ROMA

Alla Dogana di San Lorenzo si usa la Street-art per fare rendita

Roma. Alla ex Dogana “Scalo San Lorenzo” la finanza cannibalizza la Street-art per dipingere la città, strada per strada, con i colori della rendita. E’ l’atto finale di una storia che viene da lontano.

Uno zip sui cieli di Roma.

Apriamo una mappa di Roma. Il disegno della “sopraelevata”, il nastro di cemento che, sollevandosi dalla Prenestina, attraversa in quota l’abitato di San Lorenzo, quando si sfiocca nei differenti percorsi (S. Giovanni e Tiburtina), ricorda lo scorrere di una cerniera lampo. Uno zip che, da oltre 40 anni è, in realtà, un vero attentato alla salute e all’abitare di chi vive questa larga parte della città.

Un “mostro”, come affettuosamente (sic) è stato battezzato da chi lotta per abbatterlo. Una crudele infrastruttura per chi è condannato a vedere, quale costante “infinito” domestico il rincorrersi incessante di pezzi di lamiera davanti la propria stanza. La ”sopraelevata” è il risultato dispotico di un problema non risolto dagli urbanisti. Questi, quando disegnano una strada sulla carta, la vedono solo come un elegante boulevard, fregandosene di cosa c’è intorno e di quello che queste strade provocano. Così hanno murato la vita di moltissime famiglie.

Tutto questo avviene sopra. A San Lorenzo, a via Prenestina, a viale Castrense. Lo sappiamo perché, costretti a servirci di questa strada, da sempre lottiamo per tirare giù questa traccia aerea. Ma sotto che cosa succede? E, soprattutto, che cosa si stanno preparando a far succedere lì, nelle vaste aree dello Scalo San Lorenzo lambite proprio dalla sopraelevata ?

Oggi nei locali dell’ex dogana.

In questi giorni degli edifici di bordo sulla via dello Scalo sono stati spalancati i portoni d’accesso. Erano chiusi da lungo tempo. La vasta area non è più in funzion. Dal 2010 i “nuovi” potenti proprietari dell’area, hanno infatti “sfrattato” l’Ufficio delle Dogane, oggi trasferito nei pressi del Centro Alimentare di Lunghezza. Ora hanno deciso che è arrivato il momento di dare il via al loro programma di “rigenerazione architettonica”: l’ennesimo centro commerciale ( il quotidiano finanziario “Milano Oggi” parla di Esse Lunga) e le ennesime palazzine. Questa volta non c’è il solito cartello “vendesi”, ma gli scintillanti banner dell’Outdoor Urban Festival. Un “avvenimento” ci dicono, per “porre interrogativi sulle future dinamiche”. Così, gli organizzatori del Festival, parlano alla città.

Lo fanno chiamando ad impossessarsi della vasta struttura industriale (ancora in buono stato di conservazione) quindici tra i principali esponenti mondiali della Street – art. Aprono quello spazio, sconosciuto ai più, per farne un’ officina del meraviglioso urbano. Lo fanno vedere per poi distruggerlo. Aprono per chiudere. E’ una finestra sulla nuova urbanistica della finanza. Per produrre rendita, non basta tirar su muri, è necessario far diventare tutto merce. Anche l’arte di strada, nata per portare il conflitto all’ordine urbano, alla monotonia e alla prigione dei lunghi isolati urbani, a far diventare “occhi aperti sull’abitare” facciate e mura in cui sono racchiuse le nostre esistenze. Chi ha messo mani ed occhi sulla Dogana non è il solito immobiliarista pronto a vomitare palazzine. Quello che avviene alla Dogana non è solo fare case per far rendita e inzeppare quella vasta area dell’ennesimo grandissimo “centro commerciale”.

Alla Dogana, a Roma, si costruisce, per la prima volta, un segmento del modo con cui si vuole sottrarci la città. Per farlo, si vogliono impossessare anche della nostra vita e del nostro modo di essere in città.

