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La bomba vista da Kadıköy

Come sta cambiando la società turca? Quali sono le conseguenze della bomba di Ankara sulla vita della popolazione? Uno sguardo su cosa avviene a Kadikoy, uno dei quartieri di Istanbul più frequentato dai giovani e dagli studenti. Leggi anche: ÊdÎ Base. Ora basta

Da sabato mattina il quartiere della parte asiatica di Istanbul, Kadikoy, è avvolto da una rabbia triste e silenziosa. L’effetto è surreale, dal momento che si tratta di un quartiere per lo più di giovani, come tutta la Turchia del resto, e pieno di locali. Il silenzio è cosa strana.

Tra le vittime del massacro di Ankara, tra gli altri, ci sono ragazze e ragazzi partiti da Istanbul. Qui, tutti quelli con cui ho parlato conoscevano qualcuno che è stato ferito o assassinato dalle esplosioni di sabato mattina. A Kadikoy, allo sciopero indetto dai sindacati organizzatori della marcia per il Lavoro, la Pace e la Democrazia di sabato ad Ankara,hanno aderito anche i locali e i caffè. La vita si ferma davanti a quello che è successo ed è proprio questo lo slogan dello sciopero, #HayatıDurduruyoruz.

Ieri ed oggi, ragazze e ragazzi, nei punti nevralgici del trasporto pubblico metropolitano, distribuivano stiker da mettere al petto. Sugli adesivi c’era scritto: “Stiamo soffrendo, siamo furiosi, siamo a lutto, ci ribelleremo”. Invitavano a scioperare. Lo sciopero è stato indetto per due giorni, lunedì 12 e martedì 13, e per quel che riguarda il mondo della scuola, dell’università e di alcune fabbriche importanti è stato molto partecipato. Insieme allo sciopero ci sono stati numerose commemorazioni dei morti in tutto il paese. Anche ad Istanbul.

Al porto di Kadikoy ieri mattina, molto più di altre mattinate, la polizia era presente in maniera massiccia. Era stata indetta una manifestazione commemorativa nella parte europea della città. Il dirigente della polizia del quartiere in cui la manifestazione si sarebbe dovuta svolgere non ha dato l’autorizzazione. Le persone che vivono a Kadikoy e che sarebbero volute andare a ricordare vittime dovevano prendere il classico battello che collega le due sponde della città. La polizia in borghese e in assetto antisommossa è intervenuta in maniera infame e brutale e non ha concesso loro nemmeno la possibilità di avvicinarsi all’imbarcazione.

Da queste parti, quando c’è una manifestazione, sin dai tempi della rivolta di Gezi Park, la polizia perquisisce chiunque. Ad Ankara, invece, erano del tutto assenti. Salvo ricomparire dopo, per sparare lacrimogeni contro chi cercava di portare soccorso ai feriti. A Diyarbakir e a Adana, durante le potreste dell’altro ieri, contro la completa mancanza di misure di sicurezza della manifestazione di Ankara, negli scontri con la polizia sono rimasti uccisi un bambino di 12 anni e uno di 3. Non sono gli unici. In tutte le città del Kurdistan turco, da quest’estate sono stati ammazzati decine di bambini.

Da fine luglio, da quando la Turchia bombarda i curdi, a Kadikoy, che dopo piazza Taksim è la seconda zona protagonista della vita politica e antagonista di Istanbul, non c’erano più state manifestazioni o cortei. Sistematicamente, la polizia arrestava, o prendeva in custodia preventiva, i partecipanti. Sempre con gli stessi metodi infami. Ad Istanbul da allora non si era più potuto esprimere dissenso. Solo ieri sera un corteo molto popolato ha preso piede, un corteo che ha attraversato solo la via principale del quartiere. Un corteo che è durato non più di mezz’ora. Un corteo che giurava di sapere di chi fosse la responsabilità di quello che è successo. Le persone urlavano in modo uniforme e potente la loro rabbia e la loro sofferenza. Dopo questo breve tragitto il corteo si è sciolto in silenzio. Ad Istanbul, dopo l’attentato di Ankara, la società è sofferente. Si, è sofferenza quella che si legge negli occhi della gente, immenso dolore, ma non paura.