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MONDO

Afghanistan, sguardo incrociato

Questo longform racconterà dell’umanità degli afghani, dei loro sguardi, di quel guardarsi negli occhi, che non è mai dall’alto in basso o viceversa. Ogni capitolo un tema, ogni capitolo un bilancio, perché non sia il fallimento di un giorno solo, ma di quasi un ventennio di scelte sbagliate sulla pelle di civili innocenti

Questo longform è un approfondimento sulla situazione degli ultimi venti anni in Afghanistan, al centro delle notizie oggi per la ritirata delle forze militari statunitensi e occidentali e la riconquista del potere da parte dei talebani. Pubblicato originariamente su Q Code Magazine, più che una notizia di attualità rappresenta uno sguardo capace di cogliere, oltre la narrazione mainstream, il fallimento di venti anni di politica di guerra [ndr]

Questo longform non racconterà delle ultime elezioni in Afghanistan, quelle che hanno registrato (secondo la Commissione Elettorale Indipendente) meno della metà degli aventi diritto al voto come affluenza alle urne. Quelle che hanno registrato, nelle giornate della tornata elettorale, almeno 60 vittime in quasi 200 tra attentati, attacchi, intimidazioni e violenze.

Non la racconterà perché è stato già fatto, non lo racconterà perché non è diverso da tutti i singoli giorni, in tutte le aree del paese, che il popolo afgano è costretto a vivere dal 2001. Come fosse un destino, come fosse una condanna. Fine pena mai? Chi può dirlo, ma il bilancio dell’invasione della Coalizione internazionale è ormai molto oltre la soglia del fallimento. E la notizia, di fronte a tutto questo, diventa l’umanità. Quella che tutti questi anni di mattanza non ha tolto agli afgani, capaci di lottare ogni giorno per arrivare a domani.

Questo longform racconterà di loro, dei loro sguardi, di quel guardarsi negli occhi, che non è mai dall’alto in basso o viceversa. Mettersi su un piano di reciproca umanità. Sono gli sguardi tra il raccontato e colui o colei che racconta, una forma di autoracconto affidato a uno scatto e un testo.

Guardar gli afgani significa guardare in fondo all’indifferenza, alla criminale decisione di rimpatriarli dall’Europa verso un paese sicuro, all’aver creduto alle false promesse dei falsi profeti esportatori di democrazia. Guardare loro, essere guardati, per guardare sé stessi.

Ogni capitolo un tema, ogni capitolo un bilancio, perché non sia il fallimento di un giorno solo, ma di quasi un ventennio di scelte sbagliate sulla pelle di civili innocenti.

testo Christian Elia – immagini Manuel Perini

Insicurezza


Nel 2018 nuovo record di vittime civili

Secondo i dati diffusi a settembre 2018 dall’Unama, la missione Onu nel Paese, l’Afghanistan è il secondo paese più pericoloso al mondo. Nei primi sei mesi di quest’anno, i civili uccisi sono stati 2798, i feriti 5252. Uno degli anni più violenti da quando, solo dieci anni fa, si è iniziato a tenerne il conto. In generale, solo negli ultimi quattro anni, son state oltre 40mila le vittime civili, tra morti e feriti.

Un anno fa, secondo il rapporto Milex, la percentuale di territorio controllato dai talebani o conteso al governo di Kabul è passata dal 28 al 43 per cento: 164 distretti tra quelli controllati (45) e contesi (119) su 407 totali. Rispetto alle fonti talebane, il territorio controllato o conteso dalla resistenza talebana è più consistente: 201 distretti tra quelli controllati (33) e quelli contesi (168, tra cui un centinaio controllati per il 70-99 per cento del territorio, ovvero le zone rurali).

Le forze armate afgane, con le forze di polizia, perdono terreno, lo riconquistano e lo riperdono. E’ da tempo una guerra che nessuno può vincere militarmente, come dichiarato dalle stesse Nazioni Unite.

Le forze della Coalizione, a guida Usa, hanno da tempo ridotto al minimo indispensabile le sortite fuori dalle basi militari. Su segnalazione delle truppe di terra, si muovono in forza con gli attacchi e le coperture aeree, con i droni, bombardando pesantemente, aumentando il numero di vittime civili, come in un folle gioco senza scopo.