Scelgono la Street–art perché arte temporanea, transitoria, effimera. Come vogliono che diventi la città. Sempre pronta a trasformarsi secondo le opportunità del mercato. Riportano all’interno, al chiuso, quello che vive nella strada, perché della strada hanno paura. Lo fanno per raccontaci della necessità che la città si trasformi a partire dalla distruzione dei luoghi, della cancellazione della memoria dell’abitare. Lo fanno, come in questo caso, piegando, astraendo da ogni contesto, esaltandolo, il solo risultato “artistico”. Staccano dalla strada quello che dalla strada prendono.

Nascondono, anche a loro stessi, che i mille e mille segni che marcano gli i attraversamenti urbani sono forme di democrazia perché sono altrettanti pareri sulla condizione urbana. Forme di democrazia diffusa non inscatolabili, per giunta “ a scadenza temporale”, in uno spazio gentilmente messo a disposizione prima di farlo saltare in aria. Vogliono distruggere quei muri per “liberare” quello che c’è sotto la tangenziale senza considerare come è stato possibile arrivare a tutto questo e come s’intenda andare avanti.

Ma come inizia il tutto? Cosa è stato, cosa sarà per Roma di questo spazio segnato da una strada che tocca i tetti dei palazzi? Come è nata la tangenziale ?

Tutto nasce da una previsione sbagliata servita a far rendita.

Iniziamo dal disegno. Il percorso di questa strada (eufemismo N.d.R.) nasce con il Piano Regolatore del 1962. Quando, ci dicevano che Roma avrebbe raggiunto il numero cinque milioni di abitanti. Una previsione sbagliata servita per alimentare la necessità di costruire ovunque e dovunque. Come sarebbe puntualmente avvenuto. Quel Piano conteneva, tuttavia, un ‘idea di città: la realizzazione del Sistema Direzionale Orientale, lo SDO.

Questo l’acronimo trovato per un complesso integrato di uffici direzionali (ministeri, sedi di istituzioni, sedi universitarie, uffici privati) che, sostenuti da una forte viabilità e altri servizi generali, avrebbero dovuto rivalutare la periferia orientale della città e liberare il centro antico dalla pletora degli edifici chiamati a far funzionare la macchina statale. Fuori dal centro antico i “palazzi del potere”; dentro, di nuovo, le residenze. Tenuto a “bagnomaria“ per decenni, lo SDO non ha mai visto la luce perché intanto, siamo alla fine degli anni ‘60 del 900, la città veniva interessata da profonde trasformazioni. Tutte all’insegna del dilagare delle operazioni legate alla rendita urbana.

Sostanzialmente tre i fenomeni principali: primo, la definitiva scomparsa del debole, ma presente, tessuto produttivo cittadino trasferitosi verso il paradiso assistenziale e fiscale rappresentato dal Programma della Cassa del Mezzogiorno lungo la via Pontina. Secondo: l’esplosione della “terziarizzazione” che portava la prima periferia storica ad inzepparsi d’uffici e servizi a questi dedicati. Terzo: il fenomeno dell’abusivismo residenziale in buona parte sviluppatosi proprio sui terreni destinati allo SDO.

Fabbriche, uffici e abusivismo figli della stessa rendita.

Le fabbriche si trasferivano. Andandosene, drenavano, oltre le convenienze che avrebbero raggiunto, i folli profitti ricavati dalla vendita delle loro vecchie sedi. Con la riconversione di quegli spazi sfruttavano, infatti, la centralità originaria della propria posizione urbana. A volte addirittura centralissima. Risultato: loro facevano affari d’oro, mentre anche il centro veniva messo al tappeto da destinazioni improprie e da nuovi carichi urbanistici. Un mutamento indiscriminato e senza nessun controllo.

La nascita nella città dell’ufficio “diffuso”, (Prati, San Giovanni, Il Flaminio…) innestandosi come una cisti all’interno degli immobili residenziali della prima periferia storica, oltre espellere, da quegli edifici, famiglie su famiglie, lievitava il valore degli immobili e “cambiava” di conseguenza la tipologia dei servizi. Pochi alimentari e negozi di vicinato, molti centro copie e tavole calde. Questo in quartieri dove viveva la maggior parte della popolazione.

