ROMA

Gli assistenti educativi in sciopero a Roma il 12 dicembre

Gli Assistenti Educativi Culturali sono in lotta per il loro riconoscimento e per garantire la qualità del servizio nelle scuole: nonostante una Delibera di iniziativa popolare, il Comune rimane latitante

È stato proclamato per giovedì 12 dicembre dai sindacati di base lo sciopero generale cittadino degli AEC/OEPA di Roma. Che per la prima volta nella storia del servizio gli Assistenti Educativi Culturali abbiano deciso di astenersi dal lavoro per un’intera giornata, è segno che la situazione è giunta all’esasperazione. Ma cominciamo dall’inizio: chi sono gli AEC? A chi, per qualsivoglia motivo, abbia a che fare con il mondo della scuola, la sigla non dovrebbe risultare nuova; per tutti gli altri invece facilmente suonerà enigmatica.

L’Assistente Educativo Culturale (o OEPA, come da nuovo acronimo di Operatore Educativo Per l’Autonomia) è una figura esistente ormai da decenni nelle scuole di tutta Italia (anche se la denominazione varia di regione in regione) e si occupa di favorire l’inclusione scolastica e l’autonomia degli studenti con disabilità.

Se nel discorso pubblico la loro esistenza è stata fino a poco tempo fa totalmente misconosciuta, all’interno del sistema scolastico questi lavoratori costituiscono invece delle vere e proprie colonne portanti. Oltre a garantire l’effettività del diritto all’istruzione dei bambini con disabilità, l’Assistente Educativo rappresenta per loro il più importante punto di riferimento, essendo la figura scolastica con cui spesso trascorrono il maggior numero di ore e con la quale, per diversi motivi, instaurano un rapporto più ravvicinato e in qualche modo “confidenziale”: per dirlo con le parole di una lavoratrice, gli AEC sono coloro che «sono abituati a guardare il mondo dall’altezza degli occhi dei loro bambini».

 

La funzione educativa

Il nuovo regolamento adottato nel 2017 dal Comune di Roma (che riguarda circa 2500 lavoratori e in base al quale è stato reso obbligatorio uno specifico corso di formazione, spesso a carico del lavoratore stesso) attribuisce agli AEC una funzione educativa, di mediazione comunicazionale, per la quale sono necessari elementi e competenze basilari di psicologia. Risiede qui la prima grande anomalia: perché, seppure gli Assistenti Educativi sono spesso educatori o psicologi laureati e a pieno titolo, queste competenze espressamente richieste dal Regolamento non trovano però riscontro nel contratto nazionale al quale la categoria afferisce. In parole povere gli Assistenti Educativi svolgono un certo tipo di lavoro ma sono pagati secondo un inquadramento contrattuale di almeno tre livelli inferiore a quello che sarebbe adeguato.

 

Una precarietà strutturale

Questo è però solo uno dei tanti motivi, e neanche il più importante, per i quali i lavoratori hanno indetto lo sciopero. Il vulnus più grave risiede infatti nella precarietà endemica e strutturale alla quale sono sottoposti il servizio, il loro lavoro e, di conseguenza, le loro esistenze.

Il servizio di assistenza educativa è infatti concesso in appalto a Cooperative sociali (che di sociale e mutualistico mantengono oramai soltanto il nome) attraverso bandi di gara al massimo ribasso economico, dalla cadenza più o meno biennale. Questo semplice ma enorme fatto comporta tutta una serie di gravissime conseguenze: sono innanzitutto minate alla base la qualità, l’efficacia e l’efficienza dell’intervento educativo il quale, fondandosi primariamente sulla continuità della relazione che si stabilisce tra operatore e alunno, è reso invece frammentato, contingentato dai continui cambi d’appalto ed estremamente faticoso per tutte le parti in gioco. I lavoratori sono così costretti a migrare di anno in anno da una cooperativa all’altra, ricominciando ogni volta il lavoro da capo, trovandosi continuamente ad aver a che fare con nuovi datori di lavoro e diverse condizioni lavorative, spostati come pacchi postali all’interno di uno scacchiere caotico e pressoché insensato.
Il lavoratore si trova inoltre a vivere una situazione paradossale: è un dipendente privato all’interno di una struttura pubblica (la scuola), un escluso la cui mansione è quella di favorire l’inclusione, un operatore il cui compito è prendersi cura, quando nella sua vita privata a malapena riesce a prendersi cura di se stesso.