In totale, secondo le stime più prudenti, sarebbero circa 150mila le vittime civili dal 2001, secondo le stime di alcuni ricercatori, si arriva fino a 360mila. Per un paese più insicuro e violento di quando la Coalizione è arrivata per dare la caccia alla cupola dell’organizzazione responsabile degli attacchi alle Torri Gemelle a New York e negli Usa nel 2001. Come se per prendere i killer di Falcone e Borsellino si fosse rasa al suolo Palermo.

Foto di Manuel Perini

Hazara


In fuga da sempre

La prima persecuzione di cui resta memoria è quella del 1890, ma non si è mai del tutto normalizzata la situazione, dal regime comunista all’invasione internazionale del 2001, passando per l’invasione russa e la guerra civile.

Gli hazara, alla fine dell’800, rappresentavano circa il 67% della popolazione, oggi sono meno del 22 %. Il simbolo di questo attacco, costante, a tutto quello che rappresentano nella storia di quella parte di mondo, resta la distruzione dei due Buddha di Bamyan, simbolo del melting pot culturale della regione e di un popolo.

Da tempo gli attivisti hazara nel mondo denunciano quello di Kabul come un governo dominato dall’etnocentrismo pashtun.

L’esclusione e marginalizzazione sono la parte meno violenta che subisce questo popolo ‘accusato’ di eresia dai sunniti. Perché sciiti, ma non tutti gli hazara sono sciiti, o religiosi in generale. In realtà ‘i figli di Gengis Khan’, come vengono chiamati per le origini e i tratti somatici, di lingua persiana. Sono perseguitati da tutti: dai talebani, dai gruppi più radicali dei talebani e dallo stesso governo.

Bersagli di continui attacchi, dagli attentanti suicidi durante le loro manifestazioni fino ai rastrellamenti sui bus o sui taxi collettivi. La grande fuga dal Paese – per anni – è stata l’unica soluzione, nonostante un movimento di opposizione coraggioso formatosi sui banchi delle università afgane che merita rispetto e ascolto.

Molti hazara, dopo il 2001, erano rientrati. Molti di loro, istruiti, hanno lavorato con le forze e la logistica della Coalizione. Questo ha peggiorato la loro situazione e in alcuni casi sono stati accusati di ‘collaborazionismo’ o di fare gli interessi dell’Iran.

Rimpatri.

La vergogna dell’Europa

All’inizio di ottobre 2016, il governo afgano dell’epoca è obbligato a firmare il Joint Way Forward con l’Unione Europea. Pena il mancato di rinnovo di voci di finanziamento necessario all’economia afgana, che conta bolle di privilegio molto ridotte, in uno scenario generale devastato e ignorato dalla pioggia di aiuti internazionali arrivati in questi anni.

Il tema dell’accordo è che l’Afghanistan accetti il rimpatrio di migliaia di afgani dai paesi europei.

Secondo fonti di Amnesty International, che sta conducendo da anni una battaglia contro questo accordo, durante il 2017, circa 2,6 milioni di rifugiati afgani hanno vissuto in più di 70 paesi in tutto il mondo. Circa il 95 per cento sono stati ospitati in due soli paesi, Iran e Pakistan, dove hanno subìto discriminazioni, aggressioni di matrice razzista, mancanza di servizi basilari e rischio di espulsione di massa. Tra il 2002 e il 2017, più di 5,8 milioni di afgani sono tornati a casa, molti dei quali rimandati contro la loro volontà da altri governi.

Questo verso un paese nel quale, solo nel 2017, secondo le Nazioni Unite almeno 437.907 sono diventate nuovi profughi interni, in fuga da combattimenti e violenze. La Norvegia, sia in rapporto alla sua popolazione che in termini assoluti, rimpatria più afgani di ogni altro paese europeo. Secondo le autorità di Kabul, il 32% (97 su 304) degli afgani rimpatriati nei primi quattro mesi del 2017 provenivano dalla Norvegia. Che però non è l’unico paese che ha deciso di applicare in modo zelante l’accordo Ue – Afghanistan. Ad oggi è la Germania a detenere questo vergognoso primato.