Un fenomeno incontrollato lasciato a chi “primo arrivava”. Innestandosi nella prima fascia periferica, a ridosso delle mura della città, ha finito con il congelare definitivamente, nel centro storico le funzioni istituzionali esistenti. Il proliferare di uffici “vicini” a “dove si decideva” veniva, infatti, sostanzialmente a rappresentarne l’indotto, indebolendo, così , la ragione stessa dello SDO i cui terreni iniziarono, nel tempo, ad essere preda degli insediamenti abusivi, presto divenuto il modo con cui Roma si andava costruendo.

Lo SDO non c’è. Ci sono, però, molte persone.

Non c’era lo SDO, ma c’erano tanti abitanti. Questo nella zona est di Roma, la più redditizia per tirar su case. Tantissime: regolari o abusive. Ad accogliere anche i tanti cacciati dal centro (i trecentomila residenti degli anni ‘50 si erano ridotti alla fine degli anni ‘60 di due terzi); i tanti sfrattati dalla marea degli uffici che si andavano realizzando nella fascia periferica; i tanti alla ricerca di una casa a basso canone (non esisteva nessuna forma di calmiere sulle locazioni); i tantissimi abusivi. Alla fine degli anni ‘60 i vani abusivi costruiti ogni anno erano oltre 16 mila. Una cifra imponente destinata, poi, a crescere nel decennio successivo fino a raggiungere i 70 mila vani annui.

Serviva dunque fare entrare tutta questa gente in città. Collegare tra loro i vari quadranti urbani. Si sarebbe dovuto fare con l’automobile. Invece di pensare a un mezzo pubblico sfruttando la linea ferroviaria che taglia la zona sud est di Roma, si tirarono su le strade. Questo è avvenuto con la “tangenziale di San Lorenzo”. Scegliere di passare sopra all’abitare assicurava il poter continuare a costruire. Sempre. Ovunque. Un poco (molto) più in là.

Così San Lorenzo, praticamente senza accorgersene, si è ritrovato una strada sulla testa, un segnale preciso per marchiarlo come un luogo da tralasciare, da attraversare nel muoversi della città. Un luogo “sbagliato”. Un posto, dove non valeva la pena neppure fermarsi. Ancora non messo nel mirino dell’Università, San Lorenzo era un quartiere da rimuovere. Scavalcandolo. Un quartiere dormitorio. Un ricettacolo per studenti fuori-sede.

La tangenziale nasce come soluzione viabilistica segnando, anche visivamente, il dominio del costruire sull’abitare . A chi importava come si viveva intorno e sotto il viadotto? Roma viene condannata, proprio in quegli anni, all’inferno dell’automobile con l’ utilizzo obbligato del mezzo privato per oltre due milioni e seicentomila persone. Quante ce ne sono oggi.

Come farle muovere? Un trasporto dal biglietto fatto di cemento.

All’inizio del mandato del sindaco Rutelli, siamo nel 1993, la programmazione dei trasporti pubblici a Roma sembrava dover subire una svolta con l’accordo fra il Comune e le Fs, in cui le Ferrovie dello Stato Spa e la giunta Rutelli, con l’assenso preliminare di alcune associazioni ambientaliste, stilarono un protocollo di intesa. Prevedeva di mettere al servizio della mobilità urbana molti chilometri dei binari sottoutilizzati delle linee ferroviarie. Proprio l’anno prima (agosto 1992) FS intanto era stata trasformata in società per azioni. Tutte nel portafoglio del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Nel decennio 1981/91 la popolazione che abitava all’interno del Grande Raccordo Anulare era diminuita in modo sensibile. Si abitava fuori, si lavorava all’interno del raccordo. Qui si concentrava un milione di posti di lavoro. Ottocentomila per attività “terziarie”. Ogni giorno gli spostamenti erano stimati in 5,6 milioni . Solo il 33% di questi avveniva su mezzi pubblici. Il 67% si serviva dell’automobile. A Roma circolavano 1,8 milioni di autovetture.

