approfondimenti

ITALIA

Allo specchio

Siamo sicuri di stare uscendo dal rimpianto mondo incantato neoliberale? Non è che l’incubo grillo-leghista fa parte organica di quel sogno e non possiamo risvegliarci passando dall’uno all’altro, dal populismo alla resistenza “repubblicana”? Guardiamo questo governo nella sua confusa forma immediata, per speculum in aenigmate, come scriveva Paolo ai Corinzi

Sulla più o meno perfetta compatibilità dell’esecutivo giallo-verde con il ciclo reazionario e del suo “contratto” privatistico con la logica neoliberale abbiamo già scritto esaurientemente nei due ultimi redazionali di DinamoPress. Viene piuttosto da chiedersi, anche alla luce della conclusione (almeno temporanea) della formazione del governo e della sua composizione – più “tecnica” e compromissoria di quanto sbrasato dai dioscuri vincitori –, se questo anomalo populismo italiano non sia un prodotto complementare del modello neoliberale, in termini economici e politici.

Se, in particolare, la retorica dell’ideologicamente scorretto di cui si vanta non sia un effetto di superficie del crollo del compromesso keynesiano che è la sostanza dell’avventura neoliberale.

Se, cioè, il fatto che il ministro Tria sia un “fogliante” brunettiano non sintetizzi, a livello epidermico e in perfetta armonia con la chiassosa diffamazione dei luoghi comuni “buonisti” che il giornale di Ferrara e Cerasa fa, un nesso sostanziale fra spirito neoliberale della concorrenza, della competizione e dell’auto-imprenditorialità, da un lato, e populismo leghista e fascio-leghista dall’altro.

 

L’anarco-capitalismo, implicito nella formula neoliberale, produce i suoi effetti nello sfasciamento del sistema dei partiti e nella destrutturazione del linguaggio politico e mediatico. La mescolanza di globalizzazione e cultura dell’auto-imprenditorialità genera contraccolpi neo-comunitari che solo in superficie assomigliano ai nazionalismi fascisti.

 

Per quanto alcune analogie preoccupanti si presentino in aree sensibili a pesante eredità storica (Germania, Austria ed Europa orientale, Russia non esclusa), il modello non è fordista ma postfordista, non è NSDAP ma Tea Party, la sua ideologia-limite è più Steve Bannon che Himmler e Rosenberg. Fa differenza aver davanti le SA o i suprematisti bianchi? Non se li incontri per strada, certo, ma per la strategia politica sì! Quando hai pezzi di ideologia suprematista e di differenzialismo culturale innestati sul neoliberalismo non puoi appellarti al fronte repubblicano o, se lo fai, ti ritrovi Macron.

Ma torniamo all’effetto-Foglio, molto superiore (come sintomo) alla diffusione e influenza di massa del giornale. “Il Foglio” nasce infatti, in età Ferrara, berlusconiano, tendenza Veronica e amministrazione dei finanziamenti gestita dal celebre rag. Spinelli (l’ufficiale pagatore delle olgettine). Poi diventa poco a poco renziano e meno eccentrico con la direzione dell’ineffabile Cerasa. Perché ci interessa? Perché è il segno della continuità fra la rottura del politicamente corretto e dell’ordine partitico in epoca berlusconiana e quello importato nella sinistra in epoca renziana. Nella prima fase la “sinistra” tradizionale è combattuta dall’esterno, nella seconda dall’interno. Adesso che è distrutta, va fagocitata nel fronte repubblicano, cioè macroniano. Va detto che il sanguigno e corpulento Ferrara qualche successo l’ha registrato (il Nazareno), mentre il perfettino successore dalle grandi orecchie ha bucato con regolarità tutte le campagne.