Secondo dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2015 e il 2016 il numero degli afgani rimpatriati dagli stati membri è quasi triplicato: da 3.290 a 9.460. Questo aumento corrisponde a un marcato calo delle domande d’asilo accolte: dal 68% del settembre 2015 al 33% del dicembre 2016.

A questa pressione, si aggiunge quella dei paesi confinanti, che legittimati anche politicamente dalle scelte europee hanno seguito la stessa strada: tra il 2015 e il 2017, l’Iran ha rimandato a Kabul ben 1.356.922 profughi, cui si aggiungono 944.693 trasferimenti dal Pakistan. Nel triennio in esame, mettendo in conto anche le deportazioni europee, Kabul ha dovuto assorbire 2.316.558 rientri, al netto di almeno due milioni di profughi interni.

Foto di Manuel Perini

Daesh.

Un nuovo, vecchissimo, nemico della pace

L’antagonismo tra i Talebani, il più longevo gruppo anti-governativo, e la Provincia del Khorasan (ISK), la branca locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, formalmente istituita nel gennaio 2015, ma già attiva dalla fine del 2014, è una variabile degli ultimi anni che, se possibile, ha complicato ulteriormente lo scacchiere afgano.

Da un lato, a livello di leadership con ambizioni di globalità, e con la rotta (almeno rispetto alla macro struttura raggiunta negli ultimi anni) in Siria, Iraq e Libia, l’Afghanistan è un buon rifugio per eventuali leader in fuga, per riorganizzare le fila, per arruolare e addestrare. Dall’altro lato, a livello simbolico, l’Afghanistan resta l’unico ‘altro’ emirato islamico esistito negli ultimi decenni.

Casa madre dell’ISK, come è chiamata la filiale locale di Daesh, è la Provincia del Khorasan ed è forte soprattutto nelle provincie orientali di Nangarhar e Kunar, dove domina.

Proprio questa leadership mette in conflitto il movimento talebano con quello di Daesh, assieme alla strategia generale, da sempre divisa tra gli ‘internazionalisti’ e i ‘localisti’, ma per anni le due anime, al-Qaeda e Talebani, hanno convissuto. L’aggressività teorica di Daesh, invece, per i Talebani è un problema.

Queste posizioni ‘teoriche’, ieri come oggi, sono però estremamente fluide e mutano rapidamente, con geometrie e alleanze variabili, con cambi di casacca e ripensamenti.

I Talebani rimangono una forza militarmente e politicamente molto più solida. L’ISK – divisa a sua volta – però non rinuncia a eclissarsi o a essere assorbita, pena un’altra rotta mediatico/politica e conta sull’appoggio diplomatico del Pakistan (che vuole una mediazione tra gli integralisti), mentre da tempo Mosca e Teheran spingono i Talebani alla rottura definitiva.

Di sicuro, lo spauracchio di Daesh per il governo di Kabul ha una sua utilità strategica. Proprio quando, Usa in testa, la Coalizione pensava a un ridimensionamento dell’impegno in Afghanistan, la comparsa sulla scena di Daesh favorirà rifornimenti di mezzi e denaro per altri anni.

La stessa amministrazione Trump, che appena insediata aveva lanciato chiari messaggi di disimpegno a Kabul, ha finito per continuare la strategia del passato, anzi, a rinnovare un certo impegno militare, come hanno fatto l’Italia e altri partner Nato. Con gioia dei comparti militar – capitalistici sempre più legati agli esecutivi in giro per il mondo e alle lobby della Difesa.

Cost of War

Un business impressionante

Secondo il rapporto Milex, è praticamente impossibile calcolare in modo preciso il costo finanziario di questa campagna militare. Ai costi diretti, si sommano quelli indiretti, assenti dai documenti pubblici e che sono quindi impossibili da quantificare.

Costi sistemici (acquisizione ad hoc di nuovi mezzi da combattimento e nuovi armamenti, aggiornamento sistemi d’arma esistenti in relazioni alle esigenze emerse nel corso dell’impiego in teatro operativo, ripristino scorte munizioni, addestramento specifico del personale e costi sanitari delle cure per i reduci feriti e mutilati) che l’apparato della Difesa e altre amministrazioni pubbliche devono sostenere per esigenze direttamente connesse alle operazioni in corso, ma che non figurano come tali e che quindi non sono computabili.