Rutelli, firmando quel Protocollo, acconsentì che, in cambio di nuovi collegamenti ferroviari , per cui fu coniato lo slogan “la cura del ferro”, Fs avesse il via libera per costruire nelle proprie aree (Termini, Tiburtina, Ostiense, S. Pietro). Servizi? No! il Sindaco rilasciò l’autorizzazione a “fare cassa”, a lanciarsi in operazioni immobiliari e, quale ulteriore sovrapprezzo, a dare il via libera ad Fs per il progetto dell’Alta Velocità nel nodo di Roma, che intorno all’area dello Scalo troverà il proprio assetto organizzativo.

Nelle aree ferroviarie, si “liberarono” cosi sette milioni di metri cubi. I profitti derivanti dalla valorizzazione delle aree dovevano essere investiti in servizi ferroviari per la città. E’ in quest’occasione che, a Roma, l’urbanistica diventa, per la prima volta, “moneta sonante”. Come in un bancomat di cemento dall’Amministrazione Comunale, Fs tira fuori cubature. Si mischia tutto grazie ad un cocktail predisposto da un barman d’eccezione: l’amministratore delegato delle ferrovie Lorenzo Necci. Noto per aver dichiarato di voler chiudere “i rami secchi” delle Ferrovie, “perché è più conveniente regalare un’auto ad ogni viaggiatore” piuttosto che servirli di un trasporto su ferro.

Con simili compagni di viaggio Roma si lancia nella scommessa del ferro. Rutelli affida la regia a Walter Tocci, vicesindaco e assessore alla mobilità, ma lo priva di ogni possibile interlocuzione con l’assessorato urbanistico che, intanto, muoveva i primi passi per il nuovo piano regolatore all’insegna del programmatico “pianificar facendo”. Il risultato è stato quello di produrre (2008) un piano “offerta”, aperto ai proponenti privati, senza nessuna seria considerazione in materia di trasporti.

intanto Fs…

Le Fs realizzarono una prima fase incrementando la linea Fm1 Fiumicino Aeroporto – Tiburtina, in seguito prolungata a Monterotondo e poi a Fara Sabina e Fm2 Guidonia – Roma. Nulla di più. Per le aree ferroviarie Necci aveva puntato a realizzare alberghi e strutture nelle aree immobiliari contigue alle stazioni ferroviarie. Aveva messo su una società, la ECP , che aveva fra i suoi soci oltre le Fs, Tanzi e la Banca di Roma (futura Unicredit). L’incriminazione di Tanzi e in seguito dello stesso Necci travolse la realizzazione del progetto. Non la continuità urbanistica dell’intera questione delle arre ferroviarie che andò avanti attraverso successivi passaggi. Fino all’approvazione del PRG.

Il Piano Regolatore, approvato nel 2008, per le aree ferroviarie conferma quanto previsto nel Programma per Roma Capitale del 1992 e nell’Accordo di Programma del 2000 che sanciva la possibilità di edificare, al fine di “riqualificare e valorizzare” le aree ferroviarie. Ovvero la possibilità di realizzare rendita attraverso la realizzazione di ingenti cubature. Le aree ferroviarie sono ora definitivamente “liberate”. In un effetto domino trascinano anche le porzioni vicine dove sono localizzate strutture di servizio alle ferrovie che si intende dismettere . E’ questo il caso dell’area della ex Dogana.

iniziano a circolare progetti.

Il complesso immobiliare in via Scalo di San Lorenzo, contiguo alle aree ferroviarie, diviene, con il PRG, un ambito di valorizzazione particolarmente significativo. Gli Ambiti di valorizzazione riguardano quelle parti della città storica i cui caratteri identitari presentino degrado fisico e funzionale. Sono finalizzati al “raggiungimento di nuove condizioni di qualità morfologico ambientale e di complessità funzionale”.

