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Afghanistan: tra terremoto e apartheid di genere, il destino delle donne invisibili
Dopo il terremoto del 31 agosto, migliaia di donne e bambine sono rimaste intrappolate sotto le macerie, ostacolate nei soccorsi e private dell’accesso alle cure. In Afghanistan, anche la salvezza viene negata dal controllo patriarcale, ma le donne continuano a resistere
Domenica 31 agosto l’Afghanistan orientale è stato colpito da un terremoto di magnitudo 6, che ha già causato 2.200 vittime e 3.600 feritə. Tra di loro moltissime donne e bambine, sorprese dal sisma e rimaste intrappolate sotto le macerie delle proprie abitazioni.
Tra macerie e restrizioni: il peso del terremoto ricade sulle donne
Come previsto dalle rigide restrizioni imposte dall’“Emirato”, alle donne è, di fatto, vietato uscire di casa senza autorizzazione e senza la presenza di un accompagnatore di sesso maschile. Questo divieto vale anche in situazioni di emergenza, come nel caso di un terremoto. Per questo motivo, molte hanno esitato a cercare riparo in spazi aperti o in strada, finendo per essere tra le più colpite.
Inoltre, referenti delle principali ONG operanti sul territorio segnalano gruppi di donne ferite, ammassate all’interno delle abitazioni distrutte, alle quali i familiari continuano a impedire di uscire e cercare riparo altrove, in un’escalation di insicurezza e caos sempre più difficile da arginare.
Un simile scenario si era già verificato nel 2023, quando nella provincia di Herat una serie di scosse di forte intensità provocò 1.480 vittime e distrusse oltre quaranta siti di soccorso sanitario. In quella occasione, l’UN Women (United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women) riportò un dato allarmante: quasi il 60% delle vittime, dei feritə e delle persone scomparse era composto da donne e bambine.
Il sisma verificatosi a fine agosto segna dunque un’ulteriore fase critica nella già drammatica situazione economica, sanitaria e sociale in cui si trovano a vivere le donne afghane, a quattro anni dalla presa di potere dei Talebani.
Ignorate: l’oppressione sotto le macerie
In questo già drammatico quadro si inserisce l’attuale condizione delle donne e delle bambine in seguito al terremoto di fine agosto.
Secondo Pangea Onlus, molte delle vittime rimaste intrappolate sotto le macerie sono state deliberatamente ignorate perché donne. In quanto tali, infatti, secondo la “legge” imposta dai Talebani, non possono essere toccate dai soccorritori, essendo questi uomini estranei al loro nucleo familiare.
Per lo stesso principio dell’haram (proibito), le donne ferite non hanno potuto nemmeno essere trasportate sui mezzi di soccorso, poiché in assenza di un familiare di sesso maschile. In molte sono state perciò costrette a cercare aiuto presso i checkpoint e, fatte attendere per ore in condizioni gravissime, non sono sopravvissute.
Come riporta inoltre l’Osservatorio Afghanistan del CISDA, anche per coloro che riescono a raggiungere uno dei pochi ospedali ancora operativi, le condizioni di accoglienza e assistenza non sono migliori. L’esclusione sistematica delle donne dalle università, dal mercato del lavoro e dalle ONG ha infatti eliminato la componente femminile all’interno del personale medico e infermieristico, che oggi è composto esclusivamente da uomini e, di conseguenza, non è autorizzato a fornire loro cure.
Pur non esistendo una legge che vieti a un medico uomo di salvare una donna ferita, di fatto è ciò che sta accadendo da più di dieci giorni. Tutto ciò sta causando, ora dopo ora, un aumento nel numero di donne e bambine che perdono la vita e che invece potrebbero essere salvate.
Secondo le stime dell’UNFPA (The UnitedNations sexual and reproductive healt Agency), inoltre, tra le persone colpite dal sisma vi sono circa 11.600 donne incinte, esposte, in assenza di cure, a un alto rischio di aborto spontaneo, complicazioni neonatali e, in molti casi, anche di morte.
Ostaggi del regime: la vita delle donne afghane
Quello che è accaduto successivamente al 31 agosto alle donne e alle bambine afghane è la diretta conseguenza di un piano di annientamento patriarcale sistemico, che il fondamentalismo islamico cerca di mettere in atto da anni, non solo in Afghanistan.
Essere donna non è semplice in nessun Paese del mondo, ma esserlo sotto un regime integralista comporta, drammaticamente, un numero elevatissimo di restrizioni e divieti, che incidono profondamente sulla vita, sia privata che pubblica.
Dal 2021, con la riconquista del potere da parte dei Talebani dopo il ritiro delle truppe statunitensi, i diritti delle afghane sono stati ulteriormente e drasticamente ridotti. Alle donne è stata impedita qualunque forma di autodeterminazione, sia essa in ambito familiare, personale o pubblico. Da un punto di vista “legale” non vengono loro riconosciuti nemmeno i più basilari diritti umani, come ad esempio l’accesso all’istruzione – garantito alle bambine solo fino al dodicesimo anno di età – o al mondo del lavoro, incluso il settore pubblico e quello delle ONG.
Secondo la piattaforma MoreToHerStory, circa l’80% delle donne residenti in Afghanistan viene coattamente “invisibilizzato” ed escluso dalla vita sociale e politica del Paese, configurando un sistema che a tutti gli effetti può essere definito come un’ “apartheid di genere”.
Le donne sono state estromesse da palestre, parchi e ristoranti, costrette a chiudere le proprie attività commerciali, ad abbandonare le università, a indossare il burqa e a vivere sotto il costante monitoraggio e controllo da parte di un mahram (tutore legale maschio).
