EUROPA

Costruiamo un’Europa egualitaria

Alcune considerazioni sul Manifesto a partire dalla discussione con l’autore Karl Heinz Roth e Sergio Bologna […] , tenutasi durante la presentazione del libro il 6 giugno nella facoltà di Scienze politiche della Sapienza, nell’ambito del meeting No Jobs Let’s Act.

Il processo di impoverimento in Europa ha raggiunto livelli inimmaginabili solo qualche anno fa. Deindustrializzazione, disoccupazione di massa, pignoramenti immobiliari, con le dovute differenze geografiche, stanno cambiando il volto dell’Europa.

Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou si chiedono all’inizio del loro Manifesto com’è potuto accadere tutto questo. Le ragioni sono molteplici e vanno indagate a partire dall’emersione di un mercato dei capitali liberalizzato e finanziarizzato, come risposta alla recessione degli anni ’70, la cui arma principale è un esercito di lavoratori poveri strutturalmente consolidato con un’autonomia solo apparente. Per comprendere la crisi attuale è necessario indagare la specificità europea all’interno di questo processo.

La Comunità Europea nasce nel 1958 ­– momento in cui in Europa si concludeva il piano Marshall ­–, erede della Ceca (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio), allarga i suoi fondamenti oltre il settore del carbone e dell’acciaio: sospensione delle tariffe doganali, abolizione del controllo sugli spostamenti di capitali e omologazione delle politiche commerciali.

Alla base del fondamento della CEE vi è un’alleanza strategica tra le classi dominanti di Francia e Germania. Ma la strategia neomercantilista tedesca – una continua riduzione del costo del lavoro interno e della domanda interna, per assicurarsi mercati esteri sempre più estesi – mise fin da subito in questione l’asse Parigi-Bonn. Il costante avanzo commerciale nel bilancio della Germania dell’Ovest provocò un deficit cronico nella CEE, facendo divenire il marco “il carro armato” della comunità fin dagli anni ’60. Secondo i due autori questo squilibrio genetico è uno dei nodi centrali al cuore della crisi.

Tramite l’istituzione del “serpente monetario” nel 1972 e l’introduzione della valuta virtuale ECU nel 1979, la CEE sembrò riuscire ad assorbire le due crisi petrolifere, la grande inflazione e le politiche monetarie espansioniste degli USA. La Bundesbank dominava tutto il processo con una politica di alti tassi di interesse e una politica monetaria restrittiva, rendendo il dumping delle esportazioni tedesche incolmabile. Agli altri paesi non rimaneva che direzionarsi verso una politica di “svalutazione interna” per promuovere la propria competitività, che oltre alla svalutazione monetaria vera e propria, prevedeva l’abbassamento dei salari, la riduzione dei servizi sociali e l’aumento della tassazione sui redditi. Così agli inizi degli anni ’80 si aprono le porte alla prima ondata di politiche di austerità.

Dato che la politica della CEE sembrava risultare vincente, la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Danimarca nel 1973 decisero di entrare a farne parte e «negli anni successivi ci furono ulteriori ondate di adesioni alla CEE che trasformarono la Comunità o Unione Europea da grande spazio economico a grande potenza in espansione» (p. 26).

Così si delinea un’Europa come superpotenza imperialista guidata dal blocco neomercantilista tedesco. Il progetto di integrazione europeo, in questo senso, si è basato su tre capisaldi: la riunificazione della Germania e l’espansione verso est, la guerra in Jugoslavia e l’istituzione del trattato di Schengen.

Nonostante l’espansione verso est, la guerra e il controllo dei confini ci sembrino i nodi centrali attorno a cui si è costruita l’Unione, ci pare che il concetto di “nuovo imperialismo europeo” non riesca a cogliere fino in fondo l’attuale conformazione europea. Non sempre, infatti, gli interessi espansionistici europei formano un blocco unico, come per l’appoggio alla guerra in Iraq e più tardi nell’intervento libico. Dubbia è anche una stretta convergenza di politiche nel recentissimo caso ucraino. Se poi questa potenza imperialista sia veramente indipendente dagli Stati Uniti, o lo sia solo finché non mette in discussione gli interessi americani, è nodo ancora tutto da sciogliere. Inoltre, non bisogna mai dimenticare quanto sia oggi stretto l’intreccio tra capitali europei e globali, così come messo in risalto anche dai due autori del Manifesto.

Dopo la riunificazione della Germania, vera e propria incorporazione della DDR nella Germania dell’Ovest, la sigla del trattato di Maastricht, con l’introduzione della moneta unica e la nascita della BCE, sulla base del modello della Bundesbank, la strategia neomercantilista ne esce più che rafforzata.

