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CULT

Fare spazio nello spazio

Del teatro e della vita della “Compagnia Bartolini/Baronio”. Degli amanti e degli artisti. Ricordi sparsi di amici, che prima della “Compagnia”, non si conoscevano neanche. Con “Furore”, il capolavoro di Steinbeck sulla Grande depressione americana, “Bartolini/Baronio” saranno in scena al Casale Garibaldi (di Roma) sabato 13 aprile. Ma l’estate porterà con sé una importante novità: Josefine, di Kafka, tornerà a cantare. Per il popolo che verrà

Mi vorranno perdonare i maestri della Lingua e voi lettori, quando dico: Teatro è un verbo. È probabile – e anzi auspicabile – che non lo facciate, e questo, si capirà poi, lo renderà più vero. Perché dire “teatro” ha che fare col dire un movimento di cui ci rimane misteriosa l’estensione: come dire vivere, pensare, amare, col tradirli inesorabilmente per poterli compiere. Ecco allora, teatro non potrebbe essere che un verbo – declinato al plurale, se la grammatica lo consentisse –, o ancora meglio: un infinito– che (si) crea e disfa. Un’attività in corso, un fermento. C’è chi direbbe un’inquietudine, una gioia: fallire sempre meglio.

Lo vidi chiaramente nello spazio di una vecchia carrozzeria (ora luogo amato): Tamara B. e Michele B. stavano al mondo come Philippe Petit poggerebbe i passi sul cavo teso tra le Torri, ancora oggi e a dispetto della Storia, tra le sponde di un dirupo, di una crepa. Come se dipingessero. 

 

Occupare

 

Tamara B. e Michele B. compaiono – per me – scioperando, tanti anni fa: 2002. Lo sciopero si fece spazio, e a migliaia si presero Strike. Subito la domanda: cosa fare che non è mai stato fatto in un centro sociale, in città, nel mondo? Semplice: parlare, giocare, recitare, cantare, ridere, fare l’amore, ecc. Aspettando il genio, il grande artista, la «bella individualità», meglio fare come tutti: facendo ciò che tutti già fanno, per esempio il teatro, proprio allora – dunque – fare qualcosa di inedito. Il trucco della creatività? La ripetizione. Spiegaglielo, se ci riesci, ai trasgressivi, agli alternativi. Il Triangolo Scaleno, con tutti i suoi angoli, fece teatro, ovvero si fece spazio nello spazio. È vero, il teatro ci insegna che lo spazio c’è già, ma va sempre fatto e rifatto.

Non fu allora casuale che il primo spettacolo a Strike di Triangolo Scaleno fu dedicato a Kafka. Fu Kafka, infatti, a chiarire meglio di ogni altro che l’artista fa ciò che fanno tutti. Ma è maldestro, smarrisce la padronanza, lascia spazio – balbettando – a forze non umane (animali?).  Fu Triangolo Scaleno a portare Kafka dentro lo sciopero dello Strike. Cosa si può fare che non è mai stato fatto in un centro sociale, in città, nel mondo? Fare teatro, ma anche vedere il teatro che si fa. È sì, perché a Strike ci si dormiva, faceva freddo, c’era più di qualche pulce, c’era da pulire. Così è, nei centri sociali: si pulisce e si sporca, si sistema e si mette a soqquadro, e poi si ripulisce. Una fatica di Sisifo, ma simpatica. Poi con gli anni uno perde la pazienza ed è un peccato. O semplicemente sono passati gli anni.

Accadde poi, nell’estate del 2003, che ad Avignone il grande festival del teatro fu occupato dagli attori, dai tecnici, ecc. «Basta, ci stanno togliendo il sussidio»! Sappiamo che i francesi, fortunatamente, si incazzano. E spesso. Così: fermo il festival, ma di lì a qualche settimana ferma la Francia. Raggiungo Parigi per preparare il Forum Sociale Europeo. L’anno prima, Firenze, era stata un disastro. Centinaia di migliaia, intendiamoci, ma già si sentiva la cappa sinistra della sinistra. A Parigi conosco gli esuli, la banlieue, conosco gli intermittenti dello spettacolo. Invece di frequentare le assemblee (noiose) che preparano il Forum, sto sempre con gli intermittenti – grazie a Jeanne R. e Laurent G. E via di corsa occupiamo il tg serale di France 2. E via di corsa che occupiamo il Ministero francese delle Politiche Sociali. Fino a quando, tempo dopo, agli intermittenti non venne l’idea matta e raffinata di occupare Villa Medici a Roma, la notte di Capodanno. Fu così che i teatranti francesi arrivarono a Strike e gli scaleni fecero spazio alle lotte che chiedono spazio: scioperanti. Allora sì, ho un ricordo nitido di Tamara B. che chiede reddito per gli artisti – che alla fin fine sono tutti quelli che vivendo inciampano. Nessuno di noi, allora, poteva prevedere il giallo-verde, nessuno.