Il costo ufficiale della guerra in Afghanistan per gli Stati Uniti dal 2001 al 2017 è stato di 827 miliardi di dollari (attualmente circa 45 miliardi l’anno) ma se si sommano questi costi aggiuntivi – accuratamente stimati da analisti delle università americane Harvard – e Brown la cifra raddoppia.

A questi vanno aggiunti i costi dei partner. Per l’Italia, ad esempio, si aggira attorno agli 8 miliardi di euro.

Una cifra mostruosa, in gran parte investita in un periodo segnato dalla più grande crisi economica che Europa e Stati Uniti abbiano mai attraversato. E se anche i risultati non fossero così drammaticamente fallimentari, è stata allocata sull’aspetto militare e non su quello di sviluppo civile.

Anche quantificare i fondi finiti in aiuti e sviluppo son difficili da quantificare, perché ad esempio le voci di sostegno non sono uguali da paese a paese. Tra il 2002 e il 2014 l’Afghanistan ha ricevuto 61,1 miliardi di Aiuti pubblici allo sviluppo (Oda), incluse cioè le spese umanitarie bilaterali e multilaterali dei paesi Ocse ed esclusi i fondi per la sicurezza locale. La discrepanza con i 113,2 miliardi investiti dagli americani per la ricostruzione dipende perlopiù, oltre che in parte dall’uso di una diversa metodologia, proprio dal fatto che in quest’ultima cifra – riferita peraltro anche al 2015 e al 2016 – gli aiuti alle forze di sicurezza afghane, dunque non di assistenza umanitaria, la fanno da padrona. Tabelle Oda alla mano, i tre paesi più generosi risultano essere stati finora di gran lunga Stati Uniti, Giappone e Germania.

Comunque una cifra immensa che ha finito per finanziare una macchina impressionante di corruzione. L’Afghanistan ritenuto 177° su 180 tra i paesi più corrotti al mondo.

Foto di Manuel Perini

Società

Il burqa e non solo

Uno dei simboli della campagna mediatica che, nel 2001, accompagnò la partenza delle truppe alla volta dell’Afghanistan, assieme a sconfiggere al-Qaeda (oggi il mondo è molto più insicuro di allora) era quello di liberare le donne afgane dal burqa.

Ci si guardò bene dal far notare come il burqa accompagna la vita delle donne afgane da molto, troppo tempo prima dell’arrivo dei talebani, ma la propaganda non può e non vuole essere accurata nei dati.

Oggi, in Afghanistan, se si escludono alcune sacche di positivo sviluppo umano a Kabul, è se possibile più grave, perché a una situazione di marginalizzazione sociale si è aggiunto il peso della guerra.

Che è fatta di violenze dalle quali fuggire per non morire, da parenti morti che lasciano in condizioni di assoluta disperazione madri, sorelle e figlie che non hanno alcun sostentamento, fino al peso di mutilati e feriti che, per sempre, incidono su bilanci familiari disastrati.

L’Afghanistan è nel gruppo dei paesi con il peggior Indice di Sviluppo Umano. Un indice che si basa su parametri come disuguaglianza di genere, tasso di mortalità materna, tasso di natalità, quota femminile di seggi in parlamento, popolazione con almeno una qualche forma di istruzione secondaria e tasso di partecipazione alla forza lavoro.

L’economia dell’Afghanistan è stata dipendente dagli aiuti stranieri negli ultimi anni e la presenza di un contingente che è arrivato a contare 120.000 soldati [internazionali] e 400.000 contractors ha creato una bolla speculativa che, arricchendo pochissimi, ha soffocato l’economia del paese per tutti gli altri, comportando un aumento dei prezzi e poi, ridimensionata la presenza straniera, ha lasciato dietro di sé un modello di sviluppo effimero.

Il reddito pro capite in Afghanistan è di almeno 779 dollari Usa, ci sono molte famiglie del paese che lottano per far fronte alle loro spese quotidiane, alcuni viaggiano verso i paesi vicini per lavorare e contribuire a migliorare il benessere finanziario della loro famiglia.

Secondo le statistiche, almeno il 39,1 per cento degli afghani vive in povertà – una percentuale maggiore rispetto allo scorso anno.

A questo si deve aggiungere che i rimpatri, togliendo i fondi della diaspora, peggiorano la situazione. Le scuole, sia per le donne che per i bambini, restano un miraggio per condizioni di sicurezza troppo precarie.