L’operazione si è svolta su due piani: quello più incerto delle manovre tattiche di piazzamento e quello alla lunga più sostanziale della costruzione di una cultura della deroga al politicamente corretto. Compiuta con ben altra finezza delle volgarità di “Libero” o del “Giornale”, ispirandosi piuttosto alla Versione di Barney di Mordechai Richler e al Falò delle vanità di Tom Wolfe nella denuncia ossessiva del radical chic e del privilegiamento dei diritti civili rispetto alla pancia delle pulsioni. Si badi bene: delle pulsioni individuali, non del popolo, perché “Il Foglio” non è populista né giustizialista, difese strenuamente il Cav (fino a coniarne la sigla) e oggi difende Weinstein. Ed è, beninteso, paladino della crociata repubblicana e antipopulista, ma con toni iper-elitari.  Per cui è trumpiano, ma con misura, adora Mike Pompeo, che ce l’ha duro, ma diffida di Steve Bannon e di Salvini (mai quando dei 5s, però). Sul piano effettuale “Il Foglio” conta poco, ma l’operazione di sostituzione del gergo della Prima Repubblica se lo può intestare a buon diritto. Insomma, ha legittimato la corrosione scettica presso il ceto politico di un politicamente corretto che si trascinava stancamente dall’epoca dei partiti e dello stato sociale negoziale, in parallelo allo sdoganamento della rissa e delle flatulenze condotto sulla stampa di destra e nei talk show per le masse. Cambiare il senso delle parole conta, il 1984 è fra noi. Con un’esplicita associazione fra questa dimensione (contro)culturale e i valori ordoliberali della competizione e della deregolazione imposti per legge e amministrazione burocratica. Certo, uno sogna Renzi e Macron e alla fine si ritrova Salvini e Trump (e Martina al posto di Renzi, a voler essere sadici) – questo è un problema non secondario del neoliberalismo, mica possiamo risolverglielo.

 

Il succo di questa digressione è che, sia pure con percorsi contraddittori (ne abbiano fatto un esempio marginale) la globalizzazione neoliberale si porta in pancia – ospite sgradito e non invitato – ­il populismo, deve sopportare una modica dose compensatoria di neocomunitarismo, che in situazioni periferiche (speriamo non l’Italia) può arrivare al nazionalismo becero e al fascismo 2.0, usa un linguaggio  comune nell’avversione all’idealismo mistificante di stampo tardo-keynesiano e kelseniano e quindi va combattuto con metodi diversi dall’antifascismo repubblicano (nel senso di Calenda e di “Repubblica”) e del patriottismo costituzionale.

 

Se la tendenza generale è questa e se viene controllata dalle medie potenze europee in modo diverso (vedi come Merkel contiene l’AfD o Macron ha svuotato il lepenismo), i pericoli maggiori si manifestano ai due estremi: nel nostro centro imperialistico supremo, dove Trump pendola fra pragmatismo kissingeriano dell’élite repubblicana e avventurismo da speculatore immobiliare, e in periferia dove imperversano saltimbanchi per fortuna sprovvisti di codici nucleari. Cina e Russia, sono più prevedibili in una prospettiva geopolitica “razionale”, sebbene il controllo della seconda sui suoi alleati sia precario quanto quello degli Usa su Israele.

In Italia ci tocca un Orbán in felpa, che ha messo nel sacco un M5s eterogeneo e si tira dietro pezzi di moderatismo di destra e neofascismo tradizionale. Di per sé non sarebbe la fine del mondo, se non fosse che non ha nessuna opposizione e quindi può evolvere in un pericolo grossissimo. Anzi: non è che non abbia opposizione, ha un’opposizione cattiva che è proprio quella che ne ha partorito le fortune. Salvini è figlio del Nazareno, cioè del doppio fallimento di Renzi e di Berlusconi, l’erede astuto e iper-professionale del referendum e dell’antipolitica grillina, uno che si muove sottacqua come la Casaleggio e Associati, ma tiene radici sul territorio e nella pancia, non soltanto nei flames della Rete.

Il segno del governo, in ultima analisi, non è dato soltanto dai due poli costitutivi e disomogenei (nessuno dei quali è propriamente “fascista” e comunque lo sarebbero in modo diverso fra loro), ma nella commistione fra quei due populismi (uno standard e uno anomalo, anche a voler usare una dubbia etichetta) e la mediazione dei “tecnici”: il Tria brunettiano e fogliante di cui si è detto (egregio supervisore, inoltre,  del V volume delle Opere di Mao in italiano), il Savona dei poteri forti in versione euroscettica, Moavero Milanesi in continuità con Monti ed Enrico Letta, lo stesso finto Premier Conte, che poco conta in caso di accordo fra i due azionisti di maggioranza, ma qualcosa sì, in caso di disaccordo fra loro o fra loro e i tecnici. Insomma, un’esperienza tutt’altro che di rottura con il passato berlusconiano, commissariale e piddino di varia osservanza. Un governo, quindi, che non può essere combattuto con un ritorno al passato: né a quello “glorioso” democratico e keynesiano né, tanto meno, secondo le formule bastarde e già appieno neoliberali che hanno imperversato dal 1994 in poi.

Non riflettiamoci in uno specchio oscuro, quando Black Mirror è già fra noi.