MONDO

Turchia: finite le elezioni, continua il massacro

Erdogan continua la sua offensiva contro il popolo curdo. Nel silenzio della comunità internazionale il “piccolo sultano” ha messo sotto assedio una nuova città, Silvan. Dalla chiusura delle urne, le violenze contro la popolazione civile e gli omicidi commessi dall’esercito turco non si sono mai interrotti.

Cosa è cambiato dopo la vittoria di Erdogan nelle ultime elezioni in Turchia?

Poco o niente verrebbe da dire. E lo si dice a denti stretti, con l’amaro in bocca ed un grosso senso di impotenza che contagia ogni qualvolta si scorrono le notizie rilanciate dai tweet degli attivisti, tra i pochissimi strumenti, e forse il più importante, attraverso cui dopo la sbornia mediatica delle elezioni si racconta quanto di terribile sta accadendo in quel pezzo di mondo alle porte della fortezza Europa.

Quel pezzo di mondo si chiama Bakur. È il Kurdistan Turco che abbraccia buona parte del sud-est del paese. Qui nulla è cambiato dopo le elezioni del 1° Novembre, lì dove si moriva sotto gli attacchi delle forze speciali turche, una lunga scia di sangue pare non smettere mai di scorrere.

Se la giornata del voto nel sud-est turco è trascorsa in un clima di guerra con i brogli, le intimidazioni, gli arresti e la militarizzazione, a partire dalla chiusura delle urne la violenza di Stato del sultano Erdogan è tornata a colpire cieca e sempre più feroce.

Già dalla serata del 1° Novembre i bombardamenti dell’aviazione turca hanno ripreso a colpire insistentemente le basi del PKK nella zona della Medya (Kurdistan Iracheno). Immediatamente dopo, gli attacchi, così come successo negli ultimi mesi, si sono rivolti contro quelle città dove l’HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha raccolto un vero e proprio plebiscito.

Succede dunque che all’indomani delle elezioni, e con ancora i capi di Stato europei affaccendati nel complimentarsi con l’alleato turco per “il trionfo”, a Yuksekova (HDP 93,7%) due giovani di 18 e 20 anni vengano uccisi deliberatamente dalla polizia mentre si trovano per strada. Stessa cosa accade ad un ragazzo ad Hakkari.

Il 3 novembre a Silvan, città di 90mila abitanti nel distretto di Diyarbakir dove HDP è uscito dalle urne con l’88% di voti, viene dichiarato per la sesta volta il coprifuoco. A partire dal 18 Agosto (prima dichiarazione di coprifuoco) e da quando la popolazione ha proclamato l’autogoverno, la città è stata praticamente sotto attacco costante da parte delle forze speciali turche.

Dalle 5 del mattino attraverso gli altoparlanti dei mezzi blindati e delle moschee viene imposto un nuovo periodo di terrore. Sono in particolare i quartieri di Tekel, Mescit e Konak ad essere nel mirino del governo di Ankara, tanto da far scappare ad un ufficiale del Ministero dell’interno la volontà di voler “cancellare i tre quartieri dalla mappa di Silvan”.

Müslüm Tayar, 22 anni, è stata la prima vittima del nuovo coprifuoco. Ucciso dalla polizia con 2 proiettili nella gamba, 2 nello stomaco ed 1 nel torace mentre tornava a casa sua.

Essere sotto coprifuoco significa non poter uscire di casa pena la morte, mentre i mezzi di polizia ed esercito, via terra e via aria, sparano e bombardano le case degli abitanti in modo casuale ed indiscriminato. Come già accaduto a Cizre ed in altre località del Kurdistan, la rete GSM smette di funzionare, non c’è internet e le comunicazioni con l’esterno sono rese quasi impossibili. Corrente elettrica e forniture di acqua vengono staccate, i negozi sono chiusi, l’obbiettivo è affamare le persone, magari costringerle ad uscire di casa per necessità ed ucciderle per mezzo dei cecchini che, appostati sui minareti delle moschee e sugli edifici più alti, sparano a qualsiasi cosa si muova.

Il 4 Novembre lo “stato di emergenza” viene dichiarato in altre 22 diverse zone del distretto di Diyarbakir. Per le strade si materializzano i carri armati, mentre l’ospedale occupato militarmente viene reso inaccessibile a chi ha bisogno di cure mediche.

Silvan, le immagini dell’assedio

{igallery id=8368|cid=48|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0}

Oggi Silvan è entrata nel suo 8° giorno di coprifuoco. L’attacco continua in modo pesantissimo anche attraverso l’uso di droni ed elicotteri che bombardano pure quelle zone della città dove ufficialmente il coprifuoco non è stato dichiarato. Le poche immagini che riescono a superare la censura del regime, disegnano un contesto di distruzione inimmaginabile: case, luoghi di lavoro, scuole, luoghi di culto, nulla sfugge alla furia delle forze speciali.

