Forse è il momento di superare queste semplificazioni e queste posture.

Alla fine del documento accennate alla possibilitá di un momento di mobilitazione comune in autunno, e che il percorso per arrivarci si deciderà assieme, ci sono già idee in tal senso?
Superare la frammentazione che abbiamo visto in questi anni è fondamentale. Non perché quello che muove è un desiderio di unità, piuttosto evitare che questa frammentazione possa essere un tappo alla mobilitazione piuttosto che uno stimolo. Il desiderio di unità come quello di organizzazione politica ci sembra fuorviante in questa fase storica. Cosa unisci? Cosa organizzi di fronte a un paese pacificato, dove il conflitto si dispiega in linea orizzontale? Non sappiamo se il 27 sarà la sede giusta dove innescare un dibattito pubblico proficuo, facciamo un tentativo.
Rompere gli schemi può essere un buon punto di partenza. È necessario un momento di mobilitazione comune in autunno? Crediamo di sì. Questo corrisponde a un corteo? A una mobilitazione comune in ogni città? All’istallazione di presidi di discussione nelle università? Non lo sappiamo. Non possiamo però pensarci su un periodo così breve. Se c’è effettivamente qualcosa su cui scommettere nel nostro paese per portare avanti una trasformazione radicale ha bisogno di essere pensata sul lungo periodo, non nell’arco di uno spazio limitato che ricade nella ritualità e nell’emergenzialità di cui sopra. Ci metteremo degli anni per ottenere i risultati che speriamo? Non importa. Oggi è il tempo di curare gli spazi di partecipazione, di aprire un dibattito pubblico serio, di diffondere saperi e pratiche organizzative, di contaminare la società. Fissiamo degli obiettivi comuni su cui lavorare. Sicuramente, pensiamo sia importante contrapporre al riarmo dell’Europa il disarmo dei paesi che possiedono la bomba nucleare, ribadire l’importanza di revocare il memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra l’Unione europea e Israele a partire dall’Italia. Pretendere invece che le risorse pubbliche vengano utilizzate per mettere in sicurezza i territori, pensare a una conversione ecologica delle industrie, investire su educazione, salute e abitare.
Immagine di copertina dal corteo del 21 giugno a Roma, foto Jacopo Clemenzi
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