 

Illuminare

 

Eravamo tutti a Esc, come sempre. Lì dove ho ripetuto l’inizio, ancora una volta la prima volta. C’è Attraversamenti Multipli, c’è teatro: ma cos’è il teatro? Non si sa più, tutto (o quasi) è in scena. Comunque si dibatte, poi – inattesi – gli attori, musica dentro e fuori la scena, la scena errante. Bevo a stomaco vuoto, lo faccio spesso, giusto una piccola vertigine: perché farne a meno? Il problema, semmai, è l’abitudine (del corpo). Tamara B. ci chiama, pure Michele B. Facciamo gruppi e li seguiamo a gruppi, con chi arriva e chi va. Tu, Two: ovvero si comincia davvero a vivere dal due in poi. Uno non c’è, non c’è mai stato, ci spiace per Platone, Plotino, Proclo e tutti gli altri.

Uscendo da Esc si entra in una macchina, stretta. Nella macchina – tutti stretti – c’è la musica. Allora Tamara B. e Michele B. si guardano e si baciano. Sì, si guardano e si baciano, e finisce lì. Semplicemente fanno ciò che da sempre tutti fanno: dov’è l’arte, chiederà il critico? Fallo domandare, ché tanto pensa che l’arte sia una cosa che si trova da qualche parte. Chiediamoci invece, cos’è due? Due cuori che battono, due bocche che si baciano, due mani che si stringono. Due che si amano, fino «alla fine del mondo». Ma c’è un segreto ulteriore che afferro quella sera, stretto nella macchina, nel sedile posteriore sovraffollato: si tratta degli occhi di Tamara B. I suoi occhi sono illuminati, scintillano, brillano: vedendoli, mi commuovo. Allora, a pensarci bene, due è il fatto che la vita degli amanti – due o una moltitudine, «il contrario di uno» insomma – si illumina, in senso letterale; era freddo e diventa caldo, avevo sete e ora non più, avevo un macigno in gola – vi giuro – e adesso volo. Nulla a che vedere col Geist, intendiamoci: è sempre materia, più intensa però; semmai, dello spirito, è la carne. Tutto così semplice, dal tempo dei tempi, ma ci volevano gli occhi pieni di luce di Tamara B. nella macchina stretta in via dei Volsci per capirlo meglio. Ecco, allora, cos’è il teatro.

 

Cadere

 

Pochi giorni al debutto: il Rialto, il teatro ancora. Tamara B. mi aspetta con un thermos di tè caldo. Lo beviamo insieme nella “sala subito sulla destra, dopo le scale”; ci si scalda così noi, ché il riscaldamento non funziona. Lo spazio, però, è una fortuna (lo sanno bene le menti e i corpi di chi lavora con la scena, con la nudità a cui l’arte li chiama), e di più se si è a Roma, pare – o forse no, forse è solo vero ovunque e per chiunque–. In ogni caso, quel giorno tremiamo insieme per qualcos’altro. Tamara B. oscilla su un’altalena, Michele B. la investe con un intreccio di ombre; sto tenendo stretta la macchina fotografica quando realizzo: non c’è materia che non abbia peso. Me lo dice il racconto de La Caduta, il tragitto necessario ad arrivare a quel momento (ché cadono i sassi in uno stagno, come cade ogni storia nel rincorrere la visione del suo daimon). E se ciascuno ha un corpo, e se «una è la sostanza»: click. Segno il momento come il capitombolo nel pozzo all’incontrè di un’Alice tutta personale.