Non più utilizzato dalla Dogana, quest’ambito si estende su un’area di oltre 23.000 mq ed è inserito in un contesto in cui sono previsti, oltre alla riconversione urbanistica del quartiere, anche importanti interventi infrastrutturali (stradali e ferroviari). Il progetto del PRG prevede la possibilità di demolire le strutture doganali e la realizzazione di circa 16.000 mq con destinazione residenziale, commerciale, direzionale e produttiva.

In effetti nel 2011 salta fuori un progetto (All Project srl) che sembra interpretare le modalità distruttrici oggi veicolate dall’ Outdoor Urban Festival. Prevede la demolizione dei manufatti esistenti ad eccezione del corpo destinato ad uffici che affaccia su via dello Scalo San Lorenzo. Sull’area liberata ipotizza di realizzare un centro commerciale e due edifici residenziali. Nella parte a sud, che confina con il fascio dei binari, propone un parco lineare ad una quota sopraelevata con funzione di barriera antirumore. Una piccola area a nord viene ceduta al Comune per la realizzazione di servizi pubblici..

Chi è il proprietario dell’area come ne è venuto in possesso?

La Dogana allo scalo San Lorenzo è un complesso immobiliare demaniale. Soggetto al fenomeno della “valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico”, la modalità politica scelta per contenere il debito pubblico. Fintecna è la società pubblica che riceve in carico gli immobili dello Stato per affittarli, a chi ancora intende utilizzarli o metterli sul mercato. Necessaria, per la seconda ipotesi, era ricevere il via libera da parte dell’Agenzia del Demanio. Lo “svincolo” del complesso, acquisito con la dizione “in via di dismissione” arriva nel 2011 quando, viene dichiarato “soggetto destinato alla valorizzazione”.

E’ il via libera definitivo. Fintecnca può chiudere il cerchio di un’operazione iniziata nel 2007.quando una sua consociata la Fintecna Immobiliare, società interamente partecipata dalla Cassa Depositi e Prestiti S.p.A, aveva promosso la costituzione di una Newco, una Nuova Azienda partecipata al 50% dalla stessa Fintecna e bandito una gara per l’acquisizione di nuovi soci ai quali attribuire il restante 50% . La sua finalità era stata la riconversione e la valorizzazione di quattro importanti asset immobiliari situati a Roma.

Fintecna Immobiliare era stata costituita da Fintecna per accogliere al proprio interno molti immobili in via di dismissione dallo Stato. La società ha comprato e molto, sborsando oltre 800 milioni di euro. Per valorizzarli ha scelto di rivenderli a società in cui lei stessa avrebbe partecipato con una quota di maggioranza ed ha promosso un Programma di ricerca soci.

Sono stati molti ad aderire a questo Programma partecipando alle sue”gare”. In tutta Italia. Vecchi e nuovi immobiliaristi e finanzieri: Ligresti, Grassetto, Toti, Di Amato, Gavio, Tronchetti Provera, le Cooperative…. Nessuno ad eccepire che le nuove società avrebbero acquistato le quote da Fintecna chiedendo finanziamenti alle banche. Queste li hanno concessi accendendo ipoteche sugli immobili. Risultato: debiti spalmati anche sul socio pubblico. Nel caso romano, si aggiudica il 50% delle quote messe in vendita da Finctecna Immobiliare, un gruppo così costituito: Fingen spa (35% delle quote) PirelliRE (35%) e il Gruppo Maire (30%). Gli immobili che vengono conferiti sono l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato situato a Piazza Verdi, l’ex Istituto Geologico Nazionale in via di S.Susanna, il complesso immobiliare ex Dogana in via Scalo di San Lorenzo e l’area di Valcannuta, lungo la via Aurelia.

Di cosa si occupano i tre gruppi imprenditoriali coinvolti nell’operazione finanziaria?

