ITALIA

Blocco degli sfratti, prima prova politica del governo Draghi

Oggi si vota la rimozione del blocco degli sfratti, che rappresenta la prima vera prova politica del governo Draghi. I sindacati della casa manifesteranno a Roma e a Milano

Oggi il nuovo governo – che riceverà in settimana la fiducia – vota la rimozione del blocco degli sfratti, avviato a marzo 2020 e prorogato fino al 30 giugno 2021. Oltre 100 emendamenti sono stati infatti presentati dai gruppi parlamentari di Lega, Forza Italia, PD, Italia Viva, Fratelli d’Italia e M5s per far riprendere gli sfratti, in piena pandemia. Contro questa ipotesi i principali sindacati degli inquilini (Sunia, Sicet, Uniat e Unione Inquilini) manifesteranno a Roma in Piazza Montecitorio e a Milano. Asia Usb sarà invece davanti all’assessorato alla Casa del Comune di Roma, per poi spostarsi sotto la Regione Lazio, per chiedere misure strutturali per la casa. I presidi sono convocati per oggi alle ore 15.00.

 

La proroga o la rimozione del blocco degli sfratti è la prima vera prova politica del governo Draghi, dopo la sintomatica scaramuccia sulla riapertura della stagione sciistica.

 

È un tema che riguarda la fascia di popolazione più povera e più giovane, quella che abita in affitto, quella già colpita dal calo del reddito, dall’aumento della povertà e delle disuguaglianze, dalla riduzione dell’offerta di case a prezzi accessibili nelle grandi città, e dall’onda lunga delle crisi precedenti – basti considerare che il picco delle richieste di sfratti, nel 2016, corrisponde a una diminuzione dei valori immobiliari: con le riforme del mondo del lavoro i redditi più bassi sono crollati. Adesso gli stessi partiti responsabili dell’attuale scenario economico chiedono la ripresa degli sfratti, senza alcun piano per l’emergenza abitativa, mentre circolano le nuove varianti Covid-19 e si parla di terza ondata.

 

Uno scenario che colpirebbe gli ultimi. La Banca d’Italia stima che nel primo quintile reddituale della popolazione – fino a 15mila euro annui – la percentuale della popolazione in affitto sia il 45%. Per l’Istat sono addirittura il 47%.

 

È questa la fascia di popolazione che ancora sconta gli effetti delle due crisi precedenti (2008 e 2011), contestualmente a stanziamenti insufficienti ed enormi ritardi nell’erogazione dei sussidi per l’affitto e per la morosità colpevole negli ultimi anni. Non si conosce ancora il numero ufficiale di richieste di sfratti presentati nel 2020. Nel 2019 sono state emesse oltre 48mila sentenze di sfratto, quasi tutti per morosità, e quasi 26mila sono stati eseguiti con la forza pubblica.

A luglio, secondo Unione Inquilini, nella Capitale venivano depositate 100 richieste di sfratto al giorno. «Nella città di Roma, dove pendono 7.200 richieste di esecuzioni di sfratto, una misura del genere sarebbe devastante sia per le famiglie coinvolte che per la crisi pandemica che stiamo attraversando», si legge in una nota dei sindacati Cgil di Roma e del Lazio, Cisl di Roma Capitale Rieti, Cisl del Lazio e Uil del Lazio. «La povertà è in crescita esponenziale e colpisce, secondo l’Istat, 450 mila persone, con 27 mila cittadini che hanno fatto richiesta del reddito d’emergenza e 78.586 richiedenti il reddito di cittadinanza ai quali si aggiungono circa 650 mila lavoratori dipendenti e autonomi che stanno usufruendo di misure di sostegno al reddito per aver perso il lavoro». Il Comune di Roma ha stanziato 86 milioni di euro per l’acquisto di case per un fabbisogno stimato di 57mila famiglie in disagio abitativo. Case da cercare probabilmente sul mercato privato, dopo la vendita di 50mila case di enti, mentre prosegue il piano di vendita della case Ater, 7mila nell’ultima delibera, della Regione Lazio.

«Si continua a camminare pensando che la soluzione venga dalla vendita del patrimonio e dall’erogazione di bonus emergenziali. Viene ancora ignorata l’intera vicenda degli enti previdenziali che, con i loro processi di valorizzazione, stanno creando nuova emergenza casa» si legge nel comunicato di Asia Usb che mette in fila le criticità nella gestione del Comune e della Regione di un disagio abitativo ormai strutturale, a cui si risponde con provvedimenti contraddittori ed emergenziali.

 

Immagine dalla pagina Facebook di Rent Strike / Sciopero degli affitti

 

 

I numeri del disagio abitativo

Secondo una ricerca Nomisma del 2016, la metà di quanti abitano in una casa locata sul mercato privato – 1 milione 708mila famiglie su oltre 4 milioni – era in difficoltà con il pagamento dell’affitto già prima dell’emergenza Covid-19. Un quarto pagava l’affitto in ritardo.

