ITALIA

194 quarant’anni dopo, la difesa di una conquista

Sabato 26 maggio alle 17 partirà da piazza dell’Esquilino il corteo per i quarant’anni della legge 194 che depenalizzava l’aborto. Una legge frutto delle lotte femministe che ancora oggi non vede la sua piena applicazione a causa dell’obiezione di coscienza e subisce attacchi continui

Un ago di ferro sottile, uncinato, che entra nel corpo. Uno strumento non asettico guidato dalle mani di una mammana, poco sapienti ma avvezze ai movimenti. Un tavolo freddo su cui si svolge la procedura. Il dolore. Le emorragie, spesso mortali. La setticemia, la febbre, le infezioni, l’impossibilità di rivolgersi a un ospedale perché quello appena compiuto è un atto illegale che conduce in carcere, un “delitto contro l‘integrità della stirpe” secondo il Codice Rocco, ancora vigente e approvato in epoca fascista. La più completa solitudine.

Ecco cosa era l’aborto prima della legge 194. Praticato in maniera clandestina da decine di migliaia di donne che si rivolgevano, quando andava bene, a qualche ginecologo “ribelle”, quando andava male a qualcuno che ne comprometteva per sempre la salute, se non la vita.

Nel 1973 si apre il processo a Gigliola Pierobon, ricorsa all’aborto clandestino sei anni prima. L’atto privato svolto in solitudine squarcia il silenzio, irrompe nel pubblico e avvia il percorso che porterà alla depenalizzazione dell’aborto. Infatti, quando la giovane ragazza padovana dichiara che il suo rea
to è lo stesso commesso da milioni di donne, in tante ovunque nel Paese cominciano ad autodenunciarsi per quella fattispecie di reato. Gli anni che seguono saranno quelli delle piazze piene. Fra le ventimila donne che invadono Roma il 6 dicembre 1975, l’occupazione del repartino IVG del Policlinico Umberto I a Roma, la nascita dei consultori e la concomitante esplosione del movimento operaio, saranno anni di conquiste dei diritti civili: la legge sul divorzio del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, e, pochi giorni prima della 194, la legge Basaglia che rivoluzionava il concetto di salute e malattia mentale. Anni di lotte ma anche di resistenze di fronte a una rinnovata e rafforzata stretta legalitaria attorno al tema dell’aborto e almovimento femminista. Nel gennaio del ’75 per l’apertura a Firenze di una clinica dedicata alle IVG finiranno in carcere tanti e tante esponenti dei Radicali: il dr. Conciani, Giovanni Spadaccia (unico segretario di partito arrestato dai tempi del fascismo), Emma Bonino, Adele Faccio (dopo un intervento al teatro Adriano davanti a migliaia di persone). Sarà denunciato il direttore dell’Espresso per una copertina giudicata “contro la morale”, che ritraeva una donna in stato di gravidanza crocifissa. Centinaia le donne processate per “procurato aborto” in seguito all’atto di protesta dell’autodenuncia, come Alma Sabatini e Maria Luisa Masera, molte di più quelle che le sosterranno in ogni udienza fuori e dentro i tribunali con i “girotondi”.

Alla fine, dopo la lunga mediazione fra l’Unione Donne Italiane e il PCI di Berlinguer si completa l’iter parlamentare in cui si giunge al compromesso dell’obiezione di coscienza: il 22 maggio del 1978 la legge 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, viene pubblicata in Gazzetta ufficiale. L’aborto non è più un reato. Può essere praticato in tutta sicurezza e gratuità negli ospedali pubblici. La legge 194 è una legge dello Stato, è una legge che riguarda provvedimenti di salute pubblica ma è una legge figlia delle lotte e delle rivendicazioni tenaci di decine di migliaia di donne portate avanti in un momento di tumulto sociale, anche quando veniva loro chiesto di fare un passo indietro di fronte alla gravità del rapimento di Aldo Moro. Seppur imperfetta, gravata dal peso dell’articolo 9 e con un titolo che tende prima a salvaguardare la maternità e poi il diritto all’aborto, la 194 è una legge che guarda alla lotta femminista: tende ad anteporre l’esigenza privata delle donne e le rivendicazioni che queste fanno sull’autodeterminazione del proprio corpo al disciplinamento che tradizionalmente su di esso veniva esercitato in maniera coercitiva, slega la dimensione sessuale da quella riproduttiva e, sebbene ne chiarisca il dovere sociale, quasi darwiniano, di perpetuare la specie, consegna loro la possibilità e non l’obbligo di essere madri, che diviene una scelta fra le opzioni possibili. Inoltre, senza l’articolo sull’obiezione di coscienza, toglie quel senso di colpa punitivo che trasformava l’aborto in un dramma, in una scelta sofferente, sgrava la donna dal peso di aver compiuto un atto grave poichè illegale quando può essere vissuto semplicemente come una ineluttabile conseguenza delle condizioni materiali di vita senza tormenti psicologici.