Come se non fosse sufficiente, nell’ultimo anno il regime ha promosso nuovi editti contro le libertà delle donne, impedendo loro di guardare fuori dalle finestre o di parlare, poiché la loro stessa voce viene considerata awrah, ossia qualcosa che deve essere nascosta.
Secondo la AIHRC (Afghan Independent Human Rights Commission), circa l’80% dei tentativi di suicidio in Afghanistan – soprattutto nella zona di Herat – riguarda le donne, a conferma della profonda e collettiva condizione di sofferenza psicologica in cui versano.
Il terremoto dopo il terremoto: sopravvivere senza diritti
Esiste poi un’ulteriore criticità legata a eventi catastrofici di tale portata: quella delle sfollate. Stando ai dati dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), il terremoto ha raso al suolo numerosi villaggi, distruggendo quasi 7.000 abitazioni e generando un numero di sfollatə pari a circa 40.000 persone, che allo stato attuale vivono in tende improvvisate o all’aperto, senza accesso ad acqua potabile e servizi igienici.
Sempre in base alle restrizioni imposte dai Talebani, alle donne è proibito mostrarsi in pubblico e avere interazioni sociali. Questo comporta, per le sfollate, tra le altre cose, l’impossibilità di muoversi, chiedere assistenza, provvedere alla propria igiene personale, cambiarsi d’abito o togliersi il burqa, costringendole a vivere in uno stato di ulteriore confinamento, all’interno di una situazione già durissima di prostrazione fisica e psicologica.
A queste si aggiungono poi le numerose bambine e adolescenti rimaste orfane dopo il sisma, che attualmente rischiano di essere rapite per divenire “spose bambine” di soldati o membri dell’organizzazione talebana, oppure di finire vittime di sfruttamento lavorativo, traffico di esseri umani e prostituzione.
Molte di loro rischiano anche di essere cedute come merce di scambio, sia economico che maritale, e portate lontano dai villaggi d’origine, scomparendo così dai radar di tutela delle ONG locali.
Un altro gruppo estremamente vulnerabile è poi quello delle vedove.
Già escluse dal mercato del lavoro e spesso sottoposte a violenza economica da parte di familiari e parenti,le donne rimaste sole si troveranno presto in una condizione di ulteriore isolamento e grave difficoltà economica.
Infatti, in assenza del marito, non potranno accedere al denaro familiare, anche se disponibile, né ottenere assistenza legale o ricevere gli aiuti umanitari che l’OMS sta cercando di distribuire in questi giorni.
Private del sostentamento finanziario, molte di loro saranno costrette, come già accaduto in passato, a introdurre i loro figli – anche molto piccoli – nel mercato dello sfruttamento.
Secondo una recente indagine di di Save the Children, già prima del sisma, oltre un terzo delle famiglie con capofamiglia donna aveva almeno un figlio impegnato nel lavoro minorile e questo dato è purtroppo destinato ad aumentare.
Radici di resistenza: le afghane non si piegano
Nonostante le gravissime restrizioni e l’altissimo livello di oppressione, le afghane sono tutt’altro che passive. Da sempre, infatti, la resistenza è parte viva e attiva nella vita delle donne, che continuano a unirsi nello sforzo collettivo di combattere la violenza sistemica a cui vengono quotidianamente sottoposte.
In clandestinità, e rischiando la vita, proseguono l’alfabetizzazione superiore delle ragazze adolescenti, creano gruppi di formazione professionale, si riuniscono per creare reti di supporto psicologico e per l’accesso all’assistenza ginecologica.
Nonostante la possibilità di manifestare ed opporsi apertamente sia quasi nulla, le attiviste sono molte, e – attraverso canali clandestini – combattono senza sosta. Shamail Naseri è una giornalista ed è una di loro. Ricercata dal regime per aver sfidato le restrizioni e aver tentato di divenire la voce delle donne afghane, è riuscita a sfuggire all’arresto grazie anche alla pratica dell’ “house to house” (di casa in casa) e continua a lottare anche se in esilio forzato.
Come lei, molte altre continuano a mettere a rischio la propria vita per raccontare e documentare la resistenza delle donne afghane. Tra queste, Zahra Nader, caporedattora della redazione femminile Zan Times, che nel documentario intitolato Donne afghane in prima linea testimonia la forza delle attiviste che, negli ultimi anni, hanno manifestato per le strade contro il regime, venendo per questo picchiate e imprigionate. Anche nel caso del terremoto la resistenza non rimane in silenzio. Sebbene non vi siano testimonianze dirette, le principali ONG in campo parlano di mobilitazioni di donne in molte località colpite. É probabile che nelle zone rurali le attiviste stiano già attivando reti comunitarie informazione sanitaria.
In un Paese dove la voce femminile è stata ridotta al silenzio per decreto, le donne afghane continuano dunque a resistere – con i piedi nelle strade, con i libri letti di nascosto, con la forza di chi non può permettersi di avere paura. Molte di loro resistono con l’esistenza stessa, con ogni passo compiuto fuori da casa, con ogni sguardo fuori dalla finestra e ogni canzone sussurrata piano.
La loro non è solo una battaglia per i diritti: è una lotta per la dignità, per il futuro, per il diritto a esistere. E anche se spesso invisibili agli occhi dell’opinione mainstream, queste donne gridano e sono il volto più autentico della resistenza afghana.
Sono vive, sono tante, sono tutte. Sono Tamana Zaryab Paryani, sono Lalah Osmany, sono Jamila Afghani, sono Zahra Nader, sono Shamail Naseri.
Per quelle che ancora combattono e per quelle che non ci sono più: finché anche una sola resterà in piedi, la loro lotta le condurrà alla libertà.
L’immagine di copertina è di United nations photo (Flickr)
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