Del resto, – non a caso, e per tutti – i primi passi s’imparano dai primi ruzzoloni. E come altrimenti? È nel fallimento la possibilità di compiere un passo (che sia in avanti, indietro, sul posto… nello spazio, nel tempo, nel pensiero). “Sbagliare”, “fallire”, lo sappiamo. Sinonimi di cadere in errore, e meglio ancora, di errare– girovagare e perdersi, essere colui che perdendosi riconosce di essere quello specifico, magnifico, caso fortuito. Appare Il Matto, l’origine del mazzo: la gioia sorgiva, gioconda e scellerata dell’essere (ancora?) oggi attore di teatro, musicista, cantante, o artista. Infinite strade possibili aperte al suo andare, tenace e senza meta mentre inaugura il Mondo che incontra: l’attore, perfetto; quell’energia senza numero (le carte si conteranno solo dalla successiva: l’I, il Mago, l’artigiano) che schiude, singolare, il molteplice.

Almeno 100 persone, quasi un popolo che si getta nella caduta comune. La Sardegna, “dove altro prima?” Una miriade di storie. Un archivio di cronache umanissime tra le mani di Michele B. e Tamara B., raccolte in 6 tappe per altrettanti territori, i più disparati: moltitudini, che si accavallano (l’una all’altra, tra loro, con me), che si moltiplicano, si riproducono, si ripetono – l’ho già detto –: creano, una sola storia comune. Si mischia anche il tempo; chiacchieriamo in salotto, ascolto Michele B. cantare: «noi piccoli mondi sempre in bilico/camminiamo con lo stesso respiro», e cadiamo, di nuovo. Precipitiamo tutti, ciascuno nella propria spettacolare maniera. Deve essere questo il perché chi fa teatro fa teatro: semplice anche questo. Come la voce dell’artista che parla della strada fatta per arrivare lì, dov’è, e che già cammina di nuovo. Che parlando, forse più flebilmente di tutti, parla tutte le voci. Pronto a cadere, mai pronto.

 

 

Camminare

 

Una certa goffaggine, le scarpe ortopediche: infanzia d’artista. Intanto Michele B., che fa la musica, fa gli strumenti che fanno la musica: sta nel mezzo, tra l’artista e l’artigiano, nell’unico luogo che davvero conta. Il palco del Teatro Argot allora diventa una bottega di suoni, di gesti musicali. Intanto Tamara B., che torna e ritorna bambina adolescente donna, è legata. Cammina, corre pure, spesso cade: una certa goffaggine, appunto. Passi ci pone il problema di una vita: il principium individuationis. Cosa vuol dire diventare donna? Cosa, diventare artista, teatrante, attrice, regista? Quante tracce, allora, sul corpo di Tamara B. Le parole materne della madre amata che puntellano, i fantasmi che accerchiano l’adolescenza: ci sarà spazio per me o tutto lo spazio è già vostro? La vita singolare che si fa spazio nello spazio, come il teatro. Il teatro di una vita.

Ogni laccio, una caduta. Ogni passo, una fatica, e troppo spesso si torna indietro. Sì, non tutte le ripetizioni sono buone, anzi. Per questo l’artista è chi rimane bambino, ripetendo inventa cose nuove. Ma c’è di più: i passi della vita d’artista esibiscono il tratto maldestro dell’animale che siamo. Ecco chi è l’artista: quando gli altri rimuovono la goffaggine, l’artista non fa altro che rivelarla. «Piedi di scimmia»: dopo averli nascosti, tanta la vergogna, d’improvviso diventano occasione di scrittura, di invenzione e di parola. «Non mi nascondo più, cambio solo direzione».

È una storia privata, quella della bambina con i capelli rossi? No, il teatro ci ricorda che ciascuna vita singolare implica già un mondo, ogni storia ne implica tante altre. Allora l’artista ha semplicemente capito che «il più profondo è la pelle», sta lì tra il fuori e il dentro, nel mezzo della vita. Certo una vertigine! Ma gli amanti e gli artisti, Tamara B. e Michele B., non potevano vivere altrimenti. Può accadere, poi, che alla fine del viaggio si riesca a sentire tutto. Come voleva il poeta portoghese con tanti nomi:

 

Mi sono moltiplicato per sentirmi,
per sentirmi ho dovuto sentir tutto,
sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi,
mi sono spogliato, mi sono dato,
e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente.