Poi c’è il suono di Silvan. Lo si riesce ad ascoltare grazie ad alcuni video che stanno circolando sui social network. È un suono che mette i brividi, quello degli spari e dei proiettili che sibilano vicino alle finestre, delle esplosioni e delle urla delle persone che scappano dalle loro case per sfuggire alla morte. È il suono della democrazia di Erdogan.

Sono ufficialmente 7 le persone uccise in questi 8 giorni. Sono quasi tutti giovanissimi, come Sertip Polat (20 anni) ed Engin Gezici (24 anni) padre di tre figli, ucciso insieme a sua zia accorsa per soccorrerlo e colpita dai cecchini. Si aggiungono ad altri 7 morti ammazzati, quelli uccisi dal 18 Agosto all’8 Ottobre: Hasan Yilmaz (9 anni), Firat Simpil (13 anni), Vedat Akcanım (16 anni), Bilal Mengil (16 anni) solo per citare i più giovani.

Dentro i quartieri la popolazione prova a resistere con enorme determinazione e dignità. Nonostante qualcuno trovi sempre buon gioco a parlare di scontri tra PKK ed esercito turco, qui i guerriglieri non ci sono. L’autodifesa viene messa in atto dai giovani (e meno giovani) costituiti in unità di difesa popolare. Attraverso la costruzione di barricate, l’uso di molotov, pietre, fuochi d’artificio ed armi (poche) si tenta di impedire all’esercito di entrare dentro i quartieri per uccidere e massacrare. L’autodifesa è un diritto fondamentale, una necessità a cui non si può rinunciare.

Qui, prima e dopo la proclamazione dell’autogoverno, si è messo in moto un processo di partecipazione ed autonomia in cui all’interno dei quartieri tutti sono coinvolti. È il confederalismo democratico teorizzato da Ocalan, attuato in Rojava e che ormai inizia ad essere realtà anche in diverse città del Bakur. La popolazione si riunisce in assemblee, discute e decide di educazione (con lezioni in curdo, cosa assolutamente vietata nelle scuole turche), di economia, ecologia, giustizia, sanità ed autodifesa.

“La gente di Cizre sta morendo, la gente di Silvan sta morendo, le persone a Bismil stanno morendo. Non siamo forse umani?Oggi Silvan si sta ribellando, non dimenticheremo il sangue dei nostri martiri, continueremo con il nostro percorso. Giuriamo sul sangue dei nostri martiri, non ci arrenderemo!” sono le urla di un ragazzo ripreso in un video che invita alla mobilitazione.

Proprio oggi il DBP (Partito delle Regioni Democratiche) ha lanciato un appello alla mobilitazione generale, in particolare a Diyarbakir (dove la gente è già scesa in piazza), contro quanto sta avvenendo a Silvan. “Non si può rimanere in silenzio davanti alla brutalità. I curdi rimangono sotto un’enorme accerchiamento e soffrono di un nuovo massacro a Silvan. Se su questa vicenda prosegue il silenzio presto potremmo soffrire un grande dolore”, ha dichiarato la deputata HDP Ayşe Acar Başaran.

Intanto oggi un rapporto pubblicato dalla Commissione Europea parla di “progressi notevoli” della Turchia nella tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali anche se “rimangono ancora gravi carenze” riscontrate in particolare negli due anni. Probabilmente nel linguaggio “burocratese” le “gravi carenze” di cui si parla saranno le centinaia di morti ammazzati degli ultimi mesi, un prezzo che comunque l’Unione Europea è probabilmente disposta a pagare pur di avere un alleato come Erdogan in un’area più esplosiva che mai.

Nel frattempo, mentre a Silvan la popolazione viene massacrata, a qualche centinaio di km di distanza la città di Antalya il 15 e 16 Novembre ospiterà niente di meno che il G20, con i potenti della terra riuniti per decidere non si sa bene cosa, ospiti del sanguinario Erdogan.

Non si può rimanere in silenzio davanti alla brutalità. Il pericolo che corriamo è di “abituarci” alle uccisioni, ai morti, ai bambini colpiti dai proiettili, ai massacri senza fine. Possiamo assistere impotenti a quanto sta accadendo? Non possiamo permettercelo. Non dobbiamo permetterlo.

Per questo dobbiamo accogliere il grido disperato del popolo di Silvan. Occorre agire ora, perché domani potrebbe essere troppo tardi.

* Luigi d’Alife, autore del documentario “Il massacro di Cizre“, parteciperà insieme ad altri ospiti all’iniziativa “UNA KOBANE IN TURCHIA“, venerdì 13 novembre, alle h 18 a Esc Atelier (via dei Volsci, 159).