Secondo l’Unicef, il 40% dei bambini afghani in età scolare non può studiare. Mentre i dati del governo afghano riferiti al periodo 2010-2011 evidenziano come il 66% delle ragazze di età compresa tra i 12 e i 15 anni non possa frequentare la scuola. Tra i loro coetanei maschi, la percentuale scende al 40%.

Secondo una stima, le donne afghane costrette a sposarsi in maniera forzata e spesso precoce sono il 60-80 per cento.

In media, ogni donna afghana ha sei figli. Le bambine costrette a sposarsi hanno maggiori probabilità di subire violenza sessuale e violenza fisica: subiscono violenza tra i 10 a i 14 anni di età.
Il 95 per cento dei casi di suicidio in Afghanistan riguarda le donne. La ripetuta violenza fisica e i matrimoni forzati sono le cause più comuni.

Il burqa non era l’unico problema e quasi venti anni di guerra hanno aggiunto ai problemi sociali che già c’erano maggiore povertà, maggiore insicurezza, una società più violenta.

Pace, tregua, marcia

Un popolo che continua a lottare

A maggio 2018, migliaia di persone hanno percorso 700 chilometri a piedi da Lashkargah nel Sud sino a Kabul, dove sono arrivati in giugno per poi proseguire sino a Mazar-e-Sharif nel Nord. La marcia, autorganizzata e accolta con favore nei territori attraversati, chiede il cessate il fuoco immediato a tutte le parti in conflitto. Questo il testo del loro appello:

Lasciate l’Afghanistan agli afgani

Dopo l’11 settembre 2001 gli Americani e i loro alleati hanno deciso di combattere il terrorismo e dal 2003 i talebani sono stati sconfitti e con loro il terrorismo. Tutti dovevano quindi rientrare a casa. Ma il processo politico non è finito e l’Occidente ha permesso la riorganizzazione dei talebani con l’aiuto dei pachistani attraverso la riorganizzazione di campi e consentendo alla guerriglia di sopravvivere. E’ ricominciata una guerra sanguinosa che uccide migliaia di persone innocenti. Una guerra tuttora in corso.

Il processo di ricostruzione e sviluppo economico sono bloccati ed è ricominciata l’emigrazione e la fuga degli afgani dal nostro Paese. La coltivazione dell’oppio è cresciuta sotto un governo debole e corrotto che non ha nessun sostegno dalla popolazione e in questo modo i talebani hanno potuto crescere e conquistare villaggi e distretti. Poi è arrivato anche l’Isis che ha dato una scusa all’Occidente per rimanere in Afghanistan. Alcuni vogliono che l`Afghanistan diventi un campo di battaglia permanente e senza futuro come la Siria. Tutto ciò per giustificare la loro presenza.

Noi afgani siamo stanchi e non possiamo più sopportare il peso della guerra. Non ce la facciamo più. Chiediamo a tutti gli italiani e agli europei di aiutarci e mettere sotto pressione Nato e americani che non devono permettere la riorganizzazione della guerriglia e devono lasciare a noi come esseri umani il diritto di vivere in pace e avere un governo che sia scelto solo dagli afgani altrimenti questa situazione continuerà. E continuerà a coinvolgere anche tutti voi occidentali”.

Foto di Manuel Perini

La guerra dell’oppio

La grande risorsa strategica

Alla luce dei recenti dati forniti dal ministero afgano per la lotta alle droghe, in Afghanistan, sarebbero almeno un milione le donne tossicodipendenti, e insieme a loro oltre 100 mila bambini. Avete letto bene.

Secondo un’indagine governativa, effettuata per lo più nelle aree rurali del paese, molte cominciano perché i loro stessi mariti sono tossicodipendenti: la ricerca stima infatti a circa 3,6 milioni il numero dei tossicodipendenti e di coloro che ne subiscono le dirette conseguenze. Un milione sono ragazzi e ragazze di età inferiore ai 18.

Attualmente, i centri di riabilitazione nel paese che trattano specificamente donne e bambini sono venti in tutto, perché mancano i fondi. Il governo arresta i tossicodipendenti, li carica negli autobus e li porta nei centri di riabilitazione.