 

Leggere

 

Dio, il demiurgo – dalle parole greche δήμιος e ἔργον (ovvero «del popolo» e «opera») –; da Platone in poi, l’entità che ordina l’affaccendarsi umano, la cui opera è il popolo, cioè il mondo vivente. “Meno distante, per favore, più vicino”: nella storia non si è fatto altro che pregare per lo svelamento, col movimento intimo che è l’approssimarsi (col sogno del contatto). In questo nostro regno delle anime vive – a cui vivo per appartenere – però, questa tensione sembra esaudirsi in un semplice ribaltamento, una capriola: Dio, allora, opera del popolo. La mirabile creazione che ha permesso di intuire l’essenza delle lacrime dell’umanità commossa, dove ogni buon dio si rifugia, ci racconta di un incontro; un coro che deve essersi levato con tanta potenza da reclamare alla luce la sua più profonda, comune, natura, all’alto dei cieli. E un incontro segna sempre una trasformazione (che sia per questo che quando stringiamo una mano ancora mai stretta diciamo: “Piacere”, perché conoscere il Mondo che quel corpo porta scritto sia per noi una sua lettura nuova, ci si augura, di qualcosa di bello, implicati già col nostro – così tanto, con così poco; una Eco di quel coro – in una scrittura comune). La reciprocità, il dono, il gran peccato della proprietà privata. L’altro dio.

 

 

Ci sono una cascata di lampadine a terra, quattro sedie, nei RedReading: due o più musicisti, una voce, il canto di Michele B., e un’altra, quella di Tamara B. che sale da dietro un leggio. Ovviamente un libro, lì per incontrare il teatro, e tutte le sedie che si riempiono del pubblico di quella sera. Uditori, nuovi o recidivi, che si trovano, e ritrovano, vicini (come vicini di casa, dico, o di stanza, di letto. Di posto, appunto), a quelle riempite in scena da chi insieme a B./B. (la Compagnia) è invitato a condividere lo spazio aperto del racconto. Allora «le candide strade si fanno più zitte, le stanze raccolte più intente», accolgono una storia, dei corpi, un dono scambiato come fosse per mano; il teatro, che piacere! Lo spazio che fa spazio all’idea di una piazza (come quella di quel piccolo paese dove abbiamo tutti riconosciuto per la prima volta cosa volesse dire noi); l’amata agorà, dove i cittadini riuniti dalla chiamata dell’aedo aspettano al banchetto il canto del viaggio dello straniero senza nome. Un esercizio di cittadinanza, i RedReading, di prossimità al noi. Noi, popolo di anime vive del teatro, noi «lì, come la vita della mia pelle».

I libri si incontrano, e pure le letture dei libri. Ciò che leggiamo ci è caduto addosso, fin da quando siamo balbettanti. Si inizia in casa, con i libri ascoltati solo per prender sonno. Poi con quelli che ci abituano a leggere, niente di più – sì, la lettura è un’abitudine del corpo che affolla la mente, di immagini-parole. Poi ci sono i libri da leggere per forza, a scuola – e guai se non ci fosse disciplina. Quindi quelli di cui non riusciamo più a fare a meno: leggiamo o mangiamo, la stessa cosa. Questi ultimi sono come gli incontri più belli, seguono l’adagio di Leibniz: «credevo di essere arrivato in porto, e sono stato rigettato in mare aperto». I libri cantati e musicati, o scoperti, da Tamara B. e Michele B. ci trascinano al largo – dove la vita è ancora possibile, dove la vita va ancora salvata. Per questo sono rossi. Per un secolo, l’America ha avuto terrore dei rossi, dei comunisti. E dal 1917 in poi non ha fatto altro che terrorizzarli. Allora erano italiani, greci, irlandesi, ebrei, ecc. Migranti e straccioni: do you remember? Rossi, sempre da cancellare, che sempre però si rialzano in piedi. Nonostante tutto. Così è il teatro della Compagnia: innanzi tutto resiste.

 

 

Tutte le immagini a cura di Margherita Masè