ITALIA

Alternanza Scuola… sfruttamento

Un’analisi spietata del sistema che sta trasformando le scuole da luoghi della formazione a palestre di precarietà. Ma che può anche aprire alla possibilità di nuove lotte intergenerazionali

L’alternanza scuola lavoro è una delle novità più significative introdotte nel 2015 dalla “Buona Scuola”.
Con questo strumento, secondo il “Miur”, si permetterebbe agli studenti e alle studentesse di sviluppare le proprie competenze, sintonizzarsi con il mondo esterno e avviare un processo di apprendimento e scambio di esperienze che favorisca la comunicazione intergenerazionale. Con questa “rivoluzionaria innovazione” del sistema di apprendimento, la scuola dovrebbe “diventare la più efficace politica strutturale a favore della crescita e della formazione di nuove competenze, contro la disoccupazione e il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro”. Queste le parole del Miur, il quale tiene anche a precisare che il caso italiano sia un unicum europeo: la stessa Germania prevede un’alternanza soltanto per gli istituti tecnico-professionali, la quale a differenza dell’Italia non supera “la divisione tra percorsi di studio fondati sulla conoscenza ed altri che privilegiano l’esperienza pratica”. Tutte belle giustificazioni, quelle del nostro Ministero dell’istruzione, ma che non si reggono in piedi. Infatti, con la legge 107, si è istituzionalizzato un processo di sfruttamento lavorativo che obbliga al lavoro gratuito (un monte di 400 ore l’anno per gli istituti tecnico-professionali e 200 per i licei) e che fa risparmiare alle grandi e già ricchissime aziende (come Zara e McDonald’s) milioni di euro. Per non parlare del fatto che questo strumento, al contrario di quanto sostenuto dal Miur, non implementi né sviluppi le conoscenze pratiche e la capacità degli individui di intrattenere un reale rapporto di lavoro, dignitosamente retribuito e non alienante. La figura dello studente quindi assume una nuova forma, che lega in maniera indissolubile la formazione alla prestazione lavorativa, ma senza diritti e senza retribuzione.

Tante le mobilitazioni studentesche susseguitesi fin dalle prime bozze di scrittura della legge, tante le piazze e le assemblee che hanno messo in luce la pericolosità di un processo che trasforma la scuola da luogo di formazione a palestra di precarietà. Quelle piazze e quelle assemblee ad oggi portano il conto dei danni.

Da ogni intervento, da ogni comunicato, traspare l’assurdità di un progetto da tempo divenuto legge e che non ha nulla a che fare con la formazione dello studente. Giovanissimi mandati per ore a fare fotocopie, spostare fioriere, farcire panini e, in alcuni casi, spalare letame, sono solo alcuni degli esempi (o sarebbe meglio dire scempi) capaci di smontare in toto la propaganda dei Governi Renzi e Gentiloni.

Una legge senza alcun senso, verrebbe da pensare, se non fosse che un senso ce l’ha, eccome! Il fondamento su cui si basa, infatti, è lo stesso che da anni ormai sorregge anche il sistema universitario: l’immediata spendibilità nel mondo del lavoro. Le riforme che da decenni si accaniscono su scuola e università hanno mutato progressivamente le modalità, gli obiettivi e gli strumenti dei percorsi formativi, puntando a formare individui educati alla sempre maggiore flessibilità del lavoro, il più delle volte sottopagato.

Negli atenei di tutta Italia i tirocini sono un fattore discriminante per riuscire a conseguire la laurea e completare il proprio percorso di studi. Il carico di ore negli anni si è alzato sempre di più, fino ad arrivare a situazioni come quelle che si registrano nelle facoltà di ambito sanitario. Le mansioni e i turni svolti dagli studenti hanno le connotazioni di un vero e proprio lavoro gratuito, anzi, un lavoro che costa agli studenti non solo tempo ed energie, ma anche le tasse universitarie che devono essere pagate lo stesso. Il tutto, naturalmente, accompagnato dalla rincorsa al Credito Formativo, districandosi tra appelli d’esame sempre minori e lavoretti per sostenersi. Questo lo sanno bene gli studenti di Scienze Infermieristiche della Sapienza, che sono obbligati a ritmi alienanti tra corsi, tirocini e sessione di esami. Questi tirocini spesso avvengono contemporaneamente alla sessione o ai corsi (che hanno frequenza obbligatoria), e durano tutto l’anno con esigui periodi di “pausa”. Per non parlare del fatto che, se lo studente dopo un anno non passa l’esame di tirocinio, è obbligato a recuperare le ore di lavoro “perse” e non può dare gli esami per l’intero semestre. Queste dinamiche non fanno altro che riprodurre un sistema di limbo a sabbie mobili, che accompagnato alla riduzione delle date di appello per gli esami, impantana gli studenti all’università, ritardandone l’accesso al mondo del lavoro e aumentandone la condizione di precarietà.

Questo quadro rappresenta e al tempo stesso compone quella che negli ultimi anni viene definita “economia della promessa”. Quell’economia secondo la quale non bisogna puntare alla formazione e alla crescita, bensì alla possibilità di spendersi nel mondo del lavoro tramite lavori non retribuiti o corsi a pagamento.

Ma forse su una cosa il caro Miur aveva ragione: questo nuovo strumento di alternanza favorisce la comunicazione intergenerazionale, una comunicazione che non avviene sul piano formativo, ma sul piano esistenziale, e riguarda la condizione di precarietà alla quale siamo sottoposti da anni a questa parte, che si fa sentire scottante sulla nostra pelle, e che si palesa con il dato sconcertante di essere la generazione più povera dal secondo dopoguerra. Proprio grazie a questa comunicazione intergenerazionale, generata dal riconoscimento di una condizione comune, la lotta che ad oggi si porta avanti è una lotta non solo degli studenti medi o degli universitari, ma anche di tutte le generazioni di precari ormai usciti dall’ambito formativo che sperimentano ogni giorno il risultato di una politica dell’istruzione che educa al senso di colpa, alla remissività e ad un darwinismo sociale che annienta qualsiasi tipo di solidarietà.

Delle promesse, non ce ne facciamo più nulla!