Nel 1981 un Referendum abrogativo proposto dal Movimento della Vita mette di nuovo in discussione la legge, ma il 68% dei votanti si esprime contro l’abrogazione, confermando la conquista che nei tre anni precedenti era stata osteggiata con ogni mezzo dai pro-vita.

Quarant’anni dopo, bisogna ancora difendere quella conquista e portare luce sulle ragioni dietro la negazione fattiva del diritto che garantisce.

I populisti che guardano al blocco di Visegrad vanno al governo scrivendo contratti (in un tavolo di dodici uomini e una sola donna) che non accennano minimamente al tema di contrasto della violenza di genere, parlano di “patria potestà” e impongono la mediazione genitoriale senza se e senza ma. Non è una coincidenza che l’anniversario della 194 cada a pochi giorni dalla polemica sui cartelloni firmati CitizenGo, poi rimossi, che denunciavano l’aborto come prima causa di femminicidio. Invece è una beffa che cada un giorno dopo l’incontro avvenuto in Campidoglio fra le attiviste della Casa Internazionale delle Donne e la Giunta pentastellata che, senza nessuna volontà di mediazione, propone la messa a bando degli innumerevoli servizi svolti gratuitamente dalla Casa e la destituzione politica del progetto, inserendovi altre associazioni e collettivi senza discernimento né rispetto per la collettività che anima quel luogo da più di 40 anni, poiché non ha raggiunto gli obiettivi “di mercato”.

Oltre a considerazioni più generali e circostanziate, a chiarire il motivo per cui la piena applicazione della legge è resa difficile dall’obiezione di coscienza sono direttamente i dati forniti dalla Ministra Lorenzin nella relazione annuale obbligatoria sulla legge 194. Quattro ospedali su sei non effettuano alcun tipo di intervento per l’interruzione di gravidanza, inventando una sorta di obiezione di struttura, per mancanza di medici e mediche non obiettori, la cui percentuale raggiunge e talvolta sfora il 90% del totale. Nel Lazio, dove gli obiettori sono il 77% e il tempo medio di attesa per l’intervento è di 14 giorni, a fronte di più di 9000 interruzioni solo 1400 sono state praticate con la RU486, la pillola abortiva, più “veloce” dell’intervento chirurgico, meno rischiosa e meno onerosa. Allo stesso tempo il numero delle IVG è in netto calo, con un’impennata al ribasso negli ultimi due anni. Se questo da un lato è imputabile al fatto che sia sempre più difficile accedere agli interventi per l’esiguo numero di non obiettori, dall’altro è merito della diffusione della contraccezione e, dal 2015, della liberalizzazione della vendita della pillola del giorno dopo, la Norlevo, precedentemente sottoposta a obbligo di ricetta. In risposta, il 17 maggio, quindi a pochi giorni dalla sua destituzione, la ministra di espressione cattolica sferra l’ultimo attacco della sua crociata antiabortista. È stata infatti aggiornata la Farmacopea, ovvero l’elenco dei farmaci obbligatori nelle farmacie, dalla quale la pillola del giorno dopo così tanto determinante è stata stralciata. De facto si introduce così la possibilità di obiezione di coscienza per i e le farmacist*, nonostante vi siano già due disegni di legge in materia che sono stati bocciati.

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Non è un caso che ieri mattina il movimento Non Una di Meno abbia scelto l’ospedale Fatebenefratelli come luogo di lancio del corteo del 26 maggio e rivendicazione delle richieste in materia di salute elaborate nel Piano Femminista contro la violenza maschile e di genere. Ancora oggi, più di un miliardo di fondi pubblici per la sanità viene dirottato verso gli ospedali di proprietà del Vaticano. Nella maggior parte dei casi sono luoghi nei quali esistono reparti di ostetricia e ginecologia che effettuano le diagnosi prenatali (inquadrate nei LEA e quindi rimborsabili) ma non le IVG a discapito della continuità assistenziale. Le richieste del movimento sono semplici: gratuità della contraccezione, prolungamento del tempo di somministrazione della RU486 fino a 63 giorni, in regime di day-hospital e anche nei consultori (che vanno rifinanziati), una sanità laica, gratuita e pienamente accessibile con o senza documenti, la piena applicazione della legge 194 e l’indirizzamento degli obiettori verso altre specializzazioni.

Si scende in piazza quarant’anni dopo la conquista di un diritto per vederlo pienamente applicato, per estenderlo, per difenderlo da chi lo vorrebbe cancellare. Si scende in piazza contro chi vorrebbe riportare le donne su quei tavoli a farsi martoriare da attrezzi da macellaio. Si scende in piazza contro chi vorrebbe ancora una volta con il dolore e la solitudine imposte controllare i desideri, i corpi e le necessità delle donne.