L’Afghanistan era ed è ancora il primo coltivatore al mondo del papavero (attività illegale ufficialmente), da cui vengono prodotti l’oppio e l’eroina. Secondo il rapporto annuale dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), nel 2017 il raccolto di oppio del paese si aggirava intorno alle 9.000 tonnellate, con un aumento dell’87% rispetto all’anno precedente.

Un vero e proprio boom, che va a riempire le casse dei signori della guerra e dei governanti corrotti. Secondo il report, l’aumento della produzione è dovuto principalmente ad un aumento dell’area coltivata a papavero da oppio, cresciuta fino a raggiungere il record di 328 mila ettari, in aumento del 63% rispetto ai 201.000 ettari del 2016. I papaveri da oppio crescono soprattutto nel sud dell’Afghanistan, nella provincia di Helmand, ma le coltivazioni si stanno espandendo anche nel nord e a ovest. Basti pensare che le province “poppy-free”, cioè quelle libere dal papavero, sono diminuite nell’ultimo anno da 13 a 10, con un conseguente aumento di quelle in cui si trovano le coltivazioni, passate da 21 a 24.

Laboratori e raffinerie sono così sorti un po’ ovunque e i programmi di eradicazione portati avanti dall’esercito Usa esistono – si stima che, dal 2002, gli Stati Uniti abbiano speso a questo scopo un cifra pari a 7,6 miliardi di dollari – ma si limitano a colpire gli effetti della produzione, e non le sue cause di fondo, rivelandosi di fatto inefficaci: le colture semplicemente vengono spostate altrove.

La diplomazia

L’eterno, infame, Grande Gioco

Mettetevi comodi. Pakistan, Russia, Cina, India, Usa, Unione europea. Sono gli attori principali, ma non gli unici, dell’eterno Grande Gioco, come i britannici chiamavano il gioco di influenze con la Russia nella regione.

Trump, nell’agosto 2017, come tutti i suoi predecessori, ha detto di avere la ricetta giusta per risolvere la grana Afghanistan. Mentre lo diceva, già che c’era, ha fatto testare uno degli ordigni più potenti del pianeta. Come fosse un poligono di tiro e non uno stato sovrano abitato da esseri umani.

Obama lanciò, dopo Bush junior, la Af-Pak Strategy del 2009, che segnava una rottura vera col passato, cosa che nelle idee di Trump non si vede. Immaginare di fare pressione sul Pakistan perché la smetta di destabilizzare il paese e di sabotarne il percorso di pace è utopico, se non in presenza di reali – dure – sanzioni ai pakistani che però per ora son rimaste solo parole al vento.

Puntare poi, ancora, su contro-terrorismo e contro-insurrezione in Afghanistan è ottimistico. Perché in diciassette anni non ha mai funzionato.

L’Iran è da sempre molto ambiguo verso un Paese del quale si dice fratello, ma che continua a manipolare, almeno nella parte di popolazione che si sente prossima per lingua e cultura a Teheran. La Russia, nel nuovo ridisporre gli equilibri in chiave anti-Nato, non può ignorare la presenza di una tale macchina da guerra alle sue porte e l’unilateralismo di Putin è sempre un elemento da considerare, almeno a livello diplomatico.

Storicamente la Cina ha verso le rotte di passaggio un interesse strategico – commerciale, mai militare, ma lo scacchiere del controllo reciproco e tattico con gli Usa pone Pechino in una posizione da un lato di ‘attenzione’, dall’altro di ‘interesse’, per i passaggi chiave della Nuova via della Seta – almeno potenziale – in Afghanistan.

Di tutte le strettoie della politica, però, mettendo in fila i dati drammatici di questi anni, quello che offende di più è vedere come oggi, a Doha come in Russia, i talebani siano considerati un necessario interlocutore. Un ritorno al passato, di base, agli anni della resistenza anti – comunista.

Ma oggi, questo passaggio, dopo la demonizzazione di un movimento integralista e armato, ma che non avrebbe resistito in forze per quasi venti anni, è la prova di come la propaganda ha agito in anni in cui la via diplomatica non si poteva e voleva considerare.

Articolo originariamente pubblicato su Q Code Magazine, che ringraziamo per la gentile concessione

Tutte le immagini dell’articolo: Manuel Perini