In Germania come in tutta Europa, con la metamorfosi della social-democrazia, il fallimento dell’eurocomunismo, l’ascesa e il cambiamento dei verdi, le classi dirigenti della sinistra hanno deciso di non costruire un progetto alternativo al neoliberismo nascente, ma di sposarlo appieno. Così se nell’aerea transatlantica sono stati le amministrazioni Thatcher e Reagan a promuovere il nuovo modello, nell’aerea continentale sono stati i governi a guida rosso-verde a smantellare la regolamentazione del mercato del lavoro e della previdenza sociale. Il governo Schröder con Agenda 2010 e il Piano Hartz IV si fa l’apripista dei piani di austerità come risposta alla crisi. «L’idea socialdemocratico-keynesiana della piena occupazione venne sostituita da un modello di piena sotto-occupazione (…) malpagata, che, seppure ai minimi termini, rimase integrata nel sistema sociale» (p. 34-35).

La crisi del 2007 coglie impreparata l’Europa, che dopo l’entrata dell’euro aveva vissuto un periodo di relativa floridità economica. Le prime contromisure messe in campo sono il salvataggio delle banche, che in un primo momento viene associato con qualche misura anticiclica, mentre gli ammaccati sistemi di welfare ammortizzano le prime devastanti ricadute sociali della crisi. Il governo tedesco, però, impedisce qualsiasi piano di stimoli a livello europeo, nel 2009, con il salvataggio di Lettonia e Ungheria da parte di BCE e FMI, si chiarisce la linea politica europea. Si imporrà così su tutto il continente una rigida politica di austerità e di rientro dal deficit, e nessun incremento anticiclico della domanda può essere nemmeno pensato.

I piani di austerità hanno due scopi principali: impedire compromessi tra debitori e creditori, per far gravare tutto il peso del salvataggio del sistema finanziario sullo stato, e ridurre i costi del lavoro dei paesi periferici fino a raggiungere i peggiori salari della zona centrale. «Dunque è chiaro: i programmi di austerità hanno il compito di insediare a breve termine in tutta Europa il modello economico della potenza tedesca».

Quale alternativa è possibile in una tale crisi economica, sociale e democratica? Il Manifesto si interroga fino in fondo sul possibile programma per la costruzione di un’alternativa credibile. In prima istanza si riscontra il limite del dibattito sull’euro, che concentra tutti i problemi solo nella sfera monetaria e finanziaria, tralasciando completamente la questione sociale e democratica. In più «qualcosa non funziona, se l’ala nazionalista e conservatrice dell’euroblocco neomercantilista ha le stesse argomentazioni degli esacerbati rivali di sinistra del sud»(p. 103): cioè l’uscita dall’euro!

Per la costruzione di qualsiasi programma alternativo sono necessarie tre premesse non scontate: il superamento del modello rivoluzionario e della stretta dicotomia tra riforme e rivoluzione; l’uscita dal paradigma del “nazionalismo sistemico”, in cui per molto tempo è stato imbrigliato il movimento operaio; la terza premessa si riferisce alla questione «della prassi sociale (…) e si pone il problema di quali siano le condizioni della formazione di una nuova configurazione di classe, che salvaguardi la molteplicità e la pluralità culturale del multiverso, pur costituendo una solida resistenza sociale» (p.112).

Su questo ultimo punto, le migrazioni continentali, soprattutto di giovani qualificati, fanno intravedere la possibilità di un processo di integrazione europea “dal basso” e sono una tendenza reale verso l’omogeneizzazione delle condizioni di vita delle classi subalterne, anche se ciò non significa che siano già di per sé reti di resistenza.

I due autori del manifesto tramite un programma di azione in 9 punti, di certo in parte utopistico, delineano la possibilità della nascita di un’Europa federale basata sui comuni, raggruppati in cantoni e regioni, fondata su politiche egualitarie, pratiche di democrazia diretta e autogoverno consiliare.

Come sarà possibile questa transizione? Non sono che le lotte a poterlo determinare nella concretezza della resistenza alle politiche neoliberali e alla nuova accumulazione capitalista.

Di certo questo Manifesto, con tutti i suoi limiti, può essere un ottimo mezzo per un confronto a livello transnazionale su analisi e proposte concrete per un’Europa della democrazia radicale, contro ogni nostalgia sovranista e nazionale, tanto meno eurocentrica.

«Se si riuscisse a creare un orizzonte comune di prassi tra i settori portanti dell’economia alternativa e le attiviste e gli attivisti per la riappropriazione sociale, sarebbe allora possibile un salto di qualità che superi i confini delle “riforme decisive” nella direzione di una società egualitaria post-capitalista: come prova concreta del fatto che è possibile appropriarsi collettivamente della ricchezza accumulata attraverso il lavoro reificato e riconoscersi in quella soggettività sociale libera dal dominio che si va sviluppando» (p. 130).