ITALIA

8 e 9 marzo, è ancora sciopero femminista
Quest’anno, lo sciopero femminista in Italia si articolerà a partire da due giornate di lotta lanciate da Non Una Di Meno con un appello e una Lettera aperta ai sindacati. Una mobilitazione che punterà a estendere la pratica dello sciopero a chi ne è esclusa e a farne motore per l’organizzazione sui territori
«A quattro anni dal primo sciopero femminista e transfemminista la sollevazione globale delle donne e delle soggettività dissidenti non si ferma e, sempre di più, segna e travolge tutte le lotte esistenti. Per questa ragione vogliamo lanciare una sfida moltiplicando tempi e luoghi della nostra rivolta: l’8 marzo sarà giornata globale di mobilitazione sui territori e il 9 marzo giornata di sciopero».
Cosi si apre l’appello di Non Una di meno alla due-giorni di lotta lanciata per il 9 e 8 marzo 2020.
La sfida si estende dunque a due giornate per segnare con azioni e piazze diffuse la simbolicità dell’8 marzo, rilanciata in questi ultimi 4 anni dal movimento globale femminista, e che culminerà il 9 marzo con lo sciopero generale chiamato dal movimento, proseguendo nel solco della riappropriazione dello sciopero come strumento eminente di lotta.
All’appello allo sciopero segue la lettera aperta ai sindacati a cui si chiede di garantire la copertura sindacale alle lavoratrici che vorranno scioperare in tutti i settori del pubblico e del privato, in un giorno – il lunedì – insolito ma in cui la produzione è a pieno regime.
«Uno sciopero femminista dal lavoro produttivo e riproduttivo, da quello normato e da quello informale, da quello dipendente, autonomo, precario, sottopagato o non pagato per niente. Da ogni forma di sfruttamento», scrivono le attiviste.
Uno sciopero che punta dunque a estendere la pratica anche a chi ne è esclusa, a farne motore di organizzazione sui territori e terreno di conflitto dentro il quadro di una sempre maggiore disparità di genere, economica e sociale. I sindacati sono chiamati a rispondere, in un momento dal punto di vista politico e sociale di grande incertezza e di scarso coraggio da parte del governo. La sfida è lanciata soprattutto ai sindacati confederali che in questi quattro anni non hanno mai accolto l’appello, così come invece accaduto in Spagna, ad esempio. Il rapporto tra movimenti sociali e organizzazioni sindacali in Italia è quantomai bloccato, soprattutto alla luce di quanto accade in particolare in altri paesi europei: l’esempio francese dello sciopero contro la riforma delle pensioni non pare aver smosso gli equilibri italiani in questo senso.
Lo sciopero femminista del 2020 costruirà un ponte con la domenica 8 marzo, domenica sempre più giorno di lavoro per le figure ultra-precarizzate del lavoro del turismo, del commercio, della cura. Giornata in cui il lavoro domestico gratuito non si ferma e, come riportato recentemente dal Rapporto sulle diseguaglianze di Oxfam, ricade pesantemente sul lavoro gratuito delle donne.
Nelle assemblee territoriali di Non Una Di Meno si prepara intanto lo sciopero a partire dalla necessità di approfondirne il carattere politico, sociale e vertenziale.
Sono molti infatti i punti di rivendicazione specifici, inseriti però in una visione di trasformazione quanto mai necessaria e radicale della riproduzione sociale: reddito di autodeterminazione come strumento di emancipazione, autonomia e indipendenza economica in particolare per le donne e per le persone migranti; salario minimo europeo, retribuzione piena ed equiparazione dei congedi di maternità e paternità per incidere concretamente sul gender pay gap, sulla disoccupazione femminile e sul ricatto che le donne subiscono per il rischio di scegliere se fare un figlio. Si tratta di porre con forza il tema della socializzazione della cura e dell’assistenza, di un welfare veramente universale, inclusivo e garantito che si fondi sull’autodeterminazione e sulla libertà di scelta. Ma non solo, consultori, centri antiviolenza e spazi femministi, sono terreni di vera e propria riappropriazione di welfare in chiave femminista, solidale e autogestita.
La sicurezza si riarticola come autonomia economica, dunque, e tra le rivendicazioni grande peso hanno un permesso di soggiorno europeo e la cittadinanza per chi nasce e cresce in Italia, l’abrogazione dei decreti sicurezza e la chiusura dei Cpr, dispositivi di violenza istituzionalizzata sui corpi delle persone migranti, in particolare delle donne, dentro e fuori i confini. La ridistribuzione della ricchezza è quindi nodo essenziale di autonomia e autodeterminazione ma intrecciata con la giustizia ambientale e la contestazione di un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento delle persone e delle risorse naturali.
«La nostra sicurezza è l’autonomia economica»: la grafica utilizzata per il lancio dello sciopero del 9 marzo riprende quella portata in piazza a Roma nella manifestazione nazionale del 23 novembre scorso, quando un “grido muto” ha riconnesso la lotta italiana con quella cilena e con le lotte che dall’India alla Francia, dall’Argentina all’Africa e al Medio Oriente vedono le donne in piazza. Con il flash mob “un violador en tu camino” ha restituito la forza e la diffusione capillare delle lotte femministe e transfemministe globali e la loro sostanza comune quella della violenza istituzionale ed economica, quella che intreccia neoliberismo, ordine patriarcale e deriva neoautoritaria.
Sull’onda di questa urgenza le donne si preparano di nuovo a incrociare le braccia: «Chiediamo di dare un segnale chiaro, pubblico, di sostegno concreto alla lotta che le donne stanno portando avanti da anni e che riguarda tutti. Il tempo dell’assunzione di responsabilità politica per un cambiamento sostanziale delle nostre vite è ora».
E adesso?