MONDO

Quando la sopravvivenza non basta più: il ritorno della lotta per la vita in Iran

L’improvviso risveglio delle manifestazioni a Tehran, a partire dal bazar, attesta lo stato della crisi economica e della svalutazione, testimoniando la crescente difficoltà della riproduzione sociale. Su una mobilitazione ancora frammentaria grava l’ombra di Israele e risuonano sporadici slogan monarchici

Da ieri sono iniziate proteste nel bazar di Teheran. Le e i manifestanti sono scese in strada in risposta al drastico aumento del costo della vita, all’impennata del dollaro e alla progressiva svalutazione della moneta nazionale. Le proteste, inizialmente circoscritte all’area del bazar, hanno oggi oltrepassato i confini corporativi e si sono estese allo spazio urbano, coinvolgendo numerose zone della capitale e attirando una partecipazione crescente della popolazione.

Nel primo giorno di sciopero, il valore del dollaro ha registrato in poche ore un aumento di circa 7.000 toman [n.d.r.: la parola “toman” designa un multiplo decimale della valuta ufficiale dell’Iran, il riyal], raggiungendo quota 147.000 toman (circa 1,47 miliardi di rial, pari a un dollaro statunitense sul mercato informale). Questo balzo improvviso ha reso evidente una crisi che da anni si accumula all’interno di una struttura economica fondata sulla finanziarizzazione, sulla corruzione sistemica e sulla repressione di classe. Una crisi tutt’altro che imprevedibile, che solleva piuttosto una domanda centrale: perché fino a oggi le politiche di impoverimento, l’aumento dei prezzi e la crisi della riproduzione sociale non avevano incontrato una risposta collettiva più ampia?

Il secondo giorno, con l’estensione degli scioperi e il loro intreccio con le manifestazioni di strada, il dollaro ha perso circa 10.000 toman rispetto al giorno precedente. Questa oscillazione rivela un dato strutturale: la classe capitalistica e le reti mafiose che governano l’economia iraniana non solo non temono il crollo della valuta nazionale, ma traggono profitto proprio dall’inflazione, dall’instabilità e dalla svalutazione. Da questa dinamica emergono nuovi cicli di accumulazione, estrazione e corruzione, mentre la repressione di classe si intensifica e le lotte sociali vengono sistematicamente neutralizzate. In un contesto di repressione politica e di governo poliziesco, ciò ha aperto la strada a una forma estrema di accumulazione parassitaria. Eppure, oggi le lotte tornano a emergere: i commercianti del bazar rifiutano collettivamente di lavorare e incoraggiano altri a chiudere le proprie attività.

Parallelamente, giungono notizie di chiusure totali o parziali di numerosi esercizi commerciali, di una massiccia presenza delle forze di sicurezza e di tentativi di controllo e dispersione delle e dei manifestanti. Lo spazio urbano, in particolare le aree centrali ed economicamente rilevanti, appare fortemente militarizzato, rendendo evidente il nesso strutturale tra crisi economica e logica repressiva.

Da un lato, il governo e i circuiti finanziari a esso legati hanno compromesso alla radice le possibilità di riproduzione della vita; dall’altro, attraverso arresti, esecuzioni, violenza di Stato e repressione di strada, viene portata avanti una forma estrema di neoliberismo autoritario.

L’aumento costante dei prezzi del dollaro e dell’oro favorisce esclusivamente quella classe che detiene valuta, terre, capitale e mezzi di produzione, e che continua a rafforzare i propri circuiti di accumulazione ed estrazione. Al contrario, lavoratori e salariati sono costretti a ricevere il proprio reddito in una moneta profondamente instabile e svalutata. Le condizioni elementari della vita delle classi subalterne vengono così negate, mentre lo scambio della forza-lavoro viene ridotto, dallo Stato e dagli estrattori di rendita, alla sua forma più economica e violenta.

Per queste ragioni, le proteste in corso non possono essere interpretate come una semplice reazione contingente all’aumento dei prezzi o alle fluttuazioni economiche. Esse esprimono una crisi strutturale dell’economia politica dominante, in cui povertà, inflazione e insicurezza materiale diventano strumenti di governo, incidendo direttamente sui corpi, sul tempo di vita e sull’esperienza quotidiana delle popolazioni.

Il collasso della riproduzione sociale non è soltanto un indicatore economico, ma il segnale di una profonda erosione della possibilità stessa di vivere all’interno dell’ordine esistente. Un ordine che, combinando spoliazione economica e governo poliziesco, produce popolazioni eccedenti e trasforma lo Stato da garante del welfare a dispositivo di controllo e regolazione al servizio dell’accumulazione.

In questo contesto, le rivendicazioni materiali si trasformano progressivamente in una forma di rifiuto sociale che interrompe la logica dell’obbedienza e apre nuove possibilità di azione collettiva. L’estensione delle proteste dal bazar allo spazio urbano ne è un chiaro segnale: il passaggio da richieste settoriali a un conflitto in cui la vita stessa diventa il terreno centrale della lotta. Sebbene il governo tenti di confinare le mobilitazioni entro un quadro corporativo – sfruttando il tradizionale conservatorismo del bazar – la continuità dello sciopero rappresenta un colpo significativo per la struttura del potere. Nonostante questi tentativi, molte proteste si sono riversate nelle principali arterie cittadine, saldando la contestazione contro il caro-dollaro a una critica più ampia contro la totalità del regime della Repubblica Islamica.

In questo senso, le mobilitazioni attuali possono essere lette come un tentativo di riappropriazione del tempo, delle possibilità di vita, della ricchezza comune e della dignità dell’esistenza. Azioni frammentarie ma dense di significato, che anche in assenza di una struttura organizzativa unitaria, conservano la capacità di destabilizzare la logica dell’accumulazione, della repressione e della riproduzione dell’ordine dominante.

Tuttavia, va riconosciuto che su queste proteste grava l’ombra di Israele e dell’opposizione neoliberale monarchica: a differenza della rivolta di Jina, oggi si sentono chiaramente slogan a sostegno di Reza Pahlavi. Questa presenza rende il quadro più complesso e si pone in netto contrasto con le aspirazioni popolari alla libertà e alla riappropriazione delle condizioni di vita. Per questo motivo, mantenere uno sguardo critico e costruire un discorso conflittuale e di classe rimane una necessità imprescindibile. La critica e la lotta contro il fascismo della Repubblica Islamica non possono, nemmeno per un istante, essere sospese.

La copertina è a cura di Frida Rosari

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