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1929-2020: Cosa ci insegnano le lotte proletarie della Grande Crisi

Mutualismo, economia informale, auto-organizzazione di quartiere e manifestazioni di massa. La storia di alcune forma di sindacalismo sorte con la Grande Crisi del ’29 può dare spunti su come affrontare l’emergenza in corso.

Quella del movimento sindacale americano a cavallo del New Deal è una tappa obbligata. Una di quelle storie che funziona da autocoscienza delle lotte. Ci si ritorna su ogni qual volta si discute di crisi capitalistica e si rimette a tema, nelle continuità e soprattutto nelle tante rotture, il rapporto che lega lotte e riforme. La verità è che gli anni prima del New Deal non furono segnati solo da lotte operaie. C’è stato un «altro movimento», meno duraturo, trascurato nella storiografia di parte, che ha riguardato le organizzazioni di disoccupati: ex-operai che persero il lavoro nel ‘29, poveri dei sobborghi delle principali città dell’East Coast, i primi neri che qui avevano trovato casa.

 

Tra il 1930 e il 1933 queste organizzazioni diedero vita a un’articolata serie di iniziative, tra esperimenti di mutualismo e invenzione di istituzioni non statuali, prototipi di economia informale e sistemi di distribuzione non di mercato di beni e servizi, esercizi di pressione sul potere politico e marce metropolitane.

 

Un ricco ventaglio di pratiche, che insieme alle lotte operaie, costrinse Roosevelt alla svolta welfaristica.
La crisi del ’29 provocò una rapida e violenta esplosione di disoccupazione; la massa dei senza-lavoro passò da 492 mila dell’ottobre 1929 a oltre 4 milioni nel gennaio 1930, per poi salire ancora meno di due anni dopo, a oltre 10 milioni di disoccupati nel ’32, più di 13 milioni l’anno successivo. In questo quadro si formarono le prime organizzazioni di disoccupati.

 

Le realtà più significative nacquero sulla costa del Pacifico. Morgan, uno storico locale, descrisse la più importante di queste organizzazioni – la Unemployed Citizens’ Alliance di Seattle – rinominata da un giornalista come «La repubblica dei pezzenti».

 

Si trattò di una lega a cui i proletari accedevano gratuitamente, senza funzionari stipendiati, che nell’autunno del ’31 arrivò ad avere oltre 50 mila associati. Un’organizzazione mutualistica, nata con lo scopo di assicurare la riproduzione sociale degli aderenti. I membri si cucivano reciprocamente i vestiti, facevano lavori idraulici, riparavano auto, aggiustavano case, tagliavano legna, raccoglievano i prodotti della terra.

 

Code a Wall Street durante la crisi del ’29

 

Ognuno faceva il lavoro che sapeva fare, ricevendo in cambio ciò di cui aveva bisogno. Nella “repubblica dei pezzenti” nacque, di fatto, un’economia di baratto informale, «la sola moneta era data dal lavoro onesto», scrisse un anonimo osservatore. I poveri si riconobbero tra loro in quanto produttori e contrapposero alla circolazione delle merci, la circolazione dei valori d’uso: e non certo avevano mai letto né Ricardo, né tanto meno Marx. L’organizzazione era stata fondata su forti basi democratiche con una radice territoriale. Successivamente si federò con altre realtà similari nella United Producers’ League che copriva lo Stato di Washington.

 

Un aspetto rilevante di questa esperienza non fu solo associato alla dimensione di “solidarietà orizzontale” tra i soci. A questa, si aggiunse la capacità di strappare al municipio il controllo dei fondi disponibili per i sussidi. Il self-help, quindi, veniva bilanciato dalle azioni per il controllo sulla spesa pubblica.

 

Esperienze analoghe si diffusero dall’estate del ’32 nella California del sud, quando le leghe di Washington entrarono in declino. Nacquero delle cooperative che diedero vita alla Unemployed Cooperative Relief Association, che raggrupparono nella sola contea di Los Angeles oltre 90 realtà. Lo scopo fu quello di realizzare un sistema di scambio non di mercato di «buoni», fondato sul ricorso a una sorta di banca emittente, il Los Angeles Cooperative Exchange. Questo sistema durò fino al New Deal, quando prese corpo la politica federale di aiuti.

 

Theodore Roosevelt

Accanto a queste pratiche si diffusero nelle grandi città lotte sui fitti, contro gli sfratti e i pignoramenti. Furono organizzati rent-parties, feste per autofinanziare la casa delle famiglie più povere, esperienze numerose nella città di Chicago. Si trattò di un numero piuttosto ampio di leghe di quartiere, diffuse spontaneamente, che fronteggiavano gli ufficiali giudiziari, riallacciavano acqua e luce quando venivano staccate.
Non furono mai teorizzate, ma si praticarono forme di illegalità di massa. Le più significative quelle del cosiddetto bootlegging.

 

Gli ex-minatori del Kentucky o della Pennsylvania entravano nelle miniere oramai ferme per la crisi, estraevano senza permesso minerali e diedero vita a una vera e propria «industria informale» che salvò dalla miseria migliaia di subalterni.

 

Ovviamente furono organizzate grandi dimostrazioni. Le prime furono le «marce della fame» su Washington del ’31 e del ’32, principalmente organizzate dal partito comunista, che chiedevano maggiori sussidi pubblici. La maggioranza delle manifestazioni di massa, tuttavia, furono spontanee, non per questo non organizzate, spesso concluse con la repressione poliziesca. Le lotte dei disoccupati si intrecciarono talvolta con le lotte operaie, non solo nei cortei, ma anche nelle pratiche quotidiane di solidarietà.
All’inizio del ’33 questo movimento fu messo alle corde, quando Roosevelt stava per andare al governo.

 

Il Welfare State americano nasce anche grazie a queste lotte e aveva ovviamente anche lo scopo di riportare allo Stato il controllo politico della riproduzione sociale, sottraendolo dall’autorganizzazione proletaria.

 

Il partito comunista americano non fu ostile al progetto statuale roosveltiano, mentre le leghe lamentavano la perdita del “controllo politico” dal basso. Il Welfare State stava per nascere, ma stava anche per cambiare la distribuzione di potere nella società.
Perché va riacciuffata questa storia? Di certo, la crisi del ’29 presenta grandi differenze con la crisi attuale. Così come la composizione dei movimenti dei disoccupati americani di allora non è paragonale all’attuale «esercito industriale di riserva» delle nostre città, reso potenzialmente “illimitato” dalla condizione di precarietà generalizzata, segnato da confini e fratture interne legate al genere e alla razza.

 

Brigate volontarie per l’emergenza Covid-19

 

Eppure, è proprio lo sviluppo diffuso di pratiche mutualistiche, legate alle spese solidali o a contemporanee forme di cura reciproca, diffuse dentro questa crisi che merita un’ulteriore riflessione. Nelle attuali condizioni la disoccupazione e la povertà sono fenomeni del tutto interni alla moltiplicazione delle figure del lavoro, e le pratiche di mutualismo dei poveri sono sempre più potenzialmente collegabili alle lotte nel lavoro.

 

Allo stesso tempo, la necessità di trovare forme di organizzazione stabili, come nella storia appena descritta, oggi sarebbe persino favorita dalla possibilità di contro-utilizzare piattaforme cooperative in grado di sviluppare istituzionalità pubbliche non statuali.

 

L’esperienza dei nuclei di disoccupati degli anni Trenta, ci conferma anche, quanto le lotte degli ultimi anni avevano già appreso, ossia che non esiste nessuna alternativa tra lotte mutualistica e la pretesa di una maggiore spesa pubblica per un Welfare universale. Anzi, è proprio la co-esistenza di questo “dualismo di potere”, che assicurerebbe una maggiore democratizzazione delle istituzioni della protezione sociale.