La Fingen spa è una società fondata alla fine degli anni ’70 dai fratelli Fratini e si sviluppa inizialmente nel settore abbigliamento (jeans Rifle) per poi espandersi nel settore immobiliare e in quello degli Outlet Center. Dalla Toscana, dove è nata, la società si è sviluppata non solo in Italia, ma ha allargato i suoi interessi nella ricostruzione delle capitali dell’est e nei grandi centri commerciali in Cina.

Pirelli RE opera da un lato nel settore del co-investimento in fondi e società proprietari di immobili a fianco dei principali investitori internazionali; dall’altro lato nella gestione immobiliare, attraverso società di investimento o fondi immobiliari. Attivo in Italia, Germania e Polonia, Pirelli RE (Gruppo Pirelli & C. SpA) è uno dei principali attori nel settore immobiliare in Europa. L’azienda è quotata alla Borsa di Milano dal 2002.

Maire Tecnimont SpA nasce nel 2005 dalla fusione di due aziende chiave nell’industria italiana: Fiat Engineering, acquisita nel Febbraio 2004 e diventata in seguito Maire Engineering e Tecnimont, di proprietà di Montedison, nel 2005. La società opera nei segmenti delle infrastrutture civili, dell’impiantistica chimica e dell’energia. Il valore complessivo della maxi operazione di acquisto (i quattro immobili) ammonta a 368 milioni di euro, mentre erano previsti ulteriori investimenti per circa 200 milioni di euro.

La cifra è del tutto incongrua rispetto il reale valore degli immobili. Basti pensare che il palazzo di piazza Verdi ai Parioli ha una superficie totale di 54 mila metri quadri e il valore di mercato in quel quartiere, a quel tempo, era di 10 mila euro al metro quadro. Anche l’area della Dogana si rivela un affare. Oggi il progetto per lo Scalo conosce una nuova versione.Il PRG prevedeva una superficie realizzabile di 16.922 mq. di cui il 40% destinato a residenza, il 50% a commerciale, servizi e attrezzature turistiche ricettive e il 10% a insediamento produttivo. La nuova proposta avanzata dai proprietari, ipotizzando l’applicazione del Piano Casa, ora rieditato da Zingaretti, con demolizione e ricostruzione, prevede una superficie realizzabile di 19.630 mq. di cui il 42% pari a 8.230 mq desinati a residenza, il 30% commerciale, il 10 % produttivo e il 18% a residenza studentesca (private?). Sono previsti in totale 320 nuovi abitanti.

Un progetto a san Lorenzo che é contro San Lorenzo.

Questo succede allo scalo, mentre il Comune continua a parlare di Progetto Urbano San Lorenzo. Di questo progetto targato Fintecna e soci, che certo l’Amministrazione Comunale conosce fin dal 2011, neppure una parola. Così come nessuno parla di quello che accadrà, nel vasto “ambito di valorizzazione “ di via dei Lucani confinante, con la Dogana. Qui il gruppo dell’immobiliarista Santarelli è andato nel tempo acquisendo molti degli spazi esistenti (immobili e spazi aperti).

Due ambiti di valorizzazione della Città Storica consegnati alla finanza. Saranno così i privati a decidere di un’ area strategica, di collegamento tra tre zone centrali della città. Loro a decidere cosa costruire, come farlo, quando, cosa tenere, cosa tirare giù. Con la progettazione della ex Dogana si sperimenta non solo una nuova definizione spaziale della città, ma come la “rigenerazione urbana” sia il meccanismo di estrazione del valore diffuso dalla città.

Contro la città.

Con il ricorso, all’Outdoor Urban Festival l’operazione immobiliare fa un salto di scala. Estende il consumo urbano oltre le mura delle case che intende costruire. Le fonda con un atto immateriale. Le combina con i modi di vivere la città, la produzione delle idee, il linguaggio.