 

Ci sono poi 700mila famiglie che abitano in un alloggio di edilizia residenziale pubblica, ma sono 650mila le domande inevase per l’accesso.

 

Con la pandemia il quadro è peggiorato: se un terzo delle famiglie intervistate dalla Banca d’Italia pare «non disporre di risorse finanziarie liquide sufficienti a far fronte alle spese essenziali nemmeno per un mese in assenza di altre entrate», il 30% ha difficoltà a pagare il mutuo, il 40% l’affitto. Sono tra le 600mila e le 800mila le richieste di contributo all’affitto presentate a livello nazionale durante la pandemia.

 

A Roma un terzo degli affittuari è in difficoltà: su 166mila famiglie in affitto 49mila hanno chiesto il contributo straordinario per l’affitto.

 

9.700 domande sono state accolte e riceveranno 245 euro – per tutto l’anno. Il Comune ha rigettato il 70% delle domande per presunti vizi di forma, e non ha ancora iniziato a lavorare le domande per il contributo affitto 2019, che saranno esternalizzate.

 

 

Le risorse

Per il 2020 il governo ha stanziato 140 milioni per il contributo all’affitto, oltre i 60 milioni di stanziamento pregresso, a cui bisogna aggiungere i 9,5 milioni stanziati sulla morosità incolpevole. Le Regioni hanno contribuito – il Lazio ha stanziato ulteriori 27 milioni di euro. Da sottolineare che questi fondi non sono ancora stati spesi. Per il 2021 sono previsti 260 milioni per il contributo affitto.

 

Vale la pena ricordare che i sussidi per calmierare il mercato privato sono l’unica forma di intervento pubblico nel settore della casa da quando negli anni Novanta si è smesso di costruire edilizia pubblica e si è iniziato a vendere le case pubbliche, incluse quelle degli enti.

 

La fine del finanziamento dell’edilizia pubblica – abolizione della Gescal nel 1998 i cui fondi residui non sono mai stati spesi – la dismissione del patrimonio pubblico – attraverso la legge 560 del 1993 – e l’introduzione dei sussidi all’affitto – legge 431 del 1998 che abrogava l’equo canone – individuano un chiaro atteggiamento del pubblico nei confronti della crisi abitativa, che all’epoca si credeva superata con l’incremento della proprietà. Ma che dal 2013 ha ripreso in forma consistente, e che dopo la pandemia esploderà.

È un po’ come se si fosse smantellata la sanità pubblica scegliendo di erogare sussidi per prestazioni con la sanità privata convenzionata. Del resto in Italia il diritto all’abitare non è costituzionalmente riconosciuto ma, come scrive la Corte dei Conti, risulta «condizionato finanziariamente (dalla disponibilità di risorse pubbliche) e non ha ottenuto, come accaduto invece per il diritto alla salute, una parametrazione in termini di livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale».

 

In poche parole, il diritto alla casa è condizionato alle risorse economiche disponibili e non a una stima del fabbisogno, che infatti non esiste.

 

Così se le Regioni chiedevano 550 milioni per il contributo all’affitto straordinario in base a una stima delle domande pregresse, il governo ne stanziava 140. Per lo stesso motivo, negli anni passati il contributo all’affitto è stato azzerato proprio in corrispondenza dell’aumento degli sfratti, nel 2012 e nel 2016. Ma anche quando i fondi ci sono, non è detto che poi vengano erogati: la metà delle risorse stanziate per il fondo morosità incolpevole per l’ultimo quinquennio non sono state spese.

 

Cgwiki & Elisa P. da commons.wikimedia.org

 

È evidente che la scelta di calmierare il mercato privato non ha funzionato, così come il cosiddetto social housing, definizione appiccicata a un piano di edilizia privata finanziata con soldi pubblici finalizzato alla vendita, è marginale e non intercetta la famosa fascia grigia, quella dei working poor, stritolata dal crollo dei redditi, che si ingrossa a ogni crisi. La possibilità di far ripartire gli sfratti arriva in assenza di un piano organico, strutturale, e aggiornato rispetto agli anni Novanta, sulla casa.

 

È altrettanto evidente che il problema non è la mancanza di case, e forse neanche di risorse, quanto di un piano, di un progetto, di una visione per un futuro in cui allo stato attuale il benessere economico e l’accesso alla casa è determinato dalla ricchezza familiare.

 

A marzo, dopo quarant’anni di politiche neoliberiste, l’arrivo della pandemia ha reso evidente la centralità del welfare pubblico e la necessità di una redistribuzione di risorse. Oggi sapremo se questo sentire diffuso sarà definitavene archiviato dal nuovo governo e dagli istinti conservativi che lo animano.

 

Immagine di copertina da archivio