Infatti, oltre a ricevere una paga oraria già infima di per sé, l’AEC viene rispedito a casa senza compenso giornaliero qualora l’alunno in carico sia assente, non vede spesso riconosciuto il diritto alla retribuzione dei primi tre giorni di malattia, non viene pagato durante i molti giorni di chiusura della scuola (parliamo di scioperi di insegnanti e/o personale Ata, chiusure straordinarie per neve o maltempo, ponti, festività e, dulcis in fundo, vacanze estive). In pratica su 12 mesi l’AEC riceve lo stipendio, in media, per soli 8/9 mesi l’anno, costretto nel tempo restante a trovare espedienti per sopravvivere.

Oltre il danno, però, c’è la beffa: per effetto di leggi perverse, durante i mesi estivi il contratto di lavoro con la cooperativa risulta ancora in essere, è “solamente” sospeso, motivo per il quale il lavoratore, anche se di fatto disoccupato, non può accedere alle misure previste dal welfare, né tanto meno cercare un altro lavoro.
Se già a questo punto vi sembra di essere finiti alla fiera dell’ingiustizia e dell’insensatezza, tenetevi forte, perché non abbiamo ancora finito. Solo una percentuale irrisoria di Aec ottiene dalle cooperative contratti full time: la stragrande maggioranza lavora per un massimo di 20-25 ore a settimana e risulta impossibile per loro portare avanti un altro lavoro in maniera stabile, poiché i turni sono spesso dislocati in mezzo alla giornata, essendo molto richiesta da parte delle scuole la copertura delle ore centrali e pomeridiane.

A volte l’operatore può trovarsi a dover sostenere una giornata lavorativa di 8 ore senza che gli sia riconosciuto il diritto al pasto. Nelle mense scolastiche non è infatti previsto il vitto per gli AEC, tanto meno le cooperative erogano i buoni pasto, pertanto si può facilmente arrivare al paradosso per il quale l’operatore debba presenziare a mensa per assistere il bambino, dunque sedersi al tavolo con la classe, ma non possa nutrirsi egli stesso!

Accenniamo poi rapidamente (non certo perché irrilevanti) alle mansioni improprie che regolarmente vengono richieste agli AEC (assistenza igienica, somministrazione di medicinali, sorveglianza della classe, ecc.) da scuole e insegnanti. Il rischio di burnout dopo appena qualche mese di lavoro è insomma dietro l’angolo. L’elenco delle assurdità e illegalità con le quali si trova ogni giorno a confronto un AEC potrebbe continuare ancora a lungo, ma per ora ci fermiamo qui. Perché c’è anche un’altra storia altrettanto importante da raccontare.

 

La battaglia del Comitato Romano

Stanchi di sopportare in silenzio tali umilianti condizioni di lavoro, alcuni lavoratori si sono infatti autonomamente organizzati in un Comitato, nel quale confrontarsi, costruire solidarietà e soprattutto forme di lotta per uscire dalla condizione di sfruttamento e precarietà. Il frutto più importante del lavoro del Comitato Romano AEC consiste in una Delibera di iniziativa popolare presentata quasi sei mesi or sono al Consiglio comunale capitolino, per la quale sono state raccolte ben 12mila firme, più del doppio di quelle necessarie per legge alla proposta di una Delibera.