La città, per sopravvivere ha bisogno di ridisegnare se stessa. Opera per continue demolizioni e sostituzioni. Demolire e ricostruire. Per continuare a demolire e ricostruire. Solo così potrà ”sopportare” i costi del proprio mantenimento. Anche la narrazione, scelta per raccontare questo processo, ancor prima di divenire pratica d’ingegneria costruttiva, deve permettere di ricavare, fin da subito, profitto. Ancor prima di sapere cosa si farà in quella parte di città, si costruisce la richiesta di tirar giù quello che c’è..

Contro di noi.

Sta succedendo ovunque. A Torino, solo un esempio, nel 2011 si è tenuta una manifestazione Sub Urb Art. Arte Urbana in Subbuglio, all’interno dell’ex sede della fabbrica Aspira, destinata alla demolizione. Qui allo scalo dell’ex Dogana si vuole dimostrare che vogliono conquistare la città e non vogliono fare prigionieri. Ad impedire che le trasformazioni siano patrimonio di chi materialmente le produce deve essere assicurato che sia il mercato a decidere.

Gli investimenti nel settore delle transazioni di immobili destinati al grande commercio sono state 2,5 miliardi di euro nel 2014. E ci sono ancora 5,4 miliardi di euro di centri commerciali disponibili sul mercato. C’è dunque un grande interesse per il settore del retail da parte di investitori italiani e stranieri. Alla ex Dogana ci sarà, dunque, un altro grande Centro Commerciale. Le ragioni di questa scelta sono esclusivamente nel mercato. Un Centro Commerciale che potrà sfruttare, in più, un doppio regalo: di Zingaretti e Renzi.

Il primo, nel suo Piano Casa licenziato solo pochi giorni fa dal Consiglio Regionale del Lazio,”rivede” (neanche Renata Polverini aveva fatto tanto) le restrizioni edificatorie lungo le “fasce di rispetto ferroviario” rivisitando la normativa per regalare altra cubatura. Il secondo, con lo “Sblocca Italia”,favorisce gli investimenti stranieri introducendo ogni deroga alla legge sulle locazioni commerciali ad esclusivo vantaggio della proprietà. Allo scalo San Lorenzo s’apprestano a mettere in scena molto di più del tanto cemento che faranno piovere. Intendono sperimentare come hanno deciso di farci vivere.

Non facciamoli vincere.

Possiamo impedirlo se saremo capaci, in tutti i territori, di non rinunciare a nulla. Iniziamo con l’ opporci, quando ci proporranno progetti “rigenerativi” al baratto di chi vorrà privarci anche dei servizi minimi attraverso la loro “monetizzare”. A ripensare alla città come luogo di espansione delle forme di cittadinanza sociale. Noi siamo l’ innovazione. Noi dobbiamo rendere visibile l’invisibile. Investiamo nella nostra stessa capacità di desiderio del cambiamento. Pensiamo noi stessi come un investimento urbano. Noi stessi un servizio. Un servizio che non appartenendo al mercato non può essere una spesa. Per riappropriarci degli spazi necessari alle relazioni tra chi abita. Luoghi in cui, non facendo riferimento al dualismo privato pubblico, sia possibile dare vita a inedite forme di sviluppo e disegno della città. A partire dalla costruzione della stessa immagine di Roma.

Questo edificio, alla Dogana, può rappresentare tutto questo. Ribaltiamo il loro programma, riconsegniamo a Roma quest’individuazione edilizia per farne un grande contenitore/città capace di raccogliere d’ora in poi le mille forme di cooperazione sociale con cui animiamo e riscattiamo la nostra vita. Un edificio da tenere in piedi per farlo vivere non come luogo, come è sempre stato di controllo sulle forme di attraversamento dei confini, ma di abbattimento di ogni confine. Per entrare dentro e uscire fuori continuamente. Non per entrare per demolire e sostituire, ma per proporre attività di stimolo alla città, portando i temi della cultura, della bellezza, dell’arte, dello sport, della natura.

Roma si deve riprendere questo bene pubblico. Deve riavere gli spazi dell’ex Dogana, quelli degli altri edifici.

Apriamo una mappa di Roma e…