La Delibera in questione, a fronte di una situazione tanto ingarbugliata, è in realtà semplice, non perché retorica o simbolica, ma in quanto individua una sola soluzione possibile, concreta e radicale, all’ingiustizia strutturale sulla quale si regge il sistema: l’internalizzazione nell’Amministrazione capitolina del servizio di Assistenza Educativa.

 

Le risposte ai detrattori

Chi contesta la pretenziosità di un simile obiettivo, in tempi nei quali la risposta “non ci sono coperture sufficienti” è una sorta di ossessivo mantra, può ben trovare ai suoi dubbi risposte semplici quanto incontrovertibili: innanzitutto le 12mila firme raccolte in pochi mesi, testimonianza di un disagio estremo e diffuso che non può rimanere inascoltato.

Entrando poi nel merito della questione delle coperture finanziarie, il Comitato ha messo davanti agli occhi dei detrattori le cifre spese dall’Amministrazione capitolina per il finanziamento del servizio in appalto: se il Comune eroga per il servizio circa 20 euro l’ora, di questi solo 7 entrano direttamente nelle tasche del lavoratore, gli altri si perdono nelle maglie e nei meccanismi oscuri di una burocrazia e di strutture che producono sprechi e inefficienze. Calcolando anche le enormi cifre spese per approntare i bandi di gara, l’internalizzazione, lungi dal prevedere una spesa insostenibile per l’Amministrazione, sarebbe invece l’occasione per una riduzione degli sprechi, un miglioramento dell’efficienza, una razionalizzazione della gestione delle risorse e, probabilmente, perfino un risparmio di denaro. Siamo di fronte alla dimostrazione pratica che l’assioma ideologico neoliberista “privato è meglio” non si traduce automaticamente in verità di fatto.

Esiste infine un’ineludibile questione politica: il servizio che garantisce il diritto allo studio degli alunni con disabilità e svantaggio sociale non può essere affidato a strutture private che lavorano spesso senza alcuna conoscenza del campo e del territorio e gestiscono le risorse in maniera burocratica e aziendalistica. I diritti dei lavoratori e degli utenti di un servizio fondamentale come l’assistenza educativa non possono essere mercificati e vincolati a mere logiche concorrenziali e economicistiche. Essi devono essere riconosciuti come elementi fondanti di una società giusta e inclusiva, nonché come preziosa risorsa per l’arricchimento complessivo della comunità cittadina e statale.

 

Municipi favorevoli, Comune latitante

A concreta testimonianza di ciò stanno i voti espressi dai Consigli municipali di Roma, gli enti effettivamente più prossimi alle realtà territoriali ove si svolge il lavoro quotidiano, dunque quelli che meglio conoscono le reali esigenze del servizio: su cinque Municipi (il III, il V, l’VIII, il XII e il XIV) che finora si sono espressi, tutti hanno approvato all’unanimità una mozione di sostegno alla Delibera di iniziativa popolare.

Il Comune, di fronte a una tale mole di fatti, sembra però essersi trincerato in se stesso e continua a fare orecchie da mercante: i sei mesi di tempo che aveva per esprimersi sulla proposta sono agli sgoccioli. Ma gli AEC sono stanchi di restare isolati e in silenzio e hanno deciso di prendere in mano il loro destino mettendo il Comune con le spalle al muro: il 13 dicembre è il termine ultimo possibile per votare, per chiarire insomma la posizione di Assessori e Amministrazione in merito ai diritti degli alunni con disabilità e dei lavoratori dell’assistenza scolastica.
Per questo giovedì 12, dopo aver comunicato tramite una lettera aperta le ragioni della loro protesta alle famiglie e averle invitate a unirsi a loro, gli AEC diserteranno le aule in cui quotidianamente lavorano e si incontreranno sotto il Campidoglio per pretendere una volta per tutte ciò che non può più essere rinviato: qualità del servizio, diritti lavorativi e internalizzazione. In una parola